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INTERVISTA A PRODI: “CINA E USA EVITERANNO IL CROLLO DELL’EURO”

Luglio 6th, 2015 Riccardo Fucile

“L’EUROPA SI E’ PERSA PER STRADA, SE NON DIVENTA UN’AUTORITA’ FEDERALE SARA’ FATTA A PEZZI DAGLI STATI”

Alle 10 della sera, dopo aver seguito lo scrutinio, Romano Prodi è tranchant: «Diciamo la verità , il risultato del referendum greco in queste proporzioni non se lo aspettava nessuno. Non è più tempo di rinvii, l’ora è adesso: la Grecia sta scoppiando e se l’Europa non trova una soluzione, non è più credibile. Alla svelta si apra un tavolo per un compromesso in Grecia, ma al tempo stesso l’Europa ne apra un altro, più grande: abbandoni la dottrina di questi anni, perchè altrimenti – stiamo attenti – altri casi-Grecia si susseguiranno fino alla distruzione del disegno europeo. O realizziamo una autentica autorità  federale europea, una Europa federale, con un governo e un Parlamento forti, oppure le forze nazionali, che sono diventate dominanti rispetto alle istituzioni comunitarie, ridurranno l’Europa a pezzi».
Per cinque anni presidente della Commissione europea, ancora ascoltato da alcune delle più influenti cancellerie, da tempo Romano Prodi denuncia l’affievolimento dello spirito comunitario, la debolezza della leadership europeista della cancelliera di Germania e in questa intervista a “La Stampa” racconta come in prima persona abbia contrastato la deriva che poi ha portato alla crisi greca.
Dopo l’avventura greca, l’Europa potrà  essere la stessa?
«No, non potrà  essere la stessa, ma a salvare l’Europa, una volta ancora, sarà  una forza esterna che ci costringerà  ad un compromesso».
Gli Stati Uniti?
«Gli Usa e la Cina temono entrambi un evento deflagrante. Hanno paura che uno sfaldamento progressivo dell’euro provochi una nuova tempesta in tutto il sistema economico e politico mondiale. Ancora una volta, come è accaduto in Iraq, in Ucraina e in altri scenari, l’Europa vedrà  condizionate le sue decisioni da spinte esterne: americani e cinesi faranno di tutto per salvare l’euro. Ma sarà  l’ulteriore dimostrazione che l’Europa ha perso la sovranità  su se stessa».
Lei ha avuto di recente incontri al massimo livello in Cina: sono davvero così preoccupati anche loro?
«Sì ed è una preoccupazione che ho riscontrato in tutti gli incontri ufficiali che ho avuto. Loro, proponendosi come potenza ascendente e pur restando affascinati dagli Stati Uniti, sono interessati alla formazione di contrappesi al dollaro e sono convinti che l’euro sia di aiuto nel loro cammino».
Le premesse della crisi greca si consumarono durante la sua presidenza della Commissione europea?
«Ricordo la notte nella quale chiesi a Francia e Germania di rispettare i parametri e loro risposero no, accampando le loro prerogative nazionali. E quando dissi che sarebbe stato utile istituire una sorta di Corte dei Conti europea risposero che era una spesa inutile. La Grecia è entrata nell’euro perchè ha potuto ingannare vergognosamente sui dati reali della propria economia».
Morale di quella storia?
«Se ci fosse stata una forte autorità  federale, probabilmente Atene non sarebbe mai entrata nell’unione monetaria, o sarebbe entrata ad altre condizioni. Invece noi non abbiamo voluto un’autorità  federale. Abbiamo delegato ogni potere ai leader nazionali, che sono ostaggi dei loro problemi di politica interna».
Lei in tempi non sospetti parlò di stupidità  dei parametri stabiliti una volta per tutte a Maastricht: è giunto il tempo di cambiarli?
«Quando li definii stupidi, in tanti mi saltarono addosso, ora ricevo continui riconoscimenti internazionali per quella affermazione. Ma ricordo con piacere quel che mi disse allora Helmut Kohl: dovresti ricordare che Roma non è stata fatta in un giorno, ora consolidiamo l’euro. Un grande leader che stava dentro un disegno politico».
Dice il premio Nobel Paul Krugman che l’euro è una camicia di forza da allentare: condivide?
«Se l’Europa non si autoriforma è un pane cotto a metà  e se non c’è intenzione di cuocerlo tutto, avrebbe ragione Krugman. Ma la risposta ora è nelle mani della Germania. Non resta che sperare che non diventi profezia, la speranza a suo tempo espressa da Joschka Fischer: “La Germania non affondi l’Europa, sarebbe la terza volta in cent’anni”».
Tutte le colpe sempre della Germania?
«Alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti divenuti potenza mondiale, misero a punto il piano Marshall, senza preoccuparsi come l’Italia spendeva quei fondi. La Germania è un paese che è leader, per le sue virtù, ma non lo vuole riconoscere, rendendosi conto della convenienza globale e coinvolgere tutti».
Oltre a restituire un’Europa impotente, non trova che in questa stagione abbiano assunto un peso sproporzionato istituzioni non politiche?
«Certamente sì. Che cosa c’entra la troika in questa faccenda? Che cosa c’entra il Fondo monetario internazionale che interviene nella comunità  più ricca del mondo, quale è ancora l’Europa? Decisivo è stato il ruolo svolto per evitare il disastro dalla Bce, che però non ha un ruolo politico».
La settimana che ha preceduto il referendum ha mandato in scena l’impotenza europea?
«La settimana che abbiamo alle spalle è significativa, perchè, appena il presidente francese Hollande ha accennato ad una possibile trattativa allo scopo di sdrammatizzare il referendum, i tedeschi hanno concluso che non era il caso di parlare con i greci se non dopo i risultati. A quel punto nessun altro leader ha più aperto bocca».

