PER LE FINANZE PUBBLICHE IL GOVERNO MELONI COSTA QUANTO UNA PANDEMIA
NEL PRIMO ANNO DI GOVERNO C’E’ STATO UN FORTE AUMENTO DEL DEBITO PUBBLICO: + 107 MILIARDI
Se la Meloni fosse un’amministratrice di condominio, probabilmente non verrebbe riconfermata dai condomini. Perché? E’ semplice: la sua amministrazione costa di più, senza che se ne vedano i benefici.
Questa affermazione è provata dall’andamento del debito pubblico nel corso del 2023, l’unico anno solare (finora) che è stato pienamente sotto la responsabilità del primo premier donna nella storia italiana.
Il Governo Meloni nel 2023 non si è certo fatto notare per il contenimento della crescita del debito.
Non deve essere dunque una sorpresa che, nell’ambito del periodo 2018-2023, il 2020 sia stato l’anno in cui è cresciuto di più il debito pubblico (+163 mld); infatti era l’anno del Covid-19, che aveva bloccato l’economia, e costretto lo Stato a dare aiuti a go-go per sostenere le attività imprenditoriali e i cittadini in difficoltà.
Anche il 2021, che è stato l’anno in cui la pandemia ha iniziato a recedere, grazie ai vaccini che sono stati somministrati proprio a cominciare dai primi mesi del 2021 (con buona pace dei no-vax), è stato comunque un anno difficile per la finanza pubblica, per la coda delle misure di sostegno dell’economia, tra le quali, vale la pena segnalarlo, rientrava la misura del Superbonus del 110%, introdotto dall’art. 119 del Decreto Legge 34/2020, del 19 maggio 2020, che prevedeva di ripartire le spese per gli interventi di efficienza energetica degli immobili in 5 annualità, purché fossero sostenute tra il 1° luglio 2020 e il 30 giugno 2022.
Gli effetti del Superbonus sulle finanze sono stati deleteri negli anni di Draghi ma anche nel primo di Meloni come dimostrato dall’Istat: il deficit del 2023 vola al 7,2% del Pil contro il 5,3% indicato dalla NaDef di ottobre. La spinta arriva appunto dalle spese extra legate al Superbonus, che sono salite a quota 76 miliardi contro i 37 ipotizzati nel programma di finanza pubblica a ottobre.
In ogni caso, a parte il Superbonus, dato che il 2023 è stato un anno in cui l’economia è cresciuta, sebbene in modo modesto (0,7%), e la disoccupazione si è mantenuta a livelli contenuti (passando dal 8% di gennaio 2023 al 7,2% di dicembre 2023), e non essendo state realizzate ciclopiche opere pubbliche (semmai annunciate, con fanfare propagandistiche, come nel caso del Ponte di Messina), stupisce come abbia fatto Meloni a far aumentare il debito pubblico nella stessa misura del 2021 (quando appunto c’era ancora il Covid), e decisamente di più del Governo Draghi, abbondantemente di più del Governo Conte II a trazione centrosinistra, e perfino in misura doppia rispetto al Governo Conte I (105 contro 53).
A essere maliziosi si potrebbe affermare che per le finanze pubbliche Meloni & C. sono costati quanto un’epidemia.
Ma al di là delle facili polemiche che si possono sollevare con questa affermazione, c’è da chiedersi quali siano le conseguenze di questo debito eccessivo per i cittadini italiani.
La prima preoccupazione è che, se si continua così per tutta la legislatura, ossia fino al 2027, si rischia di raggiungere vette stratosferiche del debito pubblico. D’altronde la legge di bilancio 2024 (legge 213/2023) non lascia spazio a speranze. Basti pensare che nell’art. 1 è previsto per il 2024 un incremento del debito pubblico (livello massimo del saldo netto da finanziare) di 252 miliardi (in termini di cassa), mentre si prevede un ricorso al mercato finanziario, emettendo titoli di stato, per 581 mld, che servono a coprire il deficit dell’esercizio 2024 e a rifinanziare i titoli in scadenza quest’anno. Anche per il 2025 e il 2026 le cose non andranno molto meglio, visto che si prevede un incremento del debito, rispettivamente, di 212 e 179 mld.
