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MELONI HA CAPITO CHE CON MATTARELLA NON CONVIENE LITIGARE

Marzo 3rd, 2024 Riccardo Fucile

DA UNO SCONTRO IL GOVERNO AVREBBE TUTTO DA PERDERE

È finita come era facile prevedere. Giorgia Meloni ha smentito di aver preso di mira Sergio Mattarella e ha pure accusato di travisarla quanti (quasi tutti, per la verità) l’avevano interpretata maliziosamente.
Chi nega alla Polizia l’appoggio delle istituzioni sono i parlamentari della sinistra, il presidente della Repubblica poveretto non c’entra nulla, i rapporti col Quirinale sono a dir poco idilliaci, ha precisato la premier dal Canada.
E c’è da scommettere che al Quirinale nessuno le terrà il broncio perché è interesse collettivo stendere un velo, voltare pagina; dunque le spiegazioni di Giorgia verranno prese per buone sebbene siano arrivate in ritardo, tre giorni dopo, anzi proprio per questo: sono chiaramente la prova che ci ha riflettuto su.
Dapprima le si è gonfiata la vena, come capita quando perde le staffe; però poi ha compreso che litigare con Mattarella è sbagliato, idem sfidarlo. Non le conviene per varie ragioni.
Anzitutto: nella gerarchia del consenso il capo dello Stato sta ancora un gradino sopra. Gode di una popolarità su cui sarebbe superfluo indugiare. Pure Meloni ha un gradimento al top; non abbastanza però da fare metaforicamente a botte con chi la sovrasta. In un incontro di pugilato avrebbe tutto da rimetterci se non altro perché lei ha ancora una carriera davanti mentre Mattarella è già stato rieletto e (ragionando cinicamente) più nulla da perdere.
Vale inoltre l’osservazione che viene attribuita al più fido dei consiglieri nonché leader dei falchi meloniani, Giovanbattista Fazzolari: entrare in urto col presidente della Repubblica avrebbe l’effetto di compattare l’opposizione che troverebbe finalmente il suo leader, quel super-eroe che Mattarella si è sempre rifiutato di incarnare sebbene tirato spesso per la giacca. Regalarlo alla sinistra con tanto di fiocco sarebbe un autogol clamoroso.
Coltivare tensioni col Colle tra l’altro non è geniale. Se lassù si mettono di traverso, governare diventa faticoso. Per ogni provvedimento occorre la firma del presidente che ce la mette soltanto se tutto è in ordine, il che raramente capita.
Su leggi e decreti si apre di regola una “interlocuzione”, vale a dire un viavai di testi legislativi tra Quirinale e Palazzo Chigi propedeutico al via libera definitivo. Che finora è sempre arrivato, a parte qualche rilievo metodologico.
Se il presidente s’impunta (ad esempio su certe nomine) c’è ben poco da fare. Mattarella ha sempre teso la mano, non ha preso la “Ducetta” di punta nemmeno quando ce ne sarebbero stati i motivi, ad esempio sul “decreto rave”, preferendo far leva sulla “moral suasion” cioè l’arte morotea e democristiana della pazienza. Ma proprio per questo non si capisce quale interesse avrebbe Meloni a guastare il clima, complicandosi la vita da sola.
Poniamoci nell’ottica della destra con qualche domanda scomoda, a costo di sfiorare nervi scoperti. Per caso il presidente congiura, trama, intriga di nascosto per richiamare Mario Draghi e fare un governo tecnico?
A quanto pare no, non c’è sentore di ribaltoni. Se qualcuno li teme, è per riflesso condizionato. Nove anni fa Mattarella fu eletto dal centrosinistra, indicato da Matteo Renzi, è vero; ma a confermarlo contribuirono Forza Italia e Lega; Mattarella oggi, con rispetto parlando, è un libero battitore; non frequenta salotti, non appartiene a congreghe, non inciucia col partito di origine dove c’è stato un salto generazionale con Elly Schlein, la quale segue una autonoma strategia, com’è giusto. Chi conosce il Colle vi coglie semmai un distacco, quasi un senso di disincanto, forse perché in nove anni hanno visto di tutto.
Tra Quirinale e governo in passato vi furono scontri duri, ma ai tempi del Cav, con Oscar Luigi Scalfaro che gli scavò la fossa. Con Giorgio Napolitano sul “caso Englaro”, quando si sfiorò lo scontro istituzionale. In fondo Meloni, a parte l’ossessione di scorgere nemici ovunque, di cosa può lamentarsi? Ha ricevuto l’incarico a tempo di record, senza bisogno dell’elezione diretta, semplicemente in base alle regole attuali. Nessuno tenta di farle ombra, è la regina della festa. Mattarella, oggettivamente, non esorbita né eccede in protagonismo; potrebbe subire semmai l’accusa contraria; interviene quando proprio non può farne a meno, come è avvenuto sull’eccesso di manganello. Mantiene il riserbo sulla questione più delicata, la riforma costituzionale che riguarda direttamente i poteri del presidente, per una forma di rispetto del Parlamento
Mattarella rappresenta infine la garanzia che, finché resterà sul Colle, nessuno potrà parlare di regime e di nuovo fascismo alle porte. Per una destra alla Thatcher è meglio vedersela con lui, pur tra alti e bassi, con un garante vero anziché in orbace o col busto del Duce in salotto. Forse è per questo che Giorgia ci ha ripensato.
(da Huffingtonpost)

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PER LE FINANZE PUBBLICHE IL GOVERNO MELONI COSTA QUANTO UNA PANDEMIA

Marzo 3rd, 2024 Riccardo Fucile

NEL PRIMO ANNO DI GOVERNO C’E’ STATO UN FORTE AUMENTO DEL DEBITO PUBBLICO: + 107 MILIARDI

Se la Meloni fosse un’amministratrice di condominio, probabilmente non verrebbe riconfermata dai condomini. Perché? E’ semplice: la sua amministrazione costa di più, senza che se ne vedano i benefici.
Questa affermazione è provata dall’andamento del debito pubblico nel corso del 2023, l’unico anno solare (finora) che è stato pienamente sotto la responsabilità del primo premier donna nella storia italiana.
Il Governo Meloni nel 2023 non si è certo fatto notare per il contenimento della crescita del debito.
Non deve essere dunque una sorpresa che, nell’ambito del periodo 2018-2023, il 2020 sia stato l’anno in cui è cresciuto di più il debito pubblico (+163 mld); infatti era l’anno del Covid-19, che aveva bloccato l’economia, e costretto lo Stato a dare aiuti a go-go per sostenere le attività imprenditoriali e i cittadini in difficoltà.
Anche il 2021, che è stato l’anno in cui la pandemia ha iniziato a recedere, grazie ai vaccini che sono stati somministrati proprio a cominciare dai primi mesi del 2021 (con buona pace dei no-vax), è stato comunque un anno difficile per la finanza pubblica, per la coda delle misure di sostegno dell’economia, tra le quali, vale la pena segnalarlo, rientrava la misura del Superbonus del 110%, introdotto dall’art. 119 del Decreto Legge 34/2020, del 19 maggio 2020, che prevedeva di ripartire le spese per gli interventi di efficienza energetica degli immobili in 5 annualità, purché fossero sostenute tra il 1° luglio 2020 e il 30 giugno 2022.
Gli effetti del Superbonus sulle finanze sono stati deleteri negli anni di Draghi ma anche nel primo di Meloni come dimostrato dall’Istat: il deficit del 2023 vola al 7,2% del Pil contro il 5,3% indicato dalla NaDef di ottobre. La spinta arriva appunto dalle spese extra legate al Superbonus, che sono salite a quota 76 miliardi contro i 37 ipotizzati nel programma di finanza pubblica a ottobre.
In ogni caso, a parte il Superbonus, dato che il 2023 è stato un anno in cui l’economia è cresciuta, sebbene in modo modesto (0,7%), e la disoccupazione si è mantenuta a livelli contenuti (passando dal 8% di gennaio 2023 al 7,2% di dicembre 2023), e non essendo state realizzate ciclopiche opere pubbliche (semmai annunciate, con fanfare propagandistiche, come nel caso del Ponte di Messina), stupisce come abbia fatto Meloni a far aumentare il debito pubblico nella stessa misura del 2021 (quando appunto c’era ancora il Covid), e decisamente di più del Governo Draghi, abbondantemente di più del Governo Conte II a trazione centrosinistra, e perfino in misura doppia rispetto al Governo Conte I (105 contro 53).
A essere maliziosi si potrebbe affermare che per le finanze pubbliche Meloni & C. sono costati quanto un’epidemia.
Ma al di là delle facili polemiche che si possono sollevare con questa affermazione, c’è da chiedersi quali siano le conseguenze di questo debito eccessivo per i cittadini italiani.
La prima preoccupazione è che, se si continua così per tutta la legislatura, ossia fino al 2027, si rischia di raggiungere vette stratosferiche del debito pubblico. D’altronde la legge di bilancio 2024 (legge 213/2023) non lascia spazio a speranze. Basti pensare che nell’art. 1 è previsto per il 2024 un incremento del debito pubblico (livello massimo del saldo netto da finanziare) di 252 miliardi (in termini di cassa), mentre si prevede un ricorso al mercato finanziario, emettendo titoli di stato, per 581 mld, che servono a coprire il deficit dell’esercizio 2024 e a rifinanziare i titoli in scadenza quest’anno. Anche per il 2025 e il 2026 le cose non andranno molto meglio, visto che si prevede un incremento del debito, rispettivamente, di 212 e 179 mld.
Insomma nel 2026 è molto probabile che con la Meloni si supererà la soglia inquietante di 3.500 mld di debito pubblico, e questo vuol dire che quando un bambino nasce in Italia riceverà una dotazione di quasi 60mila euro di debito pubblico.
Insomma i nascituri dovranno fare 2 mutui nel corso della vita, uno per la casa, e un altro per lo Stato, che potrebbe richiedere quella somma se nessuno sarà così temerario da prestare denaro ad un soggetto superindebitato.
Sebbene i mercati, le società di rating, la stessa Commissione europea stanno facendo, per ora, di tutto per rasserenare il clima (forse per dimostrare che non c’è nessun complotto nei confronti del governo a guida FdI), c’è da chiedersi fino a quando durerà questa luna di miele, che permette di mantenere ridotto lo spread, attualmente intorno ai 150 punti, tanto più che tra poco tornerà ad essere applicato il Patto di stabilità (sebbene la Meloni sia riuscita furbamente a ottenere un periodo transitorio fino, guarda caso, al 2027).
La seconda preoccupazione è data dal fatto che fino a metà 2022 i tassi di interesse erano eccezionalmente bassi (i bot davano lo 0%), per cui l’incremento del debito pubblico non impattava più di tanto sui conti pubblici, non determinando una crescita della spesa per interessi. Ma nell’ultimo anno e mezzo i tassi sono cresciuti sensibilmente, e sebbene sia ragionevole attendersi una loro riduzione da qui al prossimo biennio, tutto lascia immaginare che non si tornerà più a tassi di interesse vicino allo zero, o addirittura negativi, come durante gli anni di Draghi alla guida della Bce.
Quindi un debito pubblico crescente impatterà sempre di più sulla spesa pubblica, a causa del pagamento degli interessi. Questa affermazione è suffragata dai dati della Banca d’Italia (relazione del governatore sul 2022) relativi alle varie voci della spesa pubblica. In effetti è stato sufficiente l’inizio del percorso di rialzo dei tassi partito a luglio 2022 per far crescere la spesa annuale per interessi sui titoli di Stato da 63,7 mld del 2021 a 83,2 mld nel 2022.
Se una crescita modesta dei tassi per metà anno ha fatto aumentare la spesa per interessi per 20 miliardi, la logica matematica fa ritenere che nel 2023 questa componente della spesa pubblica abbia superato quota 100 mld, che rappresenta un importo superiore alla metà di quanto lo Stato spende annualmente per lo stipendio dei circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici (pari a 180 mld).
La terza preoccupazione viene dal fatto che con il Governo Meloni si è accentuata la politica di destinare ai piccoli risparmiatori i titoli di Stato.
L’obiettivo di questa misura è evidente: con un’alta percentuale di debito pubblico detenuta da soggetti domestici si è meno dipendenti dai mercati e dalle cancellerie europee. Il punto è che in ogni caso questa politica è inutile, vista la dimensione del debito totale, e non sarà certo qualche decina di miliardi in più in mano ai piccoli risparmiatori italiani che renderà indipendente (e sovrano) il nostro paese, anche perché, come qualche volta è sfuggito ai dirigenti dell’Ue, con le centinaia di miliardi di debito italiano detenute dalla Bce, l’Italia resta sotto scacco delle istituzioni europee comunque.
Il rovescio di questa medaglia è però quello di mettere a rischio i risparmi di molte famiglie italiane, e non è detto che in caso di guai sul fronte dei titoli di Stato italiani (basta un aumento dello spread per far perdere di valore i titoli), i nostri compatrioti saranno remissivi come i sudditi russi nei confronti di Putin (che li sta facendo vivere peggio, e perfino ammazzare, per nulla).
Chi scrive è il primo a sperare che i titoli di Stato italiani non diventeranno nei prossimi anni delle pillole avvelenate, ma purtroppo l’economia, come la matematica, non lascia spazio alle speranze, basandosì invece sui numeri e sulla logica, che la maggioranza dei componenti del Governo (con l’eccezione del Ministro dell’Economia) sembrano volutamente ignorare (o essere incapaci di capire), non rendendosi conto che stanno giocando con il futuro del paese, che non appartiene solo a loro, e neppure ai loro elettori, bensì a tutti i cittadini italiani.
(da Huffingtonpost)

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AI MONDIALI DI ATLETICA INDOOR C’È ANCHE L’ITALIA GIOVANE, FORTE E MULTIETNICA

Marzo 3rd, 2024 Riccardo Fucile

IERI L’ESPLOSIONE DI MATTIA FURLANI, ARGENTO NEL SALTO IN LUNGO. POI ANCHE SIMONELLI ARGENTO NEI 60 OSTACOLI E ZAYNAB DOSSO BRONZO NELLO SPRINT

Ai Mondiali di Atletica indoor c’è anche l’Italia. Ieri l’esplosione di Mattia Furlani, argento nel salto in lungo. Poi anche Simonelli e Dosso. Un’Italia multietnica e dal futuro più che roseo. Ne scrive anche il Corriere della Sera:
“Il ragazzo volante, Mattia Furlani, non ha nessuna voglia di tornare sulla terra. E nel suo viaggio porta con sé Lorenzo Simonelli, argento nei 60 hs (7”43) dietro il mostro Holloway (7”29), e Zaynab Dosso, bronzo nello sprint (7”05) al cospetto delle gigantesse Alfred (6”98) e Swoboda (7”00), alfieri dell’Italia giovane e multietnica che ha conficcato le unghie sul mondo“.
Furlani è il Sinner dell’atletica: «C’è ancora molto lavoro ancora da fare»
La mentalità del giovane italiano sembra quella del campione di tennis. Tanto che dopo l’argento dice: «So bene la mole di lavoro che c’è dietro, ne rimane ancora molto da fare. È da 20 settimane che penso a questi Mondiali, Istanbul (Europei indoor) e Budapest (Mondiale all’aperto) sono state lezioni imparate, torno da Glasgow con una maggiore stabilità mentale, più forte».
E infatti tra suoi idoli c’è Sinner:
“Il futuro è già qui, sotto i ricci scomposti di un ragazzo italiano che cambierà l’atletica tanto quanto Jannik Sinner sta rivoluzionando il tennis. «Non sono un esperto ma Jannik mi ha conquistato: è onesto, serio, ha una mentalità che ho visto solo a Gimbo. Mi ispira: i suoi sogni sono i miei», Mattia è il più giovane medagliato nel lungo nella storia del campionato in sala (cioè dall’85), un predestinato che dall’alto della sua età non avrebbe mai accettato un oro ex aequo“.
(da agenzie)

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VANITY CONTE: NON ACCETTERÀ MAI DI FARE IL COMPRIMARIO DELLA SCHLEIN NEL CAMPO LARGO. PUNTA A ESSERE IL PROSSIMO CANDIDATO PREMIER

Marzo 3rd, 2024 Riccardo Fucile

RONCONE SUL “CORRIERE DELLA SERA”: “CONTE HA UNA VANITÀ ASSOLUTA E UNA SULFUREA AMBIZIONE, DIVENTATA, CON GLI ANNI, PURA OSSESSIONE: TORNARE A PALAZZO CHIGI PER LA TERZA VOLTA. UNA PIÙ DI BETTINO CRAXI”

