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PER NON PERDERE IN ABRUZZO, MELONI E SALVINI PROMETTONO PURE LA FETTINA DI CULO PANATO

Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile

È STATA RIFINANZIATA LA FERROVIA ROