Novembre 26th, 2017 Riccardo Fucile
MA SE MINNITI AVEVA DETTO CHE IN 28 CAMPI SU 29 LE ONG GIA’ ENTRAVANO SENZA PROBLEMI? ADESSO NON E’ PIU VERO… LA MOSSA E’ SOLO UN’OPERAZIONE DI IMMAGINE
“L’Italia chiede fortemente che sia le organizzazioni legate all’Onu, Unhcr e Oim, sia le Ong in generale, approfittino dell’apertura che le autorità libiche finalmente iniziano a dare. Fino a un anno fa non volevano” la presenza nei campi profughi, “c’era l’impossibilità di lavorare sui rimpatri volontari e su potenziali corridoi umanitari dalla Libia. Ora si può fare, rispettando la sovranità delle autorità libiche. Gradualmente stanno aprendo”, bisogna “molto accelerare e rafforzare l’intervento”.
A sostenerlo è il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che a Tunisi ha incontrato l’inviato speciale dell’Onu per la Libia Ghassan Salamè.
Allora è opportuno ricordare a Gentiloni quanto segue:
1) Due settimane fa il suo ministro degli Interni disse che, grazie all’Italia, Onu e Ong possono visitare 28 del 29 centri di detenzione libici (peraltro smentito dalle stesse organizzazioni umanitarie e dai media). Se Gentiloni oggi avanza l’invito, vuol dire che Minniti ha mentito spudoratamente. Se vuole tenersi un ministro bugiardo affari suoi, ma eviti di prenderci per il culo.
2) Non è stata l’Italia a “convincere” i libici a far visitare qualche campo di prigonia, ma gli articoli dei media internazionali e le inchieste denuncia con video terrificanti. All’Italia di Gentiloni e Minniti interessa solo che i profughi non arrivino in Italia e hanno affidato il lavoro sporco al regime criminale libico che finanziamo con 6 miliardi (come denunciato da inchieste e testimonianze)
3) I libici da una vita scroccano soldi al nostro Paese per bloccare o non bloccare i flussi, incassano da noi e dai disperati che taglieggiano. Noi siamo solo il bancomat di una associazione a delinquere, divisa in venti milizie che si contendono il mercato degli schiavi.
4) Basta parlare di “rimpatri volontari” che vuol solo dire “respingimenti” e di “canali umanitari” che non esistono, salvo quello gestito della Comunita di Sant’Egidio e della Chiesa Evangelica, dove il governo italiano non c’entra una emerita mazza.
5) Gentiloni pensi alla propria coscienza: le centinaia di morti affogati perchè qualcuno ha voluto cacciare le Ong dovrebbero turbare il sonno a lui e al suo sodale.
6) Riportiamo la nota della Ong “Un Ponte per” :
“L’invio di Ong sarebbe un’operazione d’immagine, una risposta ipocrita alle denunce che sempre più numerose giungono dalla Libia, dove migliaia di persone sono private della loro libertà e dignità e sono alla mercè di angherie e sopraffazioni di milizie private e di eserciti spesso implicati nella tratta e riduzione in schiavitù. Tali campi non diventeranno più umani se alle Ong sarà permesso, sotto il controllo di queste milizie, di entrarvi”.
7) Gentiloni da giovane ha militato nel Movimento studentesco di Mario Capanna, in un ruolo non marginale. Io stavo sulla barricata opposta. Entrambi difendevamo le minoranze, pur con idee diverse. Preferisco aver mantenuto la mia dignità , c’e’ anche chi non si è venduto per i voti di quattro borghesi razzisti con la pancia piena.
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Novembre 26th, 2017 Riccardo Fucile
SCARSA LIQUIDITA’, RAPPORTO CON IL PARTITO IN CRISI, ADDIO SOLIDARIETA’
Da qualche tempo Udine è diventata il palcoscenico di un nuovo esperimento politico. I
partiti di centrodestra stanno battendo palmo a palmo il territorio in vista delle prossime elezioni regionali. –
Gli appuntamenti si susseguono senza tregua in osterie, ristoranti, alberghi. Uno degli oratori più assidui è il capogruppo della Lega Nord alla Camera, Massimiliano Fedriga, natali veronesi e casa a Trieste, spesso affiancato da esponenti di Forza Italia o di Fratelli d’Italia.
L’organizzatore di una campagna così capillare è però il fondatore della lista civica Progetto FVG, un imprenditore di nome Sergio Emidio Bini, 49 anni a breve e una caratteristica sorprendente per chi si propone di unire il centrodestra e riportarlo alla guida della Regione oggi governata da Debora Serracchiani, Pd.
Bini, infatti, è stato fino a qualche tempo fa il vice-presidente della Legacoop del Friuli, il movimento che raccoglie quelle che una volta venivano chiamate le “cooperative rosse”.
«Mi raccomando: il progetto politico della lista civica e la mia attività lavorativa non hanno nulla a che fare», premette Bini. Prontissimi a credergli.
Al di là delle intenzioni personali, tuttavia, la sua storia mostra in modo esemplare le crepe che stanno incrinando gli assetti storici del mondo cooperativo, sia dal punto di vista politico, sia da quello industriale.
L’imprenditore di Udine, infatti, non ha soltanto deciso di mettersi in gioco per riportare il centrodestra alla guida della Regione.
Pochi mesi fa l’assemblea della coop di cui è presidente, la Euro&Promos, seicento soci, oltre cinquemila dipendenti, un giro d’affari di 106 milioni di euro concentrato nei servizi di pulizia, ha infatti votato la trasformazione in una più consueta società per azioni, la forma tradizionale delle società di capitali, dove comanda chi ha la maggioranza.
Addio cooperativa, addio Legacoop; restano invece l’iscrizione in Confindustria e, in parallelo, l’alleanza con la Lega Nord e gli altri partiti della destra italiana.
«Sono molto grato al mondo in cui siamo cresciuti ma dobbiamo guardare al futuro. E per competere con le multinazionali dobbiamo attrarre capitali, cosa che nella forma cooperativa non è possibile», dice Bini, chiamando in causa una debolezza che sta emergendo sempre più: la difficoltà delle cooperative di reperire i finanziamenti necessari per superare i momenti bui e tenere il ritmo della concorrenza.
Una difficoltà che è andata di pari passo con l’altro grande fattore di cambiamento: la crisi del Partito democratico e le faide che si sono aperte al suo interno, allontanando gli eredi del vecchio Pci dall’attuale gruppo dirigente e dal segretario Matteo Renzi.
I soldi sono finiti
Per dare un’idea delle difficoltà occorre partire dall’edilizia, uno dei settori più colpiti dalla recessione, con 800 mila posti persi dal 2008 a oggi.
Ne hanno fatto le spese tante imprese private, e tra queste numerose coop. La questione è diventata un affare di rilevanza nazionale nell’aprile 2012, quando un fiume di persone si è accalcato nella sede del Pd di Reggiolo, dov’era convocata una riunione per fare il punto sulla crisi della Cooperativa muratori dell’industriosa cittadina della Bassa, a metà strada fra Modena e Mantova.
Oltre duemila soci vi avevano infatti investito i risparmi di una vita, per un totale di 47 milioni. Il meccanismo era quello del prestito sociale, la base materiale del movimento: sono i prestiti che i dipendenti-soci e gli ex concedono alle cooperative, che li usano come finanziamenti per poter operare e, in cambio, offrono un interesse leggermente superiore a quello di mercato.
Ebbene: fino a un anno prima la ditta dei muratori di Reggiolo si vantava di aver resistito bene alla disfatta dell’edilizia; poi, in un amen, il dissesto.
In quei giorni, i vertici di LegaCoop intuiscono prontamente il rischio che il clima di sfiducia contagi l’intero sistema e corrono ai ripari, rimborsando con i fondi dell’associazione e l’aiuto di altre cooperative il 40 per cento dei crediti vantati dai soci, operai, artigiani, tecnici, lavoratori o ex.
Il soccorso rosso genera però un paradosso: due delle consorelle che partecipano ai rimborsi, CoopSette e Unieco, entrambe di Reggio Emilia, dodici mesi più tardi vanno a loro volta a gambe all’aria, assieme a un’altra coop reggiana, la Orion.
Qui s’incrina l’idea che il movimento possa intervenire in aiuto di chi è in difficoltà , rimborsando una parte dei prestiti, in attesa che i processi di liquidazione facciano il loro corso: mentre a Reggiolo, con Cmr, era stato possibile intervenire in fretta, nei casi successivi viene avviata una faticosa trattativa, che soltanto in questi giorni, e cioè quattro anni più tardi, sta arrivando a compimento.
Tempi lunghissimi, nonostante si tratti di cifre più piccole rispetto a Cmr: CoopSette aveva 450 soci e un prestito sociale di 10,5 milioni di euro, Orion 180 soci e 5 milioni, Unieco 1.280 soci e 12 milioni.
«La crisi del sistema ha reso tutto più difficile rispetto al 2012, quando le grandi cooperative non avevano avuto problemi ad aiutarci. Invece è stato necessario convincere uno a uno tutti quelli ancora disponibili, far approvare le decisioni dai consigli di amministrazione. Ora questo percorso è quasi terminato, credo che tutto sarà definito nel giro di qualche settimana», dice Mauro Lusetti, presidente di Legacoop dal 2014, dopo che il suo predecessore, Giuliano Poletti, era entrato nel governo Renzi come ministro del Lavoro.
L’idea di Lusetti è questa: la crisi delle coop di costruzioni si spiega con quella generale dell’edilizia, il cui tracollo «è avvenuto nel silenzio più totale della politica, nonostante l’impatto sociale devastante».
In più, però, ci sono quelle che il presidente di Legacoop definisce «le specificità » del suo mondo. Il fatto che la forma mutualistica riduca gli strumenti per reperire nuovi fondi. E poi che le coop avessero puntato forte sull’immobiliare, settore devastato dallo scoppio della bolla dei prezzi, invece di attrezzarsi per conquistare commesse all’estero, come ha fatto la Cmc di Ravenna, uno dei cardini del sistema con la Cmb di Carpi.
Attorno queste due imprese, spiega Lusetti, Legacoop vuol costruire l’azione futura del movimento, incentrata su salvaguardia del territorio e riqualificazione ambientale. Anche se, come vedremo più avanti, la stessa Cmc ha preparato uno studio per valutare la trasformazione in società per azioni, che per ora ha messo in un cassetto.
Quella delle coop emiliane non è una storia qualunque.
Nel secondo dopoguerra hanno avuto un ruolo fondamentale nelle ricostruzione di un’Italia in macerie. Muratori, carpentieri, cementisti delle imprese rosse sapevano fare bene il loro lavoro. Mattone su mattone hanno rimesso in piedi interi territori, operando sotto l’occhio vigile del Partito comunista, che le portava in palmo di mano. Così come i cattolici e la Dc, che avevano una loro associazione, la Confcooperative.
Dal Pci a Galan
Pietro Cafaro, docente di storia economica alla Cattolica di Milano e autore di numerosi testi sulla cooperazione, definisce la ricostruzione «il momento eroico» delle cooperative, che nel legame con la politica trovano congiuntamente «un punto di forza e uno di debolezza».
Di forza perchè quel legame era presente fin dall’origine, nel Regno d’Italia, quando i socialisti e i cattolici non potevano partecipare alla vita politica e riversavano l’impegno nel sociale.
Di debolezza perchè l’osmosi rischia di trasformare le coop «in un luogo per far carriera in politica, o al contrario in un cimitero degli elefanti».
Anche gli anni recenti sono stati vissuti da protagonisti. Sul piccolo patrimonio costituito dal prestito soci, le coop avevano costruito strutture in grado di accaparrarsi grandi appalti.
Orion aveva lavorato per le Olimpiadi di Torino e costruito ospedali nel Lazio, Unieco si era specializzata in centri commerciali, CoopSette costruito la stazione Tiburtina di Roma, l’alta velocità ferroviaria, la nuova darsena di Genova.
C’erano state anche avventure più discusse. CoopSette aveva sostenuto, ad esempio, il progetto dell’ex governatore veneto Giancarlo Galan di costruire un circuito automobilistico a mezz’ora di strada dal Lago di Garda, forse con l’idea di strappare il Gran Premio d’Italia a Monza.
Quando la stella di Galan è precipitata, il progetto è finito nel limbo, osteggiato dagli ambientalisti, dal Pd e mai digerito da una parte della Lega Nord.
Risultato: i liquidatori di CoopSette si sono ritrovati sul groppone la quota di maggioranza della società Autodromo del Veneto, con 65 milioni di euro di debiti e impegni d’acquisto o d’affitto su 4,4 milioni di metri quadri di terreni agricoli, dove in un’orgia di cemento si volevano costruire anche alberghi, centri commerciali, parchi divertimenti.
Molti osservatori hanno criticato gli errori dei manager, l’incapacità di far fronte al crollo degli investimenti pubblici, lo sfaldarsi del sistema di relazioni politiche che permetteva di entrare nei grandi appalti.
Ma c’è un altro fattore: «Un imprenditore privato rischia i suoi quattrini. Nelle cooperative più grandi, invece, i manager si sono ormai allontanati dai soci, indebolendo il principio di responsabilità di questi ultimi. Quanto possono pesare l’opinione o il voto di un operaio — anche se socio – di fronte alle scelte di dirigenti che gestiscono appalti da centinaia di milioni di euro?», si domanda Giovanni Trisolini, presidente della Federconsumatori di Reggio Emilia, l’associazione nata in seno alla Cgil che rappresenta numerosi lavoratori che con la crisi hanno perso, oltre all’impiego, anche i risparmi investiti nel prestito soci.
Se a questo si aggiunge che il ministero dello Sviluppo Economico ha da tempo demandato la vigilanza biennale sulle cooperative direttamente alle associazioni di rappresentanza (Legacoop, Confcooperative e Agci, per citare le tre big), il quadro di un sostanziale auto-controllo è quanto mai concreto.
Rischio Consip
Il capitolo più tormentato degli ultimi mesi è però legato alla bolognese Manutencoop, un colosso con oltre 16 mila dipendenti che fornisce ogni genere di servizio legato agli edifici, pulizie, gestione delle forniture di energia, sicurezza, logistica.
Ha committenti spesso pubblici ed è in apparenza un gruppo solido, capace di chiudere il 2016 con un utile netto consolidato di 33 milioni di euro.
Eppure, lo scorso luglio, il gruppo ha emesso un prestito obbligazionario su cui è stato costretto a corrispondere agli investitori un tasso d’interesse altissimo, pari al 9,40 per cento annuo.
Una mazzata, il doppio dei tassi che molte aziende private sono abituate a pagare ma elevato anche rispetto ad altre coop: la Cmc di Ravenna è riuscita nello stesso periodo a piazzare un bond non dissimile come entità e durata, offrendo il 6,875 per cento. La regola della finanza è molto chiara: rendimenti alti, rischi alti. Perchè allora Manutencoop è considerata così rischiosa?
Bisogna tener conto di due fattori.
Il primo è finanziario, il secondo politico.
Manutencoop è una società per azioni controllata da una cooperativa che porta lo stesso nome e che, nel capitale della Spa, era affiancata da una serie di soci privati, che avevano il 33 per cento.
All’inizio del 2017 i soci privati avevano la possibilità di cedere a terzi le loro quote e, per farlo, avevano considerato la possibilità di far valere un diritto di cui si erano premuniti: vendere al nuovo compratore non soltanto i loro titoli di Manutencoop Spa, ma anche quelli in mano alla coop soprastante. In inglese questo diritto si chiama “drag along” e costituisce una sorta di garanzia per un azionista di minoranza che, se vuol vendere, rischia di non trovare nessun compratore interessato, perchè il padrone dell’azienda resterebbe il socio di maggioranza già presente.
La notizia, dunque, è che all’inizio del 2017 la cooperativa Manutencoop — presieduta da uno dei “creatori” di questo sistema, Claudio Levorato – era disposta a vendere la maggioranza della Spa, tenendo soltanto un 30 per cento. Insomma: anche i soci di una delle coop che negli ultimi anni era stata più sulla cresta dell’onda, erano pronti a lasciare. In quei mesi vengono avviate trattative con cinque potenziali investitori, che poi si riducono a due fondi di private equity, Pai e Bc Partners. Dopo un’ulteriore fase di studio, anche il primo si ritira, lasciando in corsa il secondo. L’affare, però, non va in porto: Bc Partners decide di non affondare il colpo.
Di qui l’esigenza di trovare i soldi per liquidare gli azionisti privati che, comunque, vogliono vendere. Viene lanciato il bond, con cui Manutencoop spera di raccogliere inizialmente 420 milioni; l’operazione riesce solo in parte e il prestito si ferma a 360 milioni, con quel tasso altissimo, da “junk bond”, titoli spazzatura.
Perchè? Il motivo è legato alle incertezze sui futuri appalti pubblici che Manutencoop potrà ottenere, in mesi in cui infuriano le polemiche attorno al caso Consip, la società del Tesoro che gestisce le gare per gli acquisti della pubblica amministrazione.
Chiunque segua le cronache politiche sa che la questione è estremamente complessa e ricca di piani d’interpretazione diversi, sul ruolo di Matteo Renzi, del ministro Pier Carlo Padoan, degli scissionisti del Pd, di Denis Verdini e di chissà chi altro.
Qui basta limitarsi a un fatto: nei mesi in cui Bc Partners molla la presa e viene lanciato il bond, Manutencoop è in un momento delicato.
Il 23 giugno, due giorni dopo il collocamento del prestito, l’allora amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, si reca dal presidente dell’Autorità anti-corruzione (Anac), Raffaele Cantone, dicendo ai giornalisti di aver portato i documenti necessari per escludere Manutencoop e altri soggetti dalle gare, in seguito alle accuse di aver operato in danno alla concorrenza.
Il giorno stesso Marroni dà le dimissioni e si fa da parte. Da allora qualche segnale positivo per Manutencoop giunge.
Con l’ultima legge di bilancio il governo di Paolo Gentiloni proroga di un anno, concedendo 300 milioni in più, un contratto di pulizie nelle scuole che la società si era aggiudicata in precedenza, e su cui la Procura di Roma aveva avviato un’indagine per turbativa d’asta. Ma nel complesso gli elementi d’incertezza restano così numerosi da rendere comprensibili i dubbi degli investitori.
Troppa finanza
Non è la prima volta che i cooperatori rischiano di scottarsi con la finanza. La sola Coop che molti cittadini conoscono è quella dei supermercati, che in realtà è suddivisa tra diverse realtà a carattere regionale.
Nel suo insieme, Coop non è molto redditizia. Come mostra il bilancio aggregato di tutte le diverse realtà , elaborato dall’Area Studi di Mediobanca, a livello operativo il gruppo perde 73 milioni, su un fatturato di 10,8 miliardi (dati 2015).
Ci guadagna solo grazie alla gestione finanziaria. Questo perchè le varie cooperative hanno in dotazione 10,7 miliardi di prestito soci. Eppure, proprio la finanza ha rifilato sberle dolorose.
Unicoop Firenze ha perso 200 milioni nel Monte Paschi di Siena, l’umbra Coop Centro Italia altri 137, Coop Liguria ha dovuto svalutare le azioni di Banca Carige con minusvalenze per 54 milioni.
Il presidente di LegaCoop, Mauro Lusetti, le difende: «C’è stata un’epoca in cui diversificare gli investimenti nelle banche serviva anche per ottenere i finanziamenti necessari, ad esempio, per costruire i nuovi centri commerciali», dice, sottolineando i punti di forza del sistema, che attribuisce sia a Coop che alla consorella Conad: «Sono tra le poche realtà che non hanno smesso di crescere e lo hanno fatto in tutto il territorio nazionale, proprio quando alcune multinazionali — penso al gruppo francese Carrefour nel Sud Italia — sono uscite dal mercato. E poi sono piattaforme importantissime per vendere i prodotti dei nostri agricoltori».
I dubbi, però, restano numerosi.
Il maggiore riguarda l’auto-referenzialità dei manager: anche chi fa male difficilmente viene messo in croce durante le assemblee, dove per raggiungere il numero legale occorre promettere doni, pur limitando al massimo gli spazi d’intervento.
Memorabile il volantino per l’assemblea 2016 di Nova Coop, quella del Piemonte, che prometteva ai partecipanti due buoni sconto del 10 per cento e due tazzine da caffè con piattino in regalo, avvertendo che eventuali domande sull’ordine del giorno dovevano pervenire via raccomandata nei giorni precedenti. «A questo punto», si chiede un gruppo di lavoratori di Unicoop Firenze che ha fondato il blog “Lavoratori Unicoop”, spesso critico sul sistema, «viene da chiedersi dove finiscono le cooperative e inizia la Spa».
Ma pochi finanziamenti
Qui ritorna la questione dei manager, troppo lontani dalla base sociale, come racconta Mario Frau, che nel 2012 ha scritto il libro “La Coop non sei tu”, dopo 35 anni di carriera tra Pci, LegaCoop e Nova Coop: «Un presidente guadagna circa 600 mila euro all’anno, oltre ai numerosi benefit e bonus. Quando vanno in pensione, oltre al Tfr, i maggiori dirigenti percepiscono anche un emolumento di fine mandato che può raggiungere le tre annualità ».
Se i supermercati possono contare su migliaia di soci, per le altre aziende la questione di come finanziarsi è diversa.
Angelo Disabato, presidente della Ariete di Bari, dice che nel settore dei servizi è sempre più importante avere risorse da investire per ottenere le commesse.
Racconta il caso del Politecnico della sua città : Ariete ha speso 1,5 milioni per rifare l’illuminazione e installare i pannelli solari; nei prossimi 18 anni di concessione, ci guadagnerà soltanto se riuscirà a garantire all’università i risparmi promessi, ripagandosi l’investimento.
Ariete però ha solo 100 soci, tutti impiegati in azienda. Per cercare di allargare il numero, l’assemblea ha deliberato il dimezzamento della quota minima sottoscrivibile da un singolo socio, portandola da 2.040 a 1.020 euro.
E se non basterà ? «Bisogna che il nostro sistema si dia da fare. Spesso gli strumenti previsti dai nostri organismi ci offrono condizioni peggiori rispetto a quelle delle banche normali», dice Disabato.
Lusetti dice che LegaCoop ha ben presenti questi problemi. Sta lavorando con il governo a una riforma delle regole del prestito sociale e pensa che bisognerebbe cambiare anche le norme per la gestione delle casse previdenziali, in modo che i quattrini delle pensioni possano essere investiti «nell’economia reale, e dunque nelle cooperative».
Intanto, però, il mondo corre. Uno dei gioielli delle coop, la Granarolo, ha bussato alla porta della Cassa depositi e prestiti, che per finanziarne l’espansione all’estero le ha concesso un prestito di 60 milioni (a un tasso del 3,05 per cento).
Granarolo è una società per azioni ma ha un forte vincolo cooperativo: acquista il latte unicamente dai suoi soci, gli allevatori, pagandolo un prezzo superiore a quello di mercato, che permette loro di investire nella modernizzazione delle aziende. E poi c’è la Cmc di Ravenna, con la sua storia da brividi.
Fondata nel 1901 da 35 muratori, dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 si mette subito a disposizione, realizzando prima i baraccamenti per ospitare i superstiti e poi ricostruendo le città distrutte.
A Ravenna costruisce le linee per il trasporto pubblico e i più importanti palazzi della città moderna. Oggi lavora in Algeria, in Cina, negli Stati Uniti, in Sudafrica. Non è però scontato che il suo futuro sarà cooperativo. L’anno scorso è stato redatto uno studio per capire se Cmc avesse le carte in regola per trasformarsi in società per azioni: «In realtà non avevamo grandi dubbi sulla risposta positiva, ma volevamo la certezza», spiega il direttore generale, Roberto Macrì.
In realtà , negli ultimi mesi la Cmc è riuscita a piazzare tranquillamente due grandi bond, che le hanno garantito risorse finanziarie per 600 milioni.
Per il momento, dunque, il “progetto Spa” è chiuso in un cassetto: «La trasformazione è un tema rilevante, specialmente per realtà strutturate come la nostra, ma al momento è ancora presto e nel breve termine non sono previsti cambi di strategia», spiega il direttore generale. Una cosa è però certa. Se trasformazione dovrà essere, sarà completa, non a pezzi: «O si cambia tutto o niente», dice Macrì.
Ritorno al futuro
Il futuro del sistema cooperativo, dunque, rischia di essere ancora più complesso di quanto si possa immaginare oggi. C’entra certamente la dissoluzione degli assetti politici del passato, e la crisi di quel Pd che, unendo ex democristiani e ex comunisti, ha dato il via anche alla fusione tra le diverse anime della cooperazione.
Ma gli aspetti di questo cambiamento sono ancora più articolati, come osserva ancora il professor Pietro Cafaro, lo storico della cooperazione dell’Università Cattolica: «Le cooperative sono costrette dal mercato ad assumere una modalità d’essere che le fa diventare capitaliste. E quindi avranno i medesimi difetti delle aziende che sono già nate così».
Forse, però, guardando esperienze come le cooperative sociali di Libera Terra Mediterraneo che si battono per restituire le zone di mafia alla legalità , o le esperienze di coop nate dall’unione di giovani di talento che operano in settori tecnologicamente innovativi, non è detto che la fine sia scritta.
Cafaro pensa che una spinta potrebbe venire dalla profondità della crisi attuale: «Se non noi, i nostri figli o i nostri nipoti dovranno trovare modelli organizzativi differenti dell’economia. Magari ritornando a un sistema che privilegi la domanda, il soddisfacimento dei bisogni, la ricerca della felicità . Utopie? Così pensavano anche i cooperatori del passato».
(da “L’Espresso“)
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Novembre 26th, 2017 Riccardo Fucile
IL PADRE DI STRISCIA: “E’ COME QUEI PERSONAGGI TV CHE SI SPENGONO. PER QUANTO CI PROVINI NON SPLENDERANNO PIU'”
A casa sua, la televisione era proibita: “Mio padre e mia madre consideravano le immagini una fonte di corruzione, un’invenzione del maligno da cui dovevano proteggermi”.
Anni dopo — come racconta in “Me Tapiro” (Mondadori) — Antonio Ricci farà della televisione il mestiere della vita, iniziando alla Rai come autore di “Fantastico” e “Te la do io l’America”, poi inventando per Mediaset programmi leggendari (“Drive in”) e trasmissioni che hanno successo da trent’anni (“Striscia la notizia”), format della notte ambientati su un dirigibile (“Lupo Solitario”) e varietà sperimentali che mettevano insieme autori della sinistra più sinistra e la dea del porno, Moana Pozzi (“Matrioska”).
Ogni creazione di Ricci ha giocato con un limite. A volte, oltrepassandolo. Altre volte rimanendo al di qua, per farlo osservare meglio.
Ha ricevuto applausi e querele, elogi e demonizzazioni, ha lucidato le une e le altre come medaglie.
Dentro ogni cosa che ha fatto c’è un filo che si srotola indietro nel tempo sino a quando quello schermo era un oggetto vietato e, guardarlo, rappresentava una trasgressione: “Per vedere le commedie di Govi, scappavo di casa con la scusa di dover andare da un amico a fare i compiti. Mi infilavo in una latteria vicino alla piazza di Albenga e rimanevo incollato alla “TV dei ragazzi”, ai primordiali cartoni animati in bianco e nero, al maestro Manzi, a qualsiasi cosa facessero. Il televisore era posizionato in un punto così alto dello stanzone che per guardarlo dovevamo piegare il collo fino a farci male. Eravamo cinquanta, sessanta persone, tutte rapite dalla luce dello schermo che si faceva largo attraverso il fumo delle sigarette accese una dietro l’altra”.
A un certo punto arrivò in casa sua la televisione?
Mi entrò letteralmente dentro con “Campanile sera”. La trasmissione si doveva svolgere in Piazza San Michele, proprio sotto la finestra del nostro appartamento. Il mio terrazzo era stato scelto per installare un enorme padellone, e tecnici in camice bianco passavano per la cucina e salivano la scala a chiocciola per armeggiare intorno. La popolazione attendeva la messa in onda con trepidazione. E io compii un gesto che anni dopo avrei interpretato come un segnale inconfutabile del mio destino.
Quale?
Il conduttore, Renato Tagliani, pranzava al ristorante al piano terra. Si pavoneggiava, mentre la gente fuori lo sbirciava dai vetri e dalle tende. Lo incontrai per le scale e lo salutai tutto emozionato. Lui non rispose. Pensai non avesse sentito, perchè in televisione era gentilissimo, molto cordiale con tutti. Lo salutai di nuovo, a voce più alta. Lui si voltò un attimo e proseguì come se non esistessi.
Dove andava?
Al gabinetto del ristorante. La sua scortesia mi fece rimanere così male che mi venne in mente che il bagno aveva una doppia chiusura, una dall’interno e una dall’esterno. Non riuscii a resistere alla tentazione di seguirlo e chiuderlo dentro. Cominciò a urlare, a dar pugni alla porta. Mi gustai la scena nascosto dietro un angolo e poi scappai. Per poco, non saltò la diretta.
Ma perchè fu un segno?
Dentro di me godevo per aver scoperto la doppiezza di quel personaggio che, in onda, faceva tanti salamelecchi, fuori onda era un supponente. Non lo sapevo ancora, ma chiudere i personaggi nel gabinetto, svelandone la finzione, sarebbe diventata una routine del mio lavoro.
Prima che lo scoprisse, a cosa era appassionato?
Al liceo, amavo Dante Alighieri e attendevo la lettura in classe dei “Promessi sposi” con l’emozione con cui si aspetta che esca la nuova puntata di una serie. Mi angustio quando ascolto i racconti di coloro che hanno vissuto questi autori come una tortura dell’istruzione obbligatoria. Non è colpa loro. È dei professori che hanno avuto.
Lei che professore fu?
Una mattina, arrivò in classe la madre di un mio alunno preoccupatissima. Dico: “Signora, cos’è successo?”. “Me lo dica lei, piuttosto: mio figlio mette la sveglia per venire a scuola”. Ero riuscito ad accendere in quel ragazzo qualcosa. Non so se ha funzionato anche in altri casi. Non sono io a doverlo dire. Ma quando uno studente non ama ciò che studia, spesso, è perchè nessuno è riuscito a fargli sentire la passione che c’è dentro.
Lei fece il ’68?
Venivo dalla provincia e, per me, tutto cominciò quando arrivai all’Università di Lettere a Genova. All’improvviso scoprii: gli operai, il vietato vietare, tutto e subito, una risata vi seppellirà , la fantasia, il cloro al clero, il senso critico, la necessità di cambiare, la gioia di stare insieme, le assemblee e il bisogno di utopia. Ancora oggi, nei miei programmi, continuiamo a rifiutare il principio di autorità : sbeffeggiamo venerati maestri, padri nobili, nuovi santi e idee precostituite. Non riesco a riconoscere al ’68 l’origine di tutti i mali del mondo.
Perchè voi sessantottini parlate sempre così seriamente del ’68?
Non è vero: c’era molta ironia in quegli anni e la mia l’ho custodita. Ricordo che un giorno, con un gruppo luddista, andammo a protestare sotto il carcere di Marassi contro l’arresto di uno studente. Avevamo più cartelli che persone per tenerli in mano. Per fare numero, arruolammo anche qualcuno al bar. Appena la polizia caricò, io e un mio amico — uno di quelli che stavano sempre lì teorizzare sul capitale e il lavoro — cominciammo a correre lungo la riva del Bisagno, tra i sassi e i rami degli alberi. Notai, nonostante io giocassi a calcio e fossi più allenato di lui, che galoppava più forte di me, con grande foga. Gli dissi: “Ma perchè corri così?”. “Perchè se mi prendono non potrò fare la scuola ufficiali”, mi rispose. Non era l’unico. Molti indossavano la maschera dei rivoluzionari sapendo che non l’avrebbero tenuta per tutta la vita.
Lei, però, cita ancora Gramsci. Perchè?
Scrissi una tesi sulla letteratura italiana che finiva con uno studio su di lui. È un autore che trovo ancora molto utile. Negli Stati Uniti lo sanno molto bene. In Italia, è diventato una caricatura. Il concetto di nazional popolare, prima che diventasse un insulto, era un insegnamento: quello di guardare a ciò che piace a moltitudini di persone senza disprezzo e puzze sotto il naso. Per non parlare della demonizzazione dell’avversario, che, secondo Gramsci, è la più stupida delle trappole. Esecrando il rivale, lo si mitizza, facendolo diventare una creatura divina, ai limiti dell’invincibilità .
È quello che è successo in Italia?
Quando ero ragazzo, leggevo continuamente su “L’espresso” il nome di questo Cefis, diventato presidente dell’Eni dopo la morte di Mattei. Sembrava che tolto di mezzo lui, l’Italia sarebbe stata liberata finalmente dal male. Eppure, dopo sono arrivati altri mostri. Prima Andreotti, per esempio. Poi, Berlusconi.
Alcuni l’hanno accusata di aver creato l’immaginario del berlusconismo, dunque di essere stato complice del “demonio”.
Le ragazze de L’Havana quali trasmissioni di Fidel si sono sorbite per essere ridotte così? L’immaginario è un po’ come le scie chimiche, ha i suoi sostenitori fondamentalisti e falsari. Ma nessuno sa bene cosa sia. Anzi, proprio perchè è difficile dimostrarne la corrispondenza con la realtà , è stato usato come un alibi per tutto. La sinistra ha perso? È colpa dell’immaginario berlusconiano. (E quando ha vinto, invece? Come è possibile che l’immaginario funzioni a corrente alternata?)
Perchè accade?
Perchè si cerca il demonio sempre fuori di sè, anzichè individuarlo dove spesso si annida: cioè, dentro di noi. Lui è lì, ma noi non lo si riconosciamo. Dimentichiamo che ha le corna. Due, per la precisione. E il due è un simbolo della divisione. E, infatti, eccolo lì il demonio della sinistra: nella divisione. È per questo che la sinistra perde, non certo per i meriti e le arti diaboliche di Berlusconi.
Marco Damilano ha scritto che “con il Gabibbo ha seminato l’anti politica per un quarto di secolo”.
Bisognerebbe avvertire Damilano, ma secondo me lo sa già benissimo, che non può continuare a tirare le scarpe al teatro dei pupi. Esistono forme simboliche della messa in scena. I cow boy non muoiono veramente nel film e anche il tapiro d’oro non è di oro vero. Il Gabibbo non parla: rutta. Non ha le orecchie, perchè non sa ascoltare. Non ragiona, è invasato, ha l’occhio fisso come gli ebeti, è l’unico di “Striscia la notizia” che dice: “vergogna”. È fatto solo di pancia (la pancia del paese). In realtà , è una parodia del populismo e una presa in giro dell’anti politica.
Si è offeso quando Piero Pelù l’ha definita spin doctor di Matteo Renzi?
Come potrei sentirmi toccato da una frase di Piero Pelù? L’unico che ho davvero aiutato è stato Beppe Grillo, agli inizi della sua carriera in televisione. Venne a chiedermi disperato di andare a lavorare con lui alla Rai come autore. Era già un grande affabulatore, ma aveva bisogno di qualcuno che gli scrivesse i pezzi, perchè quelli che aveva erano farina di altri sacchi. All’epoca facevo il preside della scuola per periti agrari e tecnici della Coronata. Per seguirlo, dovevo mollare tutto. Mi dicevano: “Ma che cazzo fai?”. Lasciai il posto fisso e cominciai la mia carriera in televisione.
Si è pentito?
No. Cos’altro avrei potuto fare? Il professore? Mi sono divertito più così. E credo di aver fatto anche meno danni che se avessi scelto di fare il chirurgo.
Leggendo il suo libro, ho avuto l’impressione che lei disprezzi la tv. È così?
Qualche anno fa, mi chiamarono a confrontarmi con Bernard Noà«l, probabilmente l’intellettuale francese che odia di più la televisione. Alla fine dell’incontro, mi disse: “Credevo di parlare male della televisione. Mi sono ricreduto dopo aver ascoltato quanto più male ne parli tu”. Ma non è disprezzo, è trattarla per quello che è: uno strumento che non spiega, ma spettacolarizza, non instaurando nessuno scambio con l’ascoltatore. È per questo che è contro la natura della televisione far cultura, che è in sè uno scambio.
Allora perchè ha dedicato a essa la vita?
Perchè se riesci a capire i meccanismi, puoi gettare un granello di sabbia negli ingranaggi. Certo: non la saboterai mai una volta per tutte. Ma puoi riuscire a far affiorare nello spettatore il dubbio che quel che vede non è la realtà . Non male, per un mezzo così assertivo come la tv. Dove, per avere le mani libere, non ho mai firmato un contratto di esclusiva con nessuno.
Berlusconi l’ha costruita, Grillo l’ha fatta, Renzi com’è in tv?
Renzi ha lanciato questo grande plot della rottamazione, una favola in cui gli orchi e i draghi erano quelli che popolavano la sinistra italiana prima che arrivasse lui. Ora, sta scoprendo che i suo veri nemici sono i suoi compagni di fiaba, quelli che credeva rimanessero sempre fedeli al suo fianco. È una sensazione terribile per un leader come lui. Uno che è arrivato con l’aria del conquistatore, immaginando di avere davanti a sè solo praterie da conquistare. All’improvviso, scopre che non può essere più sicuro di nulla, che non ha le spalle coperte. È un timore che ti cambia la faccia. Che ti deforma il viso e ti sfigura. Lo guardi bene e vedrà che gli si è spenta la luce negli occhi.
Ne è consapevole?
Credo di sì. Ai personaggi dello spettacolo succede che gli si spenga dentro qualcosa. Allora cercano in tutti i modi di ravvivarlo. Quasi mai ci riescono. È come se gli toccassero un punto nevralgico del corpo e si disattivasse un interruttore. Per quanto ci provino, non splenderanno più come prima. Compare nella loro espressione un dubbio. Sono i primi a non credere più a quello che fanno. Ecco cosa sta succedendo a Renzi. La tristezza si è impossessata del suo sguardo. È come se camminasse su un terreno fragilissimo. Non è più sicuro di nulla. Si è esposto alla luce nefasta della televisione e ne è uscito accecato. Ha passato mesi e mesi in cui era il solo illuminato dalla luce de riflettori e ha creduto di essere unico. In realtà , era solo. E, ora che l’ha scoperto, è il primo a sentirsi un deficiente per aver creduto alla sua stessa storia. L’idea di un bene comune non esiste, esiste solo un regolamento di conti fra astiose soubrette.
Avrebbe fatto meglio ad andarsene dopo il referendum?
Non saprei. Quel che so è che nello spettacolo, dunque anche nello spettacolo della politica, tutti muoiono per suicidio o, al massimo, come nel caso di Renzi, per fratricidio. Nessuno viene mai viene ucciso dal nemico. Quelle sono cose che succedono solo nei fantasy. Guardi cosa accade alla gente a cui consegniamo i tapiri: alcuni si comportano in maniera così assurda che quella diventa l’onta più infamante della loro vita.
A volte succede, come nel caso Weinstein e delle varie molestie, che le onte ritornino dal passato.
Mi son fatto l’idea che l’unica liberazione delle donne sia la morte del maschio. Le vedove, quando muore il marito, rinascono. Senza l’uomo al loro fianco, tornano a respirare
Teme per la sua vita?
Ho elaborato una teoria che mi toglie il pensiero: mi sono convinto di essere morto da tempo.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 26th, 2017 Riccardo Fucile
IL NAUFRAGIO DEL 2013 COSTATO LA VITA A 268 PERSONE LASCIA APERTI TROPPI INTERROGATIVI… IL SOSPETTO DEI VANTAGGI OTTENUTI DAI MILITARI
Il più alto in grado nella catena di comando viene nominato soltanto nei primi
interrogatori. È il contrammiraglio Francesco Sollitto, 58 anni, allora sottocapo di Stato maggiore del Comando in capo della Squadra navale della Marina militare: uno scioglilingua per indicare il numero due del quartier generale di Roma, che dirige tutte le navi da guerra in movimento e le missioni in corso.
Il suo nome lo fanno gli ufficiali superiori messi a verbale dalla Procura di Palermo.
Il fascicolo sul naufragio dei bambini infatti è ancora in Sicilia in quei mesi. E il contrammiraglio Sollitto lo nomina anche il suo diretto sottoposto, il capitano di fregata Luca Licciardi, 47 anni.
Licciardi è il comandante delle operazioni che l’11 ottobre 2013, mentre il peschereccio con 480 siriani a bordo sta affondando, ordina a nave Libra, vicinissima, di andare a nascondersi.
Alla domanda di un collega su cosa ordinare a nave Libra, lui risponde: «Che non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette» maltesi.
Licciardi, sentito allora come testimone, parla di Sollitto: «In casi come questo… viene avvisata la catena gerarchica, nello specifico la figura dell’ammiraglio Sollitto».
Una volta trasferito il fascicolo da Palermo a Roma per competenza territoriale, però, il livello degli ammiragli esce dall’inchiesta.
I sostituti procuratori romani non hanno mai ritenuto necessario convocare Sollitto come testimone. Eppure i vertici della catena di comando potrebbero aiutare a rispondere a una domanda fondamentale: perchè prima e dopo l’11 ottobre di quattro anni fa la Marina italiana si è sempre fatta carico degli interventi di soccorso, anche quelli coordinati da Malta, tranne quel giorno?
Un indizio c’è. L’abbiamo trovato nelle copiose dichiarazioni consegnate all’agenzia Ansa dall’allora capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe De Giorgi, prima e dopo il naufragio in cui a poche miglia da nave Libra quel pomeriggio annegano 268 persone scappate dalla Siria.
Sessanta i bambini scomparsi in mare.
È questo il clima che influenza le decisioni degli ufficiali: da settimane l’ammiraglio De Giorgi batte cassa al governo e dopo l’altra tragedia di Lampedusa, avvenuta una settimana prima il 3 ottobre, la Marina militare sostiene che senza nuovi investimenti non può affrontare i compiti di soccorso.
Insomma, che sia Malta a uscire, anche se è molto lontana da Lampedusa e dal quadrante meridionale del Mediterraneo. Il braccio di ferro di De Giorgi, prima con il premier Enrico Letta e poi con Matteo Renzi, alla fine assicura alla Marina una valanga di soldi.
Primo risultato: il 18 ottobre 2013 la famosa operazione “Mare nostrum” sposta per un anno la prima linea delle attività dalla Guardia costiera alla Marina militare, con relativi stanziamenti, indennità di missione, manutenzioni, riflettori e riconoscimenti.
Secondo risultato, il più importante: a fine 2013 e 2014 l’ammiraglio De Giorgi ottiene il finanziamento del suo “Programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa”.
Significa: contratti per la costruzione di nuove navi da guerra e soccorso, per un costo a carico dello Stato di quasi sette miliardi.
All’inizio della sua campagna mediatica, De Giorgi di miliardi di spesa ne pretende dodici. Fare lobby e chiedere nuove navi non è certamente reato.
A essere cinici, però, potremmo pensare che senza i sessanta bambini morti tra i 268 passeggeri annegati l’11 ottobre 2013 non ci sarebbe stata “Mare nostrum”.
E senza “Mare nostrum”, la Marina militare non avrebbe potuto giustificare l’urgenza di quel finanziamento da sette miliardi di euro, approvato mentre lo Stato accorpa scuole, chiude ospedali, taglia ricerca, assunzioni e pensioni.
Da lunedì 13 novembre, con il deposito della decisione del giudice per le indagini preliminari di Roma, Giovanni Giorgianni, il capitano di fregata Licciardi non è più un testimone: è l’unico ufficiale della Marina di cui la Procura dovrà chiedere il processo, su ordine di Giorgianni che ha disposto l’imputazione coatta. Imputato con lui, il capitano di vascello Leopoldo Manna, 56 anni, comandante della centrale operativa di Roma della Guardia costiera, come richiesto dagli avvocati delle vittime, Alessandra Ballerini, Emiliano Benzi e Arturo Salerni. Sono accusati di omicidio colposo di più persone e omissione di atti d’ufficio. Omissione intesa come il mancato tempestivo soccorso che avrebbero dovuto garantire.
Il giudice ha invece deciso di archiviare il procedimento contro l’ammiraglio Filippo Maria Foffi, 64 anni, diretto superiore di Sollitto, perchè quel giorno era estraneo alla catena di comando. Archiviati anche i procedimenti contro gli ufficiali della Guardia costiera Clarissa Torturo, 40 anni, e Antonio Miniero, 42, e della Marina, Nicola Giannotta, 43: hanno soltanto eseguito gli ordini dei superiori.
Vedremo ora se il capitano di fregata Licciardi accetta di finire a processo in nome di tutta la Marina.
Oppure se i clamorosi ordini che ha dato a nave Libra sono stati suggeriti o sono il frutto di una direttiva politica. Perchè soccorrere un peschereccio significa poi farsi carico di tutti i salvati. E in quei giorni dopo il naufragio del 3 ottobre anche il governo, primo fra tutti l’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, vuole dimostrare all’Europa che l’Italia da sola non ce la può fare.
Una premessa: una volta ricevuta l’informazione che il barcone si è rovesciato, la Marina e nave Libra fanno tutto il possibile per soccorrere i sopravvissuti.
L’attenzione va indirizzata su quello che è avvenuto nelle cinque ore precedenti. Tra le 12.26, ora della prima telefonata del dottor Mohanad Jammo dal peschereccio che sta affondando. E le 18, momento in cui nave Libra che si trovava a meno di un’ora di navigazione arriva in grave ritardo sul punto, addirittura 53 minuti dopo il ribaltamento.
Su questo ritardo, non tutti dentro il Comando della Squadra navale la pensano allo stesso modo.
Il capitano di fregata Francesco Marras, all’epoca comandante responsabile del centro operativo della Marina, risponde così ai pubblici ministeri di Palermo, Claudio Camilleri e Gaspare Spedale che lo interrogano come testimone: «Io se sono comandante di una nave mercantile… sto transitando in area e ho notizia di una scena Sar (Ricerca e soccorso), chiaro, sono un pirata se faccio finta di niente e me ne vado».
Lo stesso obbligo di soccorso riguarda i comandanti militari in mare e chi da terra li dirige.
Come conferma il collega della sala operativa della Guardia costiera, Leopoldo Manna, oggi imputato, durante l’interrogatorio a Palermo: «Se una nave militare viene a sapere della necessità di soccorso, deve intervenire… Per la Guardia costiera una imbarcazione con numero cospicuo di migranti a bordo è comunque un evento Sar, siamo tenuti ad attivare l’evento Sar», cioè l’operazione di ricerca e salvataggio.
Un’accusa indiretta. Guardia costiera contro Marina militare. Esattamente come quattro anni fa. Quando l’ammiraglio De Giorgi lancia la sua campagna perchè il governo affidi le operazioni di soccorso alla sua forza armata.
Eccolo a Brindisi il 9 settembre 2013: «La Marina attraversa oggi uno dei momenti più difficili della sua storia postbellica. A causa della progressiva scomparsa della flotta, dovuta al protrarsi del sottofinanziamento dei programmi di costruzione navale… Tutte le nostre energie saranno devolute a trovare le risorse e il consenso a livello nazionale affinchè la nostra Marina possa rinascere».
Il 19 settembre a La Spezia: «Se non ci saranno investimenti sostanziosi, fra dieci anni l’Italia perderà la propria capacità marittima. Siamo una specie in via d’estinzione». Il 4 ottobre a Genova, il giorno dopo il naufragio di Lampedusa: l’ammiraglio propone di «utilizzare la centrale operativa del comando della Squadra navale a Roma, per ottimizzare i mezzi in mare e mettere a sistema le informazioni sulle situazioni che si vengono a creare». È esattamente quello che accadrà di routine con l’avvio di “Mare nostrum”. Ma è ancora presto.
L’11 ottobre, mentre il peschereccio dei bambini sta affondando, la sala operativa offerta da De Giorgi risuona come un teatro di cabaret da due soldi: «Te lo chiami al telefono», ordina Licciardi riferendosi al pattugliatore Libra: «Oh, stanno uscendo le motovedette, non farti trovare davanti ai coglioni delle motovedette che sennò questi se ne tornano indietro…».
Altro ordine di Licciardi quel pomeriggio: la Libra va tenuta a una distanza «tale da poter vedere se sta pisciando in un cestino di frutta…».
E ancora, dopo che i maltesi supplicano l’invio del pattugliatore italiano: «Digli vabbè, ‘sti cazzi, ti facciamo sapere, stand by, stand by».
Durante gli interrogatori gli ufficiali dichiarano però che mai i colleghi maltesi hanno fatto dietrofront alla vista di una unità di soccorso italiana. Possibile che Licciardi decida tutto da solo?
Dopo i 366 morti del 3 ottobre e i 268 dell’11 ottobre, la porta del Consiglio dei ministri finalmente si apre. «Abbiamo dato il via all’operazione Mare nostrum», annuncia all’Ansa alle 19.11 del 14 ottobre il ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
Il 18 ottobre è l’inizio della missione umanitaria. La campagna di De Giorgi ottiene risorse e consenso.
Quel giorno l’ammiraglio scavalca addirittura il governo: «La Marina militare», dichiara a Genova, «chiede all’Italia un piano di investimenti di dodici miliardi in dieci anni». Non lo cacciano, anzi lo premiano.
Il capo di Stato maggiore in congedo dal 2016 lo scrive nella sua biografia pubblicata sul sito personale “AmmiraglioGiuseppeDeGiorgi.it”: «Da capo di Stato maggiore della Marina… ha promosso e ottenuto dal governo e dal Parlamento, nell’ambito della legge di stabilità del 2013, un finanziamento speciale di 5,3 miliardi per il rinnovo della flotta, confermato e integrato a 6,7 miliardi, nell’ambito della legge di stabilità del 2014».
Tra tanti impegni, c’è posto per occuparsi della carriera di Catia Pellegrino, 41 anni, la prima donna italiana a comandare una nave militare.
Ed è proprio la Libra. Il 15 ottobre 2013, quattro giorni dopo il massacro, la Marina pubblica su Youtube un minidocumentario autoprodotto. Titolo: «Io Catia, donna, ufficiale e ora comandante di nave Libra». Partecipa De Giorgi in persona.
Ovviamente nel video nessuno rivela che alla Libra, poche ore prima, hanno dato l’ordine di nascondersi davanti al dovere di soccorrere famiglie e bambini.
È l’inizio della costruzione del mito. E del muro di gomma che ha retto quattro anni.
La comandante Pellegrino, nel frattempo promossa e premiata con l’onorificenza di ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, resta indagata su ordine del giudice Giorgianni: la Procura romana di Giuseppe Pignatone deve ora accertare se nell’unico interrogatorio ha detto la verità .
(da “L’Espresso”)
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Novembre 26th, 2017 Riccardo Fucile
NON BASTA “RESPONSABILIZZARE” I GESTORI DEI SOCIAL QUANDO IL FENOMENO E’ ORGANIZZATO, BISOGNA IDENTIFICARE IN 24 ORE I MANIPOLATORI, ANDARLI A PRENDERE A CASA E METTERLI IN GALERA
Oggi un articolo a firma di Francesca Schianchi pubblicato sulla Stampa fa sapere che il Partito Democratico è pronto a proporre una legge sulle fake news “già in settimana”, a prima firma del presidente dei senatori PD Luigi Zanda.
La legge dovrebbe essere una risposta alle bufale online, l’ultimo caso è quello di Maria Elena Boschi e Laura Boldrini al funerale di Riina, e se ne è parlato alla Leopolda nel tavolo tematico dedicato, moderato da Matteo Richetti e Alessia Rotta.
E arriverebbe in fine di legislatura, quindi ad altissimo rischio di mancata approvazione in entrambe le Camere. Eventualmente potrà essere ripresa nella prossima legislatura.
Secondo La Stampa l’obiettivo non sono gli autori dei post ma la responsabilizzazione dei gestori dei social network.
Rosanna Filippin, la senatrice che ci ha lavorato, spiega che con la nuova norma dinanzi a un reclamo, i giganti del web sono invitati ad attivarsi per valutarlo entro 24 ore se si tratta di «contenuti manifestamente illeciti», altrimenti entro sette giorni.
Se nulla succede alla scadenza del tempo, si può ricorrere al Garante della privacy: se anche dinanzi a una sua disposizione il social network decide di far finta di niente, scattano sanzioni pesanti, da 500mila a un milione di euro.
«Quello che vorremo riuscire a fare è obbligare i gestori delle piattaforme ad accettare e valutare i reclami in tempi brevi, per evitare il fenomeno della condivisione». E ancora: «L’abbiamo copiata dalla legislazione tedesca che non è certo un Paese autoritario», giura la Filippin.
Secondo la legge tedesca i social network come Facebook, Twitter o i siti come YouTube che non rimuovono velocemente link e pagine con contenuti penalmente rilevanti o notizie palesemente false, rischiano fino a 50 milioni di euro di multa; i responsabili dei siti fino a 5 milioni.
Il Netwerkdurchsetzungsgesetz, entrato in vigore nell’ottobre 2017, prevede che uno staff di 50 dipendenti del ministero della Giustizia sorvegli l’applicazione delle norme. Anche stabilire le multe sarà compito del dicastero.
C’è da segnalare che Renzi durante il suo discorso conclusivo alla Leopolda ha però detto che non ci sarà “nessuna nuova legge” sulle fake news: una marcia indietro?
Intanto c’è da segnalare che nell’ultimo caso, quello del funerale di Riina, dopo 24 ore il link aveva già raggiunto migliaia di condivisioni: sarà sufficiente una legge di questo genere?
(da “NextQuotidiano“)
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Novembre 26th, 2017 Riccardo Fucile
I SOLITI LUOGHI COMUNI SENZA INFORMARSI… I DATI: 2300 NUOVE ASSUNZIONI, ALLENTAMENTO DEI VINCOLI DEL TURN OVER, 100 MILIONI PER PARCO MEZZI E ATTREZZATURE, RINNOVO CONTRATTUALE IN DISCUSSIONE
Luigi Di Maio ha incontrato oggi le rappresentanze sindacali dei Vigili del Fuoco al
Comando provinciale di Milano.
Successivamente ha mandato una dichiarazione alle agenzie di stampa: “Ogni volta che mi trovo in una regione cerco sempre di andare a portare un saluto ai Vigili del fuoco che sono il corpo più amato d’Italia ma anche quello dimenticato dal legislatore. Spero che nella Legge di bilancio che si sta votando in Parlamento le loro istanze vengano accolte. Prima di tutto un dignitoso trattamento stipendiale equiparandolo alle forze di sicurezza: già questo sarebbe dare un segnale di gratitudine e riconoscenza che non sia solo la semplice pacca sulle spalle”, ha detto il vice presidente della Camera.
“Ci sono tante carenze di organico, ai pompieri non viene riconosciuto il lavoro usurante — ha aggiunto — e hanno mezzi anche di 20 anni mentre la Protezione civile ha nei depositi mezzi inutilizzati nuovissimi”.
A stretto giro di posta è arrivata la replica di Marilena Fabbri, deputata del Partito Democratico, che ha accusato il leader 5 Stelle di pubblicare fake news: “Proprio tenendo conto dei rischi e della fatica a cui il corpo, spesso impegnato emergenze (terremoti, incendi, incidenti), deve far fronte, nell’arco di tutta la legislatura siamo più volte intervenuti per farci carico delle sue esigenze. Innanzitutto, con l’allentamento dei vincoli al turn-over: prima con l’assunzione di 1000 nuovi Vigili, poi con l’aumento della copertura del turn-over dal 25 al 55%. Abbiamo proceduto a diverse assunzioni straordinarie: 1030 nel 2014, 250 nel 2015, 400 nel 2016 e 593 nel 2017. Allo stesso tempo, si è provveduto ad ammodernare gli strumenti e i mezzi utilizzati, stanziando 45 milioni di euro per il parco mezzi, 22,7 per il numero unico europeo, 50 per le attrezzature. Agli appartenenti del corpo è stato esteso il bonus fiscale di 80 euro. Certo, il lavoro ancora da fare è molto per recuperare i disinvestimenti sul corpo derivante dai governi di centro destra, e per questo la nuova legge di Bilancio prevede interventi stabili quinquennali a favore di forze dell’ordine e del soccorso. A questo va aggiunto che stiamo lavorando anche alla questione del rinnovo contrattuale con un tavolo ancora aperto”.
“Per Di Maio tutti questi provvedimenti sono una ‘dimenticanza’.
Le ipotesi sono due: o è distratto da quasi 5 anni; oppure siamo davanti al solito goffo tentativo di spacciare fake news“, conclude.
E anche oggi Di Maio ha fatto la sua bella figura…
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 26th, 2017 Riccardo Fucile
LA QUOTA FISSATA PER PROGETTI DI COOPERAZIONE E’ SPUTTANATA DAL GOVERNO PER CONTRASTARE L’ARRIVO DEI RICHIEDENTI ASILO
Nella legge di bilancio di un anno fa, il governo ebbe la buona idea di inserire un “fondo speciale per l’Africa”, per prevenire l’emigrazione dai Paesi più poveri con iniziative di cooperazione e sviluppo.
Non era una cifra enorme – 200 milioni per tutto il 2017 – ma meglio di niente.
Il decreto metteva tra le priorità , oltre ai progetti d’aiuto per le comunità locali, la protezione dei soggetti più vulnerabili e dei minori non accompagnati.
I Paesi coinvolti erano 13, dal Sudan alla Somalia, dal Niger alla Libia.
Il fondo è stato quindi dato in gestione al Ministero degli Esteri. A fine ottobre, grazie a una interrogazione parlamentare e all’impegno di alcune Ngo, è emerso che dei 200 milioni stanziati ne sono stati spesi finora 140 e che di questi solo il 5 per cento è andato davvero alla cooperazione-sviluppo e il 17 per cento alla “protezione”, mentre un altro 17 è stato speso per i ritorni dei migranti nei paesi d’origine e ben il 61 per cento è finito al controllo delle frontiere.
Di quest’ultima fetta, circa 15 milioni sono stati spesi per iniziative di carattere esclusivamente militare.
Aiutiamoli a casa loro…
(da “L’Espresso”)
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Novembre 26th, 2017 Riccardo Fucile
APPARTAMENTI DI LUSSO NELLA VILLA DEI MEDICI E CONDOMINI SULLA COLLINA PATRIMONIO UNESCO
Divieto d’accesso. È un divieto tutto all’italiana, visto che al di là del cartello c’è un
parcheggio pieno di auto. Di nuovo divieto d’accesso. Anche questo tutto virtuale. Incontri il gruppo di studenti che ha marinato scuola e si è rifugiato lì, tra le macerie. Dov’è la fattoria di Lorenzo il Magnifico?
«In fondo a questo vialetto ma stia attento, le può crollare qualcosa in testa», ammonisce un ragazzo con lo zainetto in spalla.
Incontri il migrante con un sacchetto e immagini che la notte l’abbia trascorsa qui dentro, malandato riparo del suo sonno. Anche la recinzione di plastica arancione è abbattuta e dietro al varco lo scheletro della fattoria rivela i crolli, i cedimenti, lo sgretolamento di un vanto del Rinascimento.
Senza logica
L’umiliazione del degrado è calata da anni sulla fattoria di Lorenzo de’ Medici.
Gli stivali affondano nel fango, c’è un odore greve di putrido che ammorba l’aria. L’ultimo sbarramento è una grata: edificio pericolante. La scala è rimasta sospesa nell’aria, sotto è crollato tutto.
La fattoria non è solo un monumento al degrado. È il simbolo di un’Italia che non va. Non è l’Italia dell’abusivismo, delle costruzioni che nascono clandestine, dei certificati mai chiesti e mai rilasciati.
È l’Italia che manda in malora i suoi gioielli: eppure sono storie dove le autorizzazioni c’erano, i passi formali sono stati compiuti, la magistratura è intervenuta per impedire gli abusi. Il risultato è desolante e il degrado avanza .
Oppure è l’Italia dove architetture oscene e inguardabili sorgono nei centri storici delle città , nelle piazze più belle, nei luoghi d’arte: anche queste, regolarmente autorizzate dalle istituzioni. Che poi, dopo, si palleggiano le responsabilità : ma ormai lo sfregio è fatto.
Li ha catalogati Italia Nostra Onlus, questi disastri annunciati ma autorizzati. Una lista nera che va da Nord a Sud compilata regione per regione dall’associazione di salvaguardia dei beni culturali, artistici e naturali.
Architettura stravolta
Nella grande area verde della Cascine di Tavola, Comune di Prato, Toscana, nel 1477 il Magnifico decise di dare lustro a «quei pratacci tristi e con prunai e cannucceto».
Nacque una fattoria sperimentale che all’epoca era un vanto del mondo: architettonico, culturale, anche gastronomico.
Ora non c’è quasi più nulla che non sia degradato e passeggiamo, con il batticuore, nelle grandi ali laterali completamente scoperchiate. E dire che ancora nel 2010 la fattoria si presentava quasi intatta, come se percorrendola si sentissero ancora le risate delle mondine della prima risaia in Toscana, l’aroma del miele e dei formaggi, il rumore della filatura della seta prodotta dai bachi. I versi degli animali, «esotici da caccia, quali pavoni, conigli di razza spagnola, daini bianchi». O della coppia di giraffe regalate da «el Soldano di Babilonia» (l’Egitto), allora chiamate camelopardi e portate in tour per la loro stravaganza.
Come si è arrivati a questo punto di devastazione è un paradosso. Nel 2003 la fattoria, finita ai privati, è al centro di un progetto di ristrutturazione che nel vuol fare un complesso edilizio con 160 appartamenti e un hotel di lusso.
Tetti scoperchiati
C’è l’ok del Comune, c’è il via libera della Sovrintendenza. Tutte le carte in regola. O forse no.
Perchè dopo la denuncia di Legambiente e di Italia Nostra la magistratura interviene. Nel luglio 2008 sequestra tutta la proprietà . Ma lo fa quando tre quarti dei tetti sono ormai stati scoperchiati.
«Nel momento peggiore», spiega Maria Rita Signorini, oggi presidente di Italia Nostra Toscana. Anche questa volta, le carte giudiziarie sono, evidentemente, in regola. Ma da allora inizia un’agonia alla quale nessuno ha più posto rimedio.
Nel 2009 scatta un appello per «la messa in sicurezza dal degrado causato dagli agenti atmosferici» che ottiene un parzialissimo successo.
Nel frattempo la fattoria va all’asta ma per cinque volte, l’ultima a luglio, c’è il deserto. La Regione nicchia, il Comune nicchia, i privati non si fanno sotto: non spaventano tanto i 2 milioni e 650 mila euro della base d’incanto ma i 28, almeno, che serviranno a recuperare un disastro provocato da incuria, sequestri, gravi ritardi, competenze ballerine sulla proprietà , ricorsi e rinvii.
Rinascimento o Las Vegas
Non c’è niente di abusivo o di clandestino nemmeno nella struttura nata in piazza del Sordello, il cuore storico e nobile di Mantova. Qui si affacciano il Duomo, il Palazzo Vescovile, il Palazzo Ducale, quello dei Gonzaga, poi la Torre della Gabbia, i palazzi Castiglioni e Acerbi.
Non soltanto, però. Percorri la piazza calpestando l’acciottolato e sei percorso da un interrogativo.
È l’ingresso di un parcheggio sotterraneo? È l’accesso a un diurno gigante (18 metri per 20) per chi è assalito dalle esigenze fisiologiche? È il mausoleo di un miliardario eccentrico?