Fabio Martini
(da “la Stampa”)

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FINANCIAL TIMES: “INGERENZA E ARROGANZA: GLI ERRORI DEL “SÃŒ”

Luglio 6th, 2015 Riccardo Fucile

IL QUOTIDIANO FINANZIARIO ANALIZZA TUTTI GLI SBAGLI DELLA CAMPAGNA PER IL SI’ AL REFERENDUM GRECO

A spianare la strada alla vittoria del “No” al referendum greco sono stati anche i tanti errori commessi dal fronte del “Sì”, sia all’interno della Grecia che a livello europeo. Ne è convinto Wolfgang Mà¼nchau, presidente di Eurointelligence ed editorialista del Financial Times e del Der Spiegel.
In un editoriale sul Financial Times, Mà¼nchau punta il dito contro gli errori — “alcuni secondari, altri monumentali” — commessi dai principali protagonisti della campagna del “Sì”.
Tre, secondo Mà¼nchau, sono particolarmente evidenti.
“Il più grande — scrive l’editorialista — è l’intervento chiaramente coordinato di diversi politici europei di lungo corso, che all’unisono hanno ripetuto che una vittoria del ‘No’ avrebbe portato alla Grexit, a un’uscita della Grecia dall’Eurozona. Uno di questi era Sigmar Gabriel, ministro dell’Economia tedesco e capo del Partito Socialdemocratico di Germania (Spd). Ha addirittura raddoppiato le sue minacce subito dopo l’uscita dei risultati. I greci hanno correttamente interpretato queste minacce come un tentativo di interferire con il processo democratico del loro Paese. La notizia la settimana scorsa che funzionari dell’Eurozona avevano cercato di bloccare l’ultima analisi del Fondo Monetario Internazionale sulla sostenibilità  del debito non li ha certo aiutati […]. Il resto dell’Europa ha dato l’impressione di voler manipolare il referendum, e di non preoccuparsi neanche di nasconderlo”.
Quanto al secondo errore madornale, la campagna del “Sì” — sempre secondo Mà¼nchau — ha fallito nello spiegare come il programma di salvataggio sarebbe potuto funzionare dal punto di vista economico.
“Il referendum greco — scrive Mà¼nchau — ha unito economisti con visioni molto diverse sul funzionamento del mondo, tra cui Paul Krugman, Jeffrey Sachs e Hans-Werner Sinn. Non c’è nessuna teoria economica accreditata che sostenga che un’economia in depressione da otto anni abbia bisogno di un nuovo round di austerity per arrivare a un miglioramento economico”.
Il terzo “monumentale” errore, scrive ancora Mà¼nchau, è stata l’arroganza.
I sostenitori del “Sì” pensavano di avere la situazione in pugno.
“Ciò che ho trovato più irritante — prosegue l’editorialista — è stato l’argomento che la Grexit porterebbe a catastrofe economica, come se la catastrofe non fosse già  avvenuta. Se sei stato disoccupato per gli ultimi cinque anni, senza alcuna prospettiva lavorativa, non fa differenza se i soldi che non hai sono denominati euro o dracme”.