La miccia casuale di questo racconto è una vocina perfida e lucida che soffia nella bolgia di una luccicante cena dove manca solo Jep Gambardella, una festa di compleanno in un ristorante sotto l’acquedotto Claudio, tra mozzarelle di bufala ed ex calciatori della Roma, Gianni Togni (che canta Luna) e direttori di giornali, ruggenti cinquantenni con i capelli mesciati e, ad un certo punto, pure il mitologico Lotito, un po’ presidente della Lazio e un po’ senatore di Forza Italia.
Perché nella grande bellezza romana c’è politica ovunque, si fa politica ovunque. E infatti, prima del brindisi, la vocina dice: «Sul giornale dovreste spiegare bene cos’ha in testa Giuseppe Conte. Noi del Pd, purtroppo, come sempre parliamo solo di quello che ci fa comodo. Invece presto dovremo fare, scusa il gioco di parole, i conti con Conte…».
Con la sua vanità assoluta (potete pensare quello che vi pare: ma la pochette bianca a cinque punte era un solido indizio). E poi con quella sua sulfurea ambizione. Diventata, con gli anni, pura ossessione. Questa: tornare a Palazzo Chigi per la terza volta. Una più di Bettino Craxi, per dire.
C’è una forza prodigiosa che custodiamo in noi e ci consente — nei talk tv e sui social, nei retroscena dei quotidiani — di trascorrere una settimana intera a parlare di «campo largo» vincente, di centrosinistra forte e unito, di populisti grillini e radical chic dem a braccetto, e di metterci poi dentro tutto, non solo Alessandra Todde che si prende la Sardegna, ma anche Luciano D’Amico, il professore di origini contadine che potrebbe sfilare la presidenza dell’Abruzzo a Marco Marsilio, un romano molto romano, pure lui sceso da Colle Oppio, dalla catacomba trasformata in sezione del Msi dove dev’essere passato per forza chiunque speri di fare carriera nell’establishment destrorso di questo Paese (anche se l’unico segato dalle sorelle Meloni è proprio il loro ex capo, Fabio Rampelli, che quella sede animò, tra suggestioni tolkeniane e inedite sensibilità green: ma siamo al dettaglio, più che al paradosso).
Però è proprio così che poi divaghiamo. Perdendo di vista il vero punto politico di questa stagione del centrosinistra: che ha la possibilità di tornare ad essere compatto — al di là di tante questioni divisive, dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, agli aiuti in armi, all’ambiente, alla giustizia — solo ed esclusivamente a una precisa condizione. Quella di Conte: «È chiaro che il candidato premier, nel caso, dovrei essere io».
Lo sa questo Elly Schlein? Sì. Forse. Probabilmente. Secondo alcuni osservatori del Nazareno, Elly avrebbe ingaggiato da settimane un personale duello con la premier proprio nel tentativo di usare ogni polemica come un ascensore, sperando insomma di farsi «tirare su» dai media ed essere percepita dall’opinione pubblica come unica e autentica competitor: dove c’è Elly, c’è Giorgia.
Sott’inteso: chi dovrebbe correre, un giorno, per la sua successione a Palazzo Chigi? Io, pensa Conte. Che lì ci sono già stato. Vero. Ma come?
La prima volta che nella sede romana del Corriere sentimmo parlare di lui fu nel 2018, una sera di fine maggio, al tramonto. Nessuno di noi l’aveva mai neppure sentito nominare. Conte o Conti? La fonte del M5S, al telefono, precisò: «Conte. Il tizio che un’ora fa, con una specie di casting, abbiamo scelto per fare il presidente del Consiglio, si chiama Conte».
La verità è che non è mai stato troppo chiaro come e perché i grillini arrivarono ad individuare il loro futuro premier in questo sconosciuto avvocato di Volturara Appula, un paesino nelle campagne del foggiano, che collaborando con il professor Guido Alpa, era a sua volta diventato ordinario all’Università di Firenze e consulente legale di note aziende ed enti. Lo stupore, comunque, si tramutò rapidamente in curiosità.
Secondo lo schema pianificato da Di Maio e Salvini, che avevano architettato il governo gialloverde, l’incarico di presidente del Consiglio doveva infatti essere ridotto a qualcosa di simile ad una carica onorifica. Ed, effettivamente, un pomeriggio si sente Conte che, premuroso, chiede: «Luigi, posso dirlo questo?».
Il tipo, al polso, tiene un orologio con le lancette ferme, si definisce «avvocato del popolo», confessa la sua nazionalpopolare fede per Padre Pio e ha una voce di velluto. Quella dei finti buoni.
Oggi possiamo essere più precisi: nessuno di noi cronisti aveva mai visto un camaleonte così feroce. Una specie rarissima. C’è una cronaca forte come un’allucinazione. Perché Conte incontra Vladimir Putin a Roma, coltiva con cura un ottimo rapporto con Donald Trump («Oh, Giuseppi’, my friend!»), intreccia relazioni con la Cina di Xi Jinping. Poi, una sera, si siede con Angela Merkel e le spiffera che, nella sua maggioranza, qualcosa non funziona. «Davvero?», chiede lei. Lui annuisce, con una smorfia di rammarico.
Chiamate un etologo: eccolo, sta per cambiare colore. E governo. Ci riesce quando Matteo Salvini — a torso nudo, sudato — al Papetee Beach chiede i «poteri assoluti». Allora Conte va al Senato e, tra gli applausi del Pd, pronuncia un discorso affilato. Il governo gialloverde diventa così giallorosso. E lui resta ancora lì, a fare il premier e ad entrare nella storia. Attraversando una pandemia, con il rosario dei morti e certe tragiche dirette social.
Quando poi Matteo Renzi spalanca il portone di Palazzo Chigi a Mario Draghi, l’avvocato sorride (ah, che sorrisetto) e esce, si sfila la cravatta, frulla via il fazzoletto dal taschino, litiga con Beppe Grillo, cambia lo statuto dei 5 Stelle, li trasforma in partito, e se lo prende dicendo: «Tornerò, e mi chiamerete ancora premier».
Ci ha preso gusto. Pazzesco. E allora no, non è un camaleonte. Ma un piccolo spietato coccodrillo. Qualcuno avverta Elly (che continua ad accarezzarlo con troppa disinvoltura).
Fabrizio Roncone
per il “Corriere della Sera”