Sulla città incombe una sottile pioggerellina, chi passeggia sembra tenersi lontano, forse intimorito da tanta ineleganza. C’è però chi ne approfitta e si ripara: «Almeno a qualcosa serve», sospira un’anziana senza ombrello.
L’edificio, basso e tozzo, ingentilito (è un eufemismo) da tre colonne bianche e sgraziate, ha il suo nome: Domus. È sorta a gennaio, è andata a coprire un cubo provvisorio che incombeva da quando, nel sottosuolo, è stata scoperta una casa romana tutta percorsa da un mosaico.
Mantua me genuit, Mantova mi ha dato i natali, recita la tomba di Virgilio a Napoli e così si chiama l’operazione di piazza Sordello. Dopo un primo periodo di sbigottimento, un gruppo di cittadini ha organizzato una raccolta di firme. Sulla genesi dell’opera è scaricabarile.
L’attuale sindaco Mattia Palazzi, Pd e renziano (accusato venerdì dalla procura di concussione per aver chiesto presunti favori sessuali) incolpa il suo predecessore, Nicola Sodano di Forza Italia. Sodano, che è architetto, non ci sta: «Volevo eliminare il cubo e spostare i mosaici al Museo archeologico ma la soprintendenza ha detto no. Secondo tutte le autorità questa è una sistemazione corretta».
A lui non piace: «Io credo che piazza Sordello non possa sostenere nulla del genere». Ora tocca a Palazzi: «A me non piace. Dire che bisogna distruggerla però è irrealistico. Cerchiamo di capire come limitare i danni». Tutte le parti in causa concordano: l’opera ha tutti i timbri prescritti. Non è certo un abuso edilizio. Sarà difficile liberarsene. In una nazione dove anche il provvisorio diventa definitivo, spazzar via quel che come definitivo viene proposto è un problema quasi irrisolvibile.
È un interrogativo che si trascinano dietro tutti gli amministratori eredi di opere decise da chi lì ha preceduti.
Non fa eccezione Pierluigi Peracchini, sindaco di centrodestra della Spezia, che ha svoltato alle ultime elezioni dopo 46 anni di dominio della sinistra. «Questa piazza – spiega Peracchini – è stata una follia, ha tagliato in due la città , sembra un ufo atterrato dal cielo e ha costi di manutenzione enormi: ogni quattro mesi bisogna rifare la pavimentazione distrutta dai bus nelle corsie riservate».
Parla della nuova piazza Verdi ed è inevitabile che il tema del brutto, o quantomeno del terribilmente inappropriato, abbia caratterizzato e forse deciso la campagna elettorale.
Archi multicolori in centro
È la sera di un giorno d’autunno e c’è poca gente. Gli spezzini stanno faticosamente prendendo confidenza con il camminamento sotto gli archi quadrati, colorati che riflettono le panchine sospese sui piccoli specchi d’acqua. Il tempo lenisce i contrasti più duri e scolora il ricordo di quel 30 dicembre dell’anno passato, l’inaugurazione della nuova piazza, in cui La Spezia si mostrò spaccata, due fazioni contrapposta bava alla bocca, cartelli, insulti, grida.
Ora due ragazzini innamorati si baciano sotto gli archi luminosi e multicolori ma nulla è del tutto dimenticato: gli ambientalisti infuriati dal taglio dei pini, i commercianti per i disagi insopportabili di un cantiere eterno, le mamme degli studenti esasperate per la difficoltà di recuperare i propri figli a scuola.
Buon peso, le contumelie di Vittorio Sgarbi contro gli archi colorati di Daniel Buren che ha realizzato il restyling con l’architetto Giannantonio Vannetti.
Le critiche dei cittadini più conservatori quando osservano gli archi luminosi gialli, blu, rossi e verdi: «Ci manca solo Prezzemolo», il draghetto verde simbolo di Gardaland.
L’ex sindaco Massimo Federici, Pd, l’ha rivendicata come un vanto: una piazza restituita alla città . Ha seguito la strada di una gara, 89 i progetti presentati, una commissione qualificata ha scelto. Tutto regolare. I costi però si sono impennati: la piazza doveva costare 2 milioni e mezzo, ma la spesa è lievitata fino a 4 milioni. L’interrogativo sovrano: ha senso un intervento così invasivo, così fuori contesto, nel cuore di una elegante piazza liberty? Conclude realisticamente Peracchini: «Vorrei almeno ridurre l’impatto, togliere obelischi e archi colorati. Ma come si può pensare di spendere ora altri soldi dei cittadini?».
Carte in regola, opere no
Un’ora esatta di macchina e la destinazione raggiunta è Pisa. C’è padre Giuliano ad attenderci sulla piazza della chiesa di San Francesco. È fasciata dai ponteggi e i vandali li hanno utilizzati per sfregiarla imbrattando la facciata. I portoni sono chiusi dall’aprile 2016 e padre Tomasz Rylko annunciò «una delle più brutte date di questa chiesa».
Ci sono stati crolli del tetto e la situazione è di grave pericolosità . Ma anche stavolta sono le regole, le carte e le burocrazie a rallentarne restauro e riapertura: la spinosa questione sta nella proprietà .
È del demanio, cioè dello Stato, e non dell’arcidiocesi, che non ha nessuna giurisdizione. Risultato: uno stallo che è durato fino ad oggi.
Una ferita per la città , i fedeli ma anche la comunità mondiale degli amanti dell’arte, della storia, della letteratura. Nel complesso monumentale, che comprende anche il chiostro, è sepolto il Conte Ugolino della Gherardesca, podestà e comandante pisano; la sua prigionia è narrata da Dante Alighieri nel canto 33 dell’inferno. Due capolavori di Giotto e Cimabue sono oggi al Louvre: ma tutto quello che è custodito all’interno ne fa comunque un’opera fondamentale.
Guidati da padre Giuliano ci spingiamo, attraverso al chiostro e alla sagrestia, protette da reti che impediscono alle volte di far cadere i calcinacci. Ma sulla porta che immette alla chiesa bisogna fermarsi. Vietato entrare.
Il pericolo è reale e può concretizzarsi in ogni attimo. L’unica navata grandissima (70 metri per 18), è sprofondata nell’oscurità . Solo la luce di una torcia illumina i tesori. Alle spalle lo straordinario campanile che posa, quasi sospeso, su due mensole di Giovanni di Simone, l’architetto che provò a «raddrizzare» la Torre di Pisa negli ultimi tre piani.
Zero recupero
La crisi inizia quasi per caso: nel settembre di due anni fa un assessore fa un sopralluogo sulle mura cittadine e nota dall’alto che una parte del tetto è crollata. Le impalcature vengono montate anche all’interno: danneggiate 18 travi che sostengono la copertura, prima arriva la chiusura delle tre cappelle laterali di destra, tra cui quella della famiglia Della Gherardesca, poi il presbiterio e l’altare maggiore.
Da quel momento non succede più nulla.
«La verità – spiega l’architetto Maria Grazia Tampieri della soprintendenza di Pisa – è che nelle città d’arte la coperta è sempre drammaticamente corta e gli interventi moltissimi». Però assicura: «Tutta la situazione della chiesa è stata studiata, c’è l’interesse del ministero, c’è la possibilità di altri apporti».
Giura: se si fa in fretta, tutta l’operazione recupero potrebbe partire nel 2018 per arrivare l’anno successivo alla riapertura.
La Fondazione Pisa si è impegnata ed è disposta a mettere 2,4 milioni sul piatto: ma ora tocca al ministero muoversi. Intanto la grande chiesa «dello Stato» continua a rimanere sbarrata. Scempi e omissioni nell’Italia con le carte bollate in regola.
(da “La Stampa”)
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Novembre 26th, 2017 Riccardo Fucile
COMPENSA GLI ARRETRATI DEL RINNOVO CONTRATTUALE FERMO DAL 2010
Una tantum sul primo stipendio utile dopo la firma dei contratti. E non da poco: circa 580 euro.
È quanto riporta il Sole 24 Ore a proposito degli arretrati per i contratti dei dipendenti del pubblico impiego che, com’è noto, vedono il loro stipendio bloccato dal 2010. Scrive il Sole che “l’arretrato non compensa i lunghi anni di stop alla contrattazione, perchè la sentenza della Corte costituzionale che a luglio 2015 ha imposto di riattivare i rinnovi ha considerato legittimo il blocco imposto fin lì ai dipendenti pubblici”.
Nel frattempo, però, a partire dal 2016 si sono accumulati i fondi per le nuove intese in attesa della riforma dei comparti e del pubblico impiego.
La prima manovra varata dal governo Renzi dopo la sentenza costituzionale ha voluto dare poco più che un segnale, mettendo sul piatto 300 milioni di euro che nella pubblica amministrazione centrale si traducono in circa 9 euro lordi al mese.
Per calcolare l’una tantum i 9 euro vanno moltiplicati per le 13 mensilità del 2016 e per le altrettante di quest’anno, quando però si sono aggiunti i 900 milioni di euro messi a disposizione della scorsa legge di bilancio.
Per ogni mensilità di quest’anno, quindi gli 8,9 euro targati 2016 si accompagnano ai 26,8 finanziati con i nuovi fondi per un totale che si ferma poco sotto i 36 euro.
Il riassunto porta quindi aun arretrato medio da 581 euro e qualche centesimo.
(da agenzie)
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