(da “Huffingtonpost”)

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D’ALEMA: “NON PAGHIAMO LE PENSIONI AI GRECI, MA LE BANCHE TEDESCHE”

Luglio 6th, 2015 Riccardo Fucile

E SU RENZI: “QUALCHE TWEET POTEVAMO RISPARMIARCELO”

“Forse qualche tweet potevamo risparmiarcelo: non è stato un derby tra euro e dracma ma un referendum per cambiare la politica europea”.
Così Massimo D’Alema a Skytg 24, parlando della Grecia e rispondendo a chi gli chiedeva di commentare le posizioni del presidente del Consiglio Matteo Renzi. “Auspico – ha comunque aggiunto D’Alema – che l’Italia si adoperi per un accordo e non per una rottura. I greci hanno dimostrato di non avere paura, malgrado la pesantezza della posizione da parte europea”.
Massimo D’Alema, sempre a Sky Tg24 aveva detto. “Si dice: ‘Noi paghiamo le pensioni dei greci’. No! Noi paghiamo le banche tedesche, e di questi soldi i greci non sentono neanche l’odore”.
Sì conclude così l’intervista di Massimo D’Alema a RaiNews24 che sta diventando in queste ore un vero e proprio fenomeno dei social network, invadendo le bacheche degli utenti Facebook.
L’ex presidente del Consiglio è stato invitato dal canale all-news della Rai a commentare l’appello, di cui è firmatario insieme ad altre personalità  tra cui i premi Nobel Stiglitz e Krugman, per chiedere alle autorità  europee più flessibilità  sul debito greco e sulle politiche di austerità .
D’Alema conclude la sua intervista con un esempio, volto a dimostrare perchè un’unione monetaria non possa funzionare senza un’unione di bilancio e perchè le disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri siano destinate ad aumentare senza un’unione politica.
“In Germania il costo del denaro è bassissimo”, spiega D’Alema, “quindi le banche tedesche raccolgono denaro a un costo quasi nullo. Con quei soldi comprano i titoli della Grecia, che essendo un paese a rischio paga tassi altissimi, il 15%. In questo modo guadagnano una montagna di soldi”.
In altri termini, attraverso la differenza dei tassi d’interesse, “enormi risorse si trasferiscono da un paese povero, la Grecia, a un paese ricco, la Germania. Il paese povero si impoverisce sempre di più, il paese ricco si avvantaggia sempre di più”.
Come se non bastasse questa contraddizione, continua il suo ragionamento l’ex premier, quando la Grecia non è più in grado di pagare, arrivano gli aiuti europei. “Noi abbiamo dato alla Grecia 250 miliardi di euro. Ma non per le pensioni dei greci, ma per pagare le banche tedesche”.

(da “Huffingtonpost”)

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«RUBATI» 236 MILIARDI AL PIL: E’ IL COSTO DI EVASIONE E CORRUZIONE

Luglio 6th, 2015 Riccardo Fucile

CON UN PIL AL 58,3% FAREMMO SCHIATTARE D’INVIDIA LA GERMANIA… LA DESTRA DELLA LEGALITA’ E’ DA QUI CHE DOVREBBE PARTIRE

Immaginate un Paese dove il debito pubblico sia al 58,3% di un Pil superiore di qualcosa come 236 miliardi al nostro di oggi. Roba da far schiattare d’invidia tutta la cancelleria tedesca, cominciando da Angela Merkel.
Quel Paese sarebbe l’Italia, se solo si fosse fatta una lotta seria a sprechi, corruzione ed evasione fiscale.
La stima è nell’ultimo rapporto sull’Italia del centro studi Economia reale dell’economista Mario Baldassarri.
Neppure stavolta mancherà  chi di fronte a calcoli del genere scrolla le spalle, riesumando il formidabile aforisma di quel Pier Peter impersonato dieci anni orsono dal comico Antonio Albanese: «L’economia è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli economisti».
Ma qui purtroppo c’è davvero poco da ridere.
I numeri, innanzitutto. Baldassarri parte dal presupposto che sprechi e corruzione siano direttamente proporzionali all’andamento della spesa pubblica corrente.
E per valutare che cosa sarebbe accaduto dal 2002 al 2014 se si fosse davvero dichiarata la guerra a questa piaga ha fatto due ipotesi, entrambe agganciate a drastici interventi sulla spesa pubblica corrente.
La prima, il taglio secco di 45 miliardi, da destinare per 40 miliardi alla riduzione delle tasse (25 di Irap e 15 di Irpef) e per 5 miliardi agli investimenti.
La seconda il congelamento della spesa corrente ai livelli del 2002 e l’eliminazione dei 25 miliardi di trasferimenti a fondo perduto.
Le proiezioni sono impressionanti.
In tredici anni il Pil sarebbe salito da un minimo di 128 a un massimo di 141 miliardi. I posti di lavoro sarebbero cresciuti fino a un milione e 180 mila posti di lavoro, con un deficit pubblico ridotto fino a 105 miliardi e un debito pubblico ridimensionato di una somma enorme: compresa fra 530 e 840 miliardi.
E la lotta all’evasione, continua la simulazione di Baldassarri, avrebbe fatto il resto.
In questo caso l’ipotesi è una sola: controlli incrociati severissimi utilizzando tutte le banche dati disponibili e l’introduzione di meccanismi di deduzione per alimentare il conflitto d’interessi.
Il concetto è semplice: se so che posso detrarre dalle tasse il conto dell’idraulico, gli chiederò la fattura e lui pagherà  le tasse.
Grazie a questo piano d’azione, stima l’economista, sarebbe stato possibile recuperare una decina di miliardi circa per dieci anni consecutivi. Con il risultato che il nostro Pil potrebbe essere ora più alto di 95 miliardi e il debito pubblico più basso di 266.
Fosse andata davvero così, chiosa il documento che viene presentato domani a Roma, l’Italia avrebbe potuto rispettare senza alcuna difficoltà  il «famigerato» Fiscal compact e la nostra economia, navigherebbe in acque ben più tranquille: con un Prodotto interno lordo superiore del 17 per cento circa a quello attuale.
Se poi a tutto questo si fosse aggiunta una condizione astrale favorevole, ovvero un euro non così sopravvalutato rispetto al dollaro, ecco che si sarebbero schiuse le porte del paradiso.
Secondo il rapporto del centro studi Economia reale il super-euro ci è costato dal 2002 al 2014 ben 168 miliardi di Pil e 403 miliardi di debito pubblico.
Ma purtroppo non è andata così. E Baldassari, che per ben cinque di quegli anni ha avuto una responsabilità  diretta, come viceministro dell’Economia del governo di Silvio Berlusconi, non esita a ricordare nel rapporto anche quella fase piena di scelte controverse e titubanze, e poi di contrasti nell’esecutivo, con minacce di dimissioni reciproche mai portate a compimento, sfociati in una pace che non ha portato a nessun cambiamento concreto.
Tanto sul piano della lotta agli sprechi e alla corruzione quanto su quello del contrasto vero all’evasione.
«Perchè non si è mai fatto nei quindici anni passati e non si profila tuttora che qualcuno intenda farlo, almeno per i prossimi cinque anni?», si chiede Baldassarri. «Semplice: è un nodo squisitamente e profondamente politico, o meglio è un nodo di interessi contrapposti. Da un lato ci sono i circa 2 milioni di italiani che in tutti questi anni hanno continuato a prosperare ed accumulare patrimoni illeciti con gli sprechi e le ruberie di spesa pubblica e con l’evasione fiscale. Dall’altro lato ci sono gli altri milioni di italiani che hanno subito e subiscono la crisi e la disoccupazione con prospettive disarmanti per i giovani che scappano sempre più all’estero. Questi ultimi hanno perso tra il 2002 ed il 2014 circa 250 miliardi di Pil, hanno subito il raddoppio della disoccupazione e nonostante le sempre precarie condizioni della nostra finanza pubblica, hanno anche subito pesanti aumenti della tassazione».
Una situazione, conclude il rapporto, destinata a non durare a lungo senza gravi conseguenze.
«L’Italia potrà  anche galleggiare, ma certamente il Paese continuerà  a subire un processo di bradisismo economico e sociale».

Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera”)

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L’ABILE MOSSA DI TSIPRAS PER TOGLIERE UN ALIBI ALL’EUROPA E TORNARE A NEGOZIARE

Luglio 6th, 2015 Riccardo Fucile

LE DIMISSIONI DI VAROUFAKIS FACILITANO LA TRATTATIVA

Tornare dai partner europei all’arrembaggio, forti del forte mandato popolare ricevuto dal referendum, ma con una rosa in mano.
Un gesto distensivo, un segnale di apertura per dimostrare che le intenzioni della Grecia di trovare a tutti i costi un accordo sono reali.
L’addio di Yanis Varoufakis dall’incarico da ministero delle Finanze, affidato a un breve post sul suo blog preceduto da un semplice tweet, segna il primo gesto della seconda fase dell’era Tsipras.
Quella più complessa, in cui il premier sarà  impegnato a dimostrare al 61% dei greci che la promessa di utilizzare il forte mandato popolare ricevuto dalla consultazione per risedersi al tavolo e ottenere un accordo migliore potrà  presto diventare realtà .
Per farlo, il premier ha provato a giocarsi l’arma a sorpresa delle dimissioni del suo braccio destro.
Un sacrificio che contribuirà  anche ad attutire, almeno in parte, la probabile caduta dei listini europei dopo il voto di domenica sera.
Il segnale è chiaro: vogliamo trattare. Anche, come suggeriscono le ultime indiscrezioni, costruendo una squadra di negoziatori che comprenda membri delle opposizioni, altro gesto di apertura da parte del premier greco.
Uscendo di scena nello stesso modo, non convenzionale ed eccentrico, con cui ci era entrato a fine gennaio, Varoufakis garantisce a Tsipras di presentarsi al prossimo confronto con i partner europei forte già  di una prima significativa concessione.
A metà  tra la stizza e il messaggio politico è stato lo stesso ministro delle Finanze greco ad usare parole cristalline per giustificare la propria scelta: “Subito dopo l’annuncio dei risultati del referendum, sono stato informato di una certa preferenza di alcuni membri dell’Eurogruppo e di ‘partner’ assortiti per una mia… ‘Assenza’ dai loro vertici, un’idea che il primo ministro ha giudicato potenzialmente utile per consentirgli di raggiungere un’intesa”, ha scritto Varoufakis, lasciando intendere che possa essere stato lo stesso premie a chiedergli un passo indietro. “Considero mio dovere aiutare Alexis Tsipras a sfruttare come ritiene opportuno il capitale che il popolo greco ci ha garantito con il referendum di ieri”, ha aggiunto l’ex ministro, “e porterò con orgoglio il disgusto dei creditori”.
Il messaggio è chiaro: vado via proprio per il motivo che pensate.
Anche se questo eccesso di chiarezza svela forse più la natura più tattica che realmente politica del passo indietro del ministro greco.
Sacrificando il ministro, Tsipras immagina di potere ritornare al tavolo del negoziato con due carte importanti: il robusto successo al referendum e la “testa” del proprio ministro, inviso all’Eurogruppo, dando anche un messaggio all’intero popolo greco, una dimostrazione che le intenzioni di compromesso manifestate nella settimana prima del voto erano reali.
Ma in questo modo cerca anche di ricondurre una rottura sostanziale tra due posizioni che in quattro mesi non sono state in grado, salvo le ultime tre settimane, di dialogare veramente, a una questione quasi personale.
Quasi che il problema fosse davvero il carattere del ministro Varoufakis. In altre parole, concedere un alibi in meno.
Anche per questo saranno essenziali le prossime ore, quando nella scelta del successore Tsipras darà  un’indicazione importante sull’identità  di questa sua “seconda fase.
In corsa, per la stampa greca ci sarebbero tre nomi.
Il vice premier Yannis Dragasakis, capofila dell’ala dialogante e scelta preferita da Alexis Tsipras, anche se non avrebbe mostrato interesse per questa carica.
Altro nome in pista è quello di George Stathakis, attuale ministro per lo Sviluppo, scelta che però provocherebbe un mini rimpasto di governo.
Infine Euclid Tsakalotos, il capo della squadra negoziale ellenica, che da tempo aveva sostituito Varoufakis nei rapporti con i partner internazionali.