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IL GOVERNO PRENDE IL VOLO (A SPESE NOSTRE), FINITA L’ERA DELL’AUSTERITY E DELLA LOTTA ALLA CASTA, I MINISTRI DEL GOVERNO MELONI NON SI FANNO PROBLEMI A PRENDERE GLI AEREI DI STATO COME FOSSERO TAXI

Marzo 3rd, 2024 Riccardo Fucile

NEL 2023 SONO STATI 165 I VIAGGI CON LA FLOTTA IN DOTAZIONE A PALAZZO CHIGI, CONTRO I 157 DEL 2022 (QUASI TUTTO GOVERNO DRAGHI) E I 126 DEL 2021 (DRAGHI E CONTE 2)…EPPURE IN MOLTI CASI LE TRATTE ERANO COPERTE DA VOLI DI LINEA

Quanto piace il volo di Stato ai ministri del governo Meloni. Daniela Santanchè domani per andare a Berlino a inaugurare il padiglione dell’Italia alla fiera internazionale del turismo prenderà un volo da Ciampino con un aereo della flotta in dotazione a Palazzo Chigi: un impegno programmato per tempo e in una città che è collegata con voli di linea giornalieri da Roma e Milano. Ma tant’è, la ministra ritornerà con un altro volo di Stato martedì.
Finita l’era dell’austerity e della “lotta” alla casta fatta dai banchi dell’opposizione, adesso i componenti del governo di destracentro risultano essere quelli che di più hanno utilizzato i voli di Stato: 165 volte nel 2023, contro i 157 del 2022 (quasi tutto governo Draghi), i 126 del 2021 (sempre governo Draghi e due mesi di governo Conte II) e, saltando il 2020 anno della pandemia, i 49 voli di Stato del 2019 (governo Conte I).
I ministri che hanno preso più voli di Stato nel 2023 sono Antonio Tajani (45), Adolfo Urso (25), Guido Crosetto (24), Matteo Piantedosi (15), Raffaele Fitto (11), Franceso Lollobrigida (9), Giancarlo Giorgetti (7), Matteo Salvini, Andrea Abodi e Annamaria Bernini ( 5), Giuseppe Valditara e Daniela Santanché (3). Gli altri ministri ne hanno presi uno o due.
Voli, questi, che devono essere autorizzati dopo verifiche stringenti sulla indisponibilità di tratte di linea e di mezzi alternativi come i treni. Soprattutto se si parla di spostamenti interni al Paese: perché se è vero che per il presidente del Consiglio e il capo di Stato i voli speciali sono sempre concessi e hanno un regime particolare, per i ministri la direttiva emanata dall’allora governo Monti con tanto di circolare esplicativa prevede che questi «possano richiedere il volo di Stato» solo in casi «eccezionali
Così accade a esempio che un volo di Stato lo scorso 28 marzo sia partito da Roma alla volta di Rimini (andata e ritorno) perché il ministro dello Sport Andrea Abodi doveva svolgere una visita istituzionale a San Marino.
Il ministro delle Imprese Urso prende spesso i voli di Stato. A esempio lo scorso marzo un aereo è partito da Roma alla volta di Verona perché Urso doveva partecipare alla fiera della logistica LetExpo. Il 18 aprile Urso con l’aereo di Stato è andato da Roma a Foggia, andata e ritorno, per inaugurare lo stabilimento Iveco. Il 23 giugno invece un volo da Roma è partito alla volta di Genova perché Urso doveva partecipare a un convegno dei giovani imprenditori di Confindustria e poi da Genova l’aereo di Stato è andato a Trieste perché il ministro doveva inaugurare il nuovo stabilimento Bat.
Il ministro Valditara il 20 settembre ha chiesto un volo di Stato per andare da Roma a Reggio Calabria perché doveva visitare una scuola a San Luca. Ma davvero non c’erano voli di linea quel giorno per Lamezia Terme o Reggio Calabria? Anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani il 17 dicembre ha preso un volo di Stato: doveva andare a Crotone per partecipare all’abbattimento del palazzo Mangeruca a Torre Melissa.
In generale comunque i ministri che hanno preso più voli di Stato, anche legati alla loro delega, sono Tajani agli Esteri e Crosetto alla Difesa.
Spesso però anche per tratte interne: l’11 marzo Tajani atterra a Verona per andare a Letexpo (una fiera che ha visto partecipare due ministri arrivati con due diversi voli di Stato). Il 15 settembre il vicepremier forzista vola invece a Trieste per partecipare a un forum Ambrosetti dedicato al mare, al quale partecipa anche Nello Musumeci che non prende però volo di Stato.
Il ministro Crosetto il 9 giugno utilizza l’aereo per andare da Roma a Pisa e poi va a La Spezia per partecipare alla festa della Marina Militare. E ritorna con lo stesso volo di Stato a Roma: in serata era atteso anche a Manduria nella tenuta Vespa per essere intervistato all’evento organizzato dal giornalista. Appena insediatosi il ministro Nordio usava prendere l’aereo di Stato per tornare nella sua Treviso e fini suoi giornali. Da allora non ha preso più voli di Stato in tutto il 2023 .
(da La Repubblica)