Insomma nel 2026 è molto probabile che con la Meloni si supererà la soglia inquietante di 3.500 mld di debito pubblico, e questo vuol dire che quando un bambino nasce in Italia riceverà una dotazione di quasi 60mila euro di debito pubblico.
Insomma i nascituri dovranno fare 2 mutui nel corso della vita, uno per la casa, e un altro per lo Stato, che potrebbe richiedere quella somma se nessuno sarà così temerario da prestare denaro ad un soggetto superindebitato.
Sebbene i mercati, le società di rating, la stessa Commissione europea stanno facendo, per ora, di tutto per rasserenare il clima (forse per dimostrare che non c’è nessun complotto nei confronti del governo a guida FdI), c’è da chiedersi fino a quando durerà questa luna di miele, che permette di mantenere ridotto lo spread, attualmente intorno ai 150 punti, tanto più che tra poco tornerà ad essere applicato il Patto di stabilità (sebbene la Meloni sia riuscita furbamente a ottenere un periodo transitorio fino, guarda caso, al 2027).
La seconda preoccupazione è data dal fatto che fino a metà 2022 i tassi di interesse erano eccezionalmente bassi (i bot davano lo 0%), per cui l’incremento del debito pubblico non impattava più di tanto sui conti pubblici, non determinando una crescita della spesa per interessi. Ma nell’ultimo anno e mezzo i tassi sono cresciuti sensibilmente, e sebbene sia ragionevole attendersi una loro riduzione da qui al prossimo biennio, tutto lascia immaginare che non si tornerà più a tassi di interesse vicino allo zero, o addirittura negativi, come durante gli anni di Draghi alla guida della Bce.
Quindi un debito pubblico crescente impatterà sempre di più sulla spesa pubblica, a causa del pagamento degli interessi. Questa affermazione è suffragata dai dati della Banca d’Italia (relazione del governatore sul 2022) relativi alle varie voci della spesa pubblica. In effetti è stato sufficiente l’inizio del percorso di rialzo dei tassi partito a luglio 2022 per far crescere la spesa annuale per interessi sui titoli di Stato da 63,7 mld del 2021 a 83,2 mld nel 2022.
Se una crescita modesta dei tassi per metà anno ha fatto aumentare la spesa per interessi per 20 miliardi, la logica matematica fa ritenere che nel 2023 questa componente della spesa pubblica abbia superato quota 100 mld, che rappresenta un importo superiore alla metà di quanto lo Stato spende annualmente per lo stipendio dei circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici (pari a 180 mld).
La terza preoccupazione viene dal fatto che con il Governo Meloni si è accentuata la politica di destinare ai piccoli risparmiatori i titoli di Stato.
L’obiettivo di questa misura è evidente: con un’alta percentuale di debito pubblico detenuta da soggetti domestici si è meno dipendenti dai mercati e dalle cancellerie europee. Il punto è che in ogni caso questa politica è inutile, vista la dimensione del debito totale, e non sarà certo qualche decina di miliardi in più in mano ai piccoli risparmiatori italiani che renderà indipendente (e sovrano) il nostro paese, anche perché, come qualche volta è sfuggito ai dirigenti dell’Ue, con le centinaia di miliardi di debito italiano detenute dalla Bce, l’Italia resta sotto scacco delle istituzioni europee comunque.
Il rovescio di questa medaglia è però quello di mettere a rischio i risparmi di molte famiglie italiane, e non è detto che in caso di guai sul fronte dei titoli di Stato italiani (basta un aumento dello spread per far perdere di valore i titoli), i nostri compatrioti saranno remissivi come i sudditi russi nei confronti di Putin (che li sta facendo vivere peggio, e perfino ammazzare, per nulla).
Chi scrive è il primo a sperare che i titoli di Stato italiani non diventeranno nei prossimi anni delle pillole avvelenate, ma purtroppo l’economia, come la matematica, non lascia spazio alle speranze, basandosì invece sui numeri e sulla logica, che la maggioranza dei componenti del Governo (con l’eccezione del Ministro dell’Economia) sembrano volutamente ignorare (o essere incapaci di capire), non rendendosi conto che stanno giocando con il futuro del paese, che non appartiene solo a loro, e neppure ai loro elettori, bensì a tutti i cittadini italiani.
(da Huffingtonpost)
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