(da “Huffingtonpost“)

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COLPO A SORPRESA DI VAROUFAKIS: “MI DIMETTO PER AIUTARE TSIPRAS NELLE TRATTATIVE”

Luglio 6th, 2015 Riccardo Fucile

“PORTERO’ CON ORGOGLIO IL DISPREZZO DEI CREDITORI”…BORSE UE APRONO TUTTE IN ROSSO

Il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis ha annunciato stamane a sorpresa le proprie dimissioni, dopo il trionfo del no alle proposte della ex troika al referendum di domenica.
L’addio, spiega sul suo sito web personale l’economista, punta a favorire un nuovo accordo tra il premier Alexis Tsipras e la ex troika.
Che dovrebbero leggere come un atto di distensione il passo indietro di colui che in questi cinque mesi si è più volte scontrato frontalmente con i colleghi dell’Eurogruppo e solo sabato ha accusato i creditori di “terrorismo” nei confronti di Atene.
“Subito dopo l’annuncio dei risultati del referendum”, scrive Varoufakis nel lungo messaggio pubblicato su yanisvaroufaskis.eu e intitolato Minister no more!, “sono stato messo al corrente di una certa preferenza da alcuni partecipanti dell’Eurogruppo e ‘partner’ vari per una mia… ‘assenza’ dalle loro riunioni. Considero mio compito aiutare Alexis Tsipras a utilizzare, come gli ritiene opportuno, il capitale che il popolo greco gli ha concesso ieri attraverso il referendum”.
L’economista naturalizzato australiano comunque non si smentisce e non risparmia nuove stoccate: “Porterò con orgoglio il disprezzo dei creditori”.
Poi la promessa di “pieno supporto a Tsipras, al nuovo ministro delle Finanze e al governo. “Lo sforzo sovrumano per onorare il coraggioso popolo greco e il famoso No che hanno garantito ai democratici di tutto il mondo è appena cominciato”.
La nomina del successore è prevista a breve, dopo un incontro dei leader politici programmato dopo le 9 di stamattina .
L’incognita sulla possibilità  di riavviare i negoziati — Il premier nei giorni scorsi aveva detto che “entro 48 ore” dai risultati del voto puntava a firmare un’intesa con i creditori.
I quali però domenica sera, davanti alla vittoria di quello che alcuni leader leggono come un no all’Europa, hanno ribadito che questo esito complica molto lo scenario.
Il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel si è spinto a dire che “la Grecia ha rotto i ponti per il compromesso” e il presidente dell’Eurogruppo Jerom Dijsselbloem ha bollato il risultato come “molto deplorevole per il futuro” del Paese.
Per le banche d’affari, l’esito delle urne aumenta le probabilità  di un’uscita di Atene dall’Eurozona: Jp Morgan ritiene che la Grexit sia ora lo “scenario base” e che potrebbe avvenire “in circostanze caotiche“.
Anche gli analisti di Barclays, in un rapporto diffuso domenica sera, scrivono che ora “l’uscita è lo scenario più probabile”.