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GIORGIA, SOTTO LE SMORFIE NIENTE

Marzo 3rd, 2024 Riccardo Fucile

HA UN TALENTO PER LA SMORFIOSAGGINE E UN REPERTORIO DAVVERO RICCO DI MOSSETTE E OCCHIATINE, URLI, SILENZI E RISATINE. TENTA LA COMMEDIA DELL’ARTE CHE È DIFFICILE TEATRO DI STRADA. PENSI PERÒ A QUANTA SERIETÀ E COMPETENZA CI VOGLIONO PER BUFFONEGGIARE ALLA MANIERA DI ETTORE PETROLINI E DI TOTÒ

Un po’ di teatro lo fanno tutti, anche perché le maschere segnano il carattere e l’identità degli italiani.
Solo Giorgia Meloni ha un repertorio davvero ricco di smorfiette, mossette e occhiatine, urli, silenzi e risatine.
Tenta la commedia dell’arte che è difficile teatro di strada. Pensi però a quanta serietà e competenza ci vogliono per buffoneggiare, per farsi beffe, alla maniera di Ettore Petrolini e di Totò.
Meloni ha un talento naturale per la smorfiosaggine, ma è convinta che basti la mossa, come la scimmietta di Trilussa che “con un’aria d’importanza, /se mise a sede, fece la svenevole, / guardò er soffitto e se grattò la panza. / — Brava! — strillò er fotografo — Benone! / Questo, pe’ fa’ cariera, basta e avanza: sei nata propio co la vocazzione! / Se allarghi mejo certi movimenti / chissà che artista celebre diventi!”.
(da La Repubblica)

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LO ZIO SAM LANCIA UN PIZZINO AI PUTINIANI D’ITALIA DOPO L’INCONTRO TRA BIDEN E MELONI, IL PORTAVOCE DELLA CASA BIANCA, JOHN KIRBY, AVVERTE: “PUTIN STA LAVORANDO PER DISTRUGGERE E MINARE LE ISTITUZIONI OCCIDENTALI”

Marzo 3rd, 2024 Riccardo Fucile

AI LEGHISTI SARANNO FISCHIATE LE ORECCHIE?

«Putin vuole ricostruire l’impero russo con le conquiste territoriali». Il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha fatto attenzione a non entrare a gamba tesa nella politica interna italiana, anche perché il vertice di venerdì tra Biden e Meloni è andato bene, per le questioni di geopolitica che premono a Washington.
Però il suo messaggio a chi ancora strizza l’occhio al Cremlino è stato chiaro, durante un incontro con i giornalisti italiani, e riguarda anche i rischi di interferenze elettorali: «È una minaccia seria, vigileremo».
Gli Usa vorrebbero usare i 300 miliardi di dollari di beni russi congelati all’estero per finanziare Kiev, ma gli europei frenano. Meloni è schierata con i colleghi Ue, infatti ieri ha detto che «sarebbe giusto usarli per ricostruire l’Ucraina, ma è difficile sul piano finanziario e legale». Meglio quindi concentrarsi sui profitti generati da quei fondi.
Può mediare al G7, e Kirby l’ha invitata a farlo: «Ogni nazione deve decidere se inchiodare Mosca alle sue responsabilità e sequestrare i fondi. È una scelta sovrana e la rispettiamo. La segretaria al Tesoro Yellen ha espresso interesse a farlo, ma servono due cose. Primo, leggi addizionali che consentano il prelievo, e ne stiamo parlando col Congresso, perché il presidente non ha l’autorità per farlo. Secondo, l’assistenza di alleati e partner che hanno accesso ad alcuni di questi beni. Lo faremo solo in concerto con loro».
Ciò riporta alla mente la lista dei putiniani italiani, che il presidente ucraino ha promesso di consegnare a Roma. Meloni ieri ha risposto che «non esistono liste di prescrizione», e Kirby l’aveva anticipata: «Non l’ho sentita, dovreste chiedere a Zelensky».
Non è un mistero però che alcuni membri della maggioranza siano vicini al Cremlino, e il caso Metropol non è passato inosservato a Washington: «La questione – ha commentato Kirby – riguarda la premier e il popolo italiano. Facendo un passo indietro, però, riteniamo che questo non sia il momento per nessuno di fare qualsiasi cosa che renda la vita più facile a Putin, e certamente per i paesi di avere relazioni normali con lui.
Lo diciamo con i nostri atti, come le sanzioni, per non parlare del sostegno che abbiamo fornito e forniremo all’Ucraina per difendersi. Senza entrare nelle questioni domestiche italiane, non serve molto per vedere quanto Putin stia lavorando per distruggere e minare le istituzioni, il sistema internazionale e le organizzazioni, per le quali abbiamo combattuto duramente dalla Seconda guerra mondiale in poi, allo scopo rifare non solo l’Europa, ma il mondo come piace a lui.mSe qualcuno ancora pensa che sia una brava persona, guardi il discorso alla nazione pronunciato pochi giorni fa. Non ha mitigato in alcun modo il desiderio della Russia come potenza globale, che mette a rischio così tanti stati sovrani, non solo in Europa. Ha un senso sbagliato della storia. Vuole ricostruire l’impero russo con le conquiste territoriali. nAncora non crede che l’Ucraina debba esistere come stato indipendente e sovrano. Pensa in maniera delirante che quanto sta facendo sia difendere se stesso contro Occidente, Usa e Nato, quando non c’è alcuna prova. Se fossi alla cena di Thanksgiving con la famiglia Kirby, e un parente dicesse cose positive su Putin, gli sbatterei in faccia il suo discorso, perché c’è molto per convincere chiunque che non è il momento di avere simpatie per lui».
(da La Repubblica)

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IN VENETO I MUGUGNI CONTRO SALVINI SI TRASFORMANO IN SOMMOSSA. IL CAPITONE È SUL BANCO DEGLI IMPUTATI PER GLI INSUCCESSI ELETTORALI E LA DERIVA A DESTRA (CHE C’AZZECCA VANNACCI CON GLI IDEALI BOSSIANI?)

Marzo 3rd, 2024 Riccardo Fucile

SI PREPARA LA SUCCESSIONE AL CAPITANO, CON FEDRIGA IN PRIMA FILA. MENTRE ZAIA, CHE AUSPICA “UN PARTITO LABOUR ALLA TONY BLAIR”, NON MOLLA LA BATTAGLIA PER IL TERZO MANDATO

In Sardegna non solo il presidente leghista è stato sostituito d’imperio da un candidato meloniano lasciando di stucco i militanti isolani del Carroccio ma la Lega ha ottenuto appena il 3,7% (rispetto all’11,4% delle precedenti regionali e al 6,3% delle politiche 2022), in Veneto il cerchio magico di Luca Zaia non si capacità di come a Roma la Lega non riesca a cavare un ragno dal buco sul terzo mandato e sul banco degli imputati va ovviamente Matteo Salvini, reo anche di frequentazioni politiche controverse, da Marine Le Pen a Roberto Vannacci, che con la Lega bossiana, quella che in Veneto macina voti e consensi, non hanno nulla da spartire.
Ce n’è quanto basta perché i mugugni si trasformino in sommossa. Senza contare che si voterà in Abruzzo e per la Lega potrebbe esserci un’altra tosata di percentuale. Non è un caso che in questo tsunami che sta investendo il Carroccio la regola del silenzio pena l’espulsione non sia più un deterrente efficace.
Ecco allora in panchina prepararsi chi potrebbe, secondo i veneti, prendere il posto di Salvini. Si tratta di Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia e in grande sintonia con Zaia, e di Roberto Marcato, assessore regionale di punta della giunta Zaia.
Ad aprire la strada gli zaiani hanno mandato un centravanti di sfondamento, Gianantonio Da Re, leghista duro-e-puro, 60 anni, di Cappella Maggiore (Treviso), ex sindaco di Vittorio Veneto, ex consigliere regionale, ora europarlamentare eletto nel collegio Nord-Orientale.
Lui ha festeggiato il Capodanno ieri perché così era per la Repubblica Veneta. Spiega: «In Veneto, all’epoca della Serenissima, il Capodanno non era il primo gennaio ma l’1 marzo. Questa tradizione ha origini antiche: furono i romani, stabilendo la divisione dell’anno, a farlo iniziare l’1 marzo, dedicando l’intero mese a Marte, Dio della Guerra. Festeggiare il Capodanno in primavera era usanza anche della popolazione veneta preromanica che a sua volta l’aveva ereditata dagli indoeuropei. Perciò buon anno a tutti i veneti».
La Lega, per l’europarlamentare, dovrebbe rifarsi a queste tradizioni non flirtare con Vannacci: «Ma come facciamo a presentarci in Europa con lui? Nessuno lo vuole, metterebbero la Lega in castigo. Se sarà in lista lui non mi candido io. La mia è una scelta politica, non condivido niente del famoso libro, ci sono pagine dove dice che Mussolini è stato uno statista, per me Mussolini era un dittatore, lo statista era De Gasperi. Vannacci non può fare il capolista. Se Salvini non corre, l’unico capolista è il ministro Giorgetti che è in grado di intercettare quell’elettorato fatto da persone moderate che hanno votato Lega e non voteranno Vannacci. Questa è l’unica soluzione per tornare a crescere».
Da Re esprime un malcontento che nei congressi leghisti in corso nel Veneto altri affermano a mezza bocca. Una settimana fa si è svolto quello di Treviso e in 500 hanno applaudito l’assessore regionale Federico Caner quando ha detto, sulla scia delle considerazioni di Da Re: «Si deve togliere il nome di Salvini dal simbolo».
Mentre un assist a Fedriga lo lancia il sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy, Massimo Bitonci: «Quando hai delle persone come Zaia e Fedriga bisogna cercare di tenerle, non metterle da parte».
Zaia non aspira a guidare il partito, se non passerà il terzo mandato (quarto per lui) lo alletta la carica di sindaco di Venezia. Quindi oltre a Fedriga l’altro candidato di peso che potrebbe prendere il posto di Salvini è, per i leghisti veneti, Roberto Marcato, 56 anni, assessore regionale allo Sviluppo economico, fondatore della Liga Veneta, che si definisce «autonomista impenitente», alle regionali è stato il più votato: 11.657 preferenze.
Lui non si tira indietro: «Se le regole d’ingaggio al congresso nazionale saranno chiare potrei partecipare. Dopo i segretari lombardi tocca a un veneto, il segretario non può essere sempre un «foresto»».
Insomma quella Roma che per Bossi era ladrona è diventata ora di nuovo indigeribile per i Zaia boys perché il Veneto conta assai poco e Salvini si fa i suoi giochi romani, loro non ne possono più dei Vannacci di turno. Scandisce Marcato: «La Liga è sindacato di territorio che chiede l’autonomia. il federalismo e sostiene le Pmi e la signora Maria che non arriva a fine mese. L’ha detto Zaia e lo ripeto anch’io: un partito labour».
La Lega partito laburista, lontano anni luce da quanto sta dicendo e facendo Salvini? È la strada che indica Zaia: «Spero che la Lega diventi sempre più un partito labour alla Tony Blair». Strade sempre più divergenti e ormai incomunicabili.
(da Italia Oggi)