Al contrario Goldman Sachs e Citigroup vedono la possibilità  di una permanenza nel club della moneta unica. Citigroup, in particolare, prefigura una situazione di “limbo” che potrebbe durare mesi o anni.
Banche appese alle decisioni della Bce
L’addio di Varoufakis — che tre giorni fa le dimissioni le aveva in effetti preannunciate, ma come “minaccia” nel caso in cui avesse vinto il sì – arriva nel giorno in cui è attesa una nuova riunione del consiglio della Bce.
Nelle cui mani c’è ora il futuro delle banche elleniche, chiuse da lunedì scorso.
Il ministro dimissionario aveva promesso che gli istituti avrebbero riaperto i battenti martedì 7, senza però spiegare come questo sarebbe stato possibile visto che, come ammesso dalla numero uno dell’associazione bancaria ellenica Louka Katseli, nonostante il tetto di 60 euro ai prelievi al bancomat e i controlli sui movimenti dei capitali il cuscinetto di liquidità  che hanno a disposizione basta solo fino a oggi. L’Eurotower deve ora valutare se riaprire o chiudere del tutto il rubinetto della liquidità  di emergenza (Ela) che ha consentito agli istituti di operare da febbraio a oggi e domenica 28 giugno è stato congelato a quota 89 miliardi di euro.
Le condizioni per concedere l’Ela sono che le banche siano solvibili e che possano offrire a garanzia un collaterale adeguato, cosa che ora è in discussione visto che il Paese è ufficialmente in default.
In teoria, la Bce potrebbe anche chiedere alle banche di restituire i fondi ricevuti finora.
Ma è evidente che la decisione verrà  presa alla luce delle conseguenze per il resto dell’Eurozona. Il board dei governatori presieduto da Mario Draghi potrebbe comunque rimandare la decisione a martedì, dopo l’Eurosummit straordinario dei leader europei convocato per le 18.
In mattinata è prevista una conference call tra lo stesso Draghi, il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker e il presidente dell’Eurosummit Donald Tusk.
Avvio in calo per le borse europee.
Lo spread apre in rialzo, poi ripiega a 159 punti
Il giorno dopo la vittoria dei no, Piazza Affari ha aperto la seduta in rosso del 2,9%. Parigi in avvio segna -2,06, Francoforte -1,87%, Madrid -1,7%, Londra -1,08%. A Milano sono pesanti soprattutto i titoli bancari, con Mps sospesa in asta di volatilità  poco prima delle 10, quando cedeva oltre il 5%.
Limitate rispetto alle attese, invece, le ripercussioni sul mercato obbligazionario: il rendimento dei titoli di Stato dei Paesi periferici, a partire da quelli italiani, sale ma non oltre i livelli della scorsa settimana.
Il rendimento dei Btp in avvio era al 2,36%, cosa che ha portato il differenziale rispetto ai Bund tedeschi (spread) a 165 punti rispetto ai 145 di venerdì.
Dopo la fiammata iniziale, il rendimento del decennale è calato al 2,33% e lo spread è sceso a 159 punti.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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