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GIORGETTI ACCUSA LA RAGIONERIA DELLO STATO DI NON AVERLO AVVERTITO DEI COSTI FUORI CONTROLLO DEL SUPERBONUS, PER LA CORSA AI CREDITI D’IMPOSTA ATTIVATI A FINE 2023, CHE HANNO FATTO SCHIZZARE IL DEFICIT AL 7,2%

Marzo 3rd, 2024 Riccardo Fucile

PECCATO CHE I TECNICI DEL DIPARTIMENTO DEL TESORO LO AVESSERO INFORMATO SUL BUCO NEI CONTI DELLO STATO GIÀ A NOVEMBRE – LA RAGIONERIA POTREBBE METTERE A TACERE GIORGETTI PRESENTANDOGLI UN “PROMEMORIA”

In novembre scorso il flusso dei dati riservati dell’Agenzia delle Entrate e di quelli pubblici dell’Enea, l’ente che registra gli interventi finanziati dal Superbonus immobiliare, mettevano già in evidenza una sgradevole verità: il costo dei crediti d’imposta al 110% attivati nel 2023 stava già superando di circa 20 miliardi di euro il livello di 30 miliardi preventivato sull’intero 2023.
Il disavanzo dello Stato per l’anno dunque minacciava di superare di almeno l’1% del prodotto lordo quel 5,3% preventivato nell’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) presentato dal governo in autunno.
Stava succedendo qualcosa di imprevisto. Di fronte alla prospettiva di una stretta sull’incidenza dei crediti d’imposta ottenibili in proporzione alle spese effettuate – dal 110% originario, al 90%, fino al 70% in vigore nel 2024 – nella parte finale del 2023 si è verificata una vera e propria corsa delle famiglie ad attivare il Superbonus a condizioni d’oro: rimborsi fiscali altissimi, crediti d’imposta utilizzabili come contante per pagare le imprese edili e cedibili da queste ultime alle banche.
Dunque i conti dello Stato sul 2023 erano diretti in una direzione diversa: ieri l’Istat ha certificato un deficit al 7,2% del Pil, sopra il 4,4% preventivato nel Def di aprile scorso e il 5,3% dell’“aggiornamento” di settembre.
Hanno senz’altro contribuito anche tre dettagli passati in Parlamento dalla maggioranza convertendo al decreto di un anno fa, con il quale il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti cercava di dare una stretta al Superbonus. In primo luogo il meccanismo restava automatico, senza alcun limite al tiraggio consentito. In secondo luogo chi non aveva ancora portato i crediti nel suo “cassetto” fiscale, per esigerli dallo Stato, aveva più tempo per farlo. In terzo luogo chiunque avesse anche solo presentato la “comunicazione di inizio lavori” prima del decreto di stretta del febbraio 2023 – un semplice formulario online – aveva diritto a godere in pieno del Superbonus al 110% alle generosissime condizioni originarie.
Quei tre dettagli sono frutto di scelte in sede politica compiute o confermate dall’attuale maggioranza. E hanno contribuito ad aprire una nuova voragine nei conti pubblici. Non è chiaro tuttavia, a sentire gli uffici coinvolti, in che misura e quando Giorgetti stesso fosse consapevole della dinamica fuori linea esplosa in autunno ed evidenziata nei dati dell’Agenzia delle Entrate e dell’Enea.
Secondo ambienti vicini a Giorgetti stesso, il ministro non era a conoscenza dei dati di deficit al 7,2% comunicati ieri dall’Istat. Questi ambienti si chiedono da quando la Ragioneria dello Stato – che è un dipartimento del ministero guidato da Giorgetti – fosse stata al corrente della divergenza sui conti.
Ambienti della Ragioneria invece hanno una versione diversa: conservano memoria di aver segnalato al ministro il primo sfondamento da 20 miliardi sul Superbonus a novembre 2023 e un secondo sfondamento da altri 20 miliardi circa a gennaio 2024.
La Ragioneria dunque avrebbe comunicato che il deficit sul 2023 sarebbe stato almeno fra il 6,5% e il 7%, poi lievemente rivisto al rialzo (7,2%) da Istat sulla base di stime su dati attinti dall’ufficio statistico da altri ministeri.
In anni anche lontani incomprensioni fra il ministro dell’Economia e la Ragioneria hanno portato quest’ultima a presentare al ministro stesso dei promemoria, per ricordargli il proprio operato e documentarlo. Non è escluso che succeda di nuovo.
Di certo dietro la tensione sui costi nel 2023 del Superbonus (e anche di Industria 4.0) c’è un tema anche più serio: la recente esplosione ulteriore di questi crediti d’imposta, voluti senza alcun tetto dalla classe politica quasi per intero, mettono il debito pubblico in condizioni precarie.
Scrivere il nuovo Def sarà difficilissimo. Mettere il debito in traiettoria calante come da regole europee anche, perché tra l’altro nessuno a Roma è disposto a giurare che nel 2024 il Superbonus sia davvero sotto controllo. Poco importa se con un vecchio Ragioniere dello Stato, o con uno nuovo magari più gradito alla politica.
(da Corriere della Sera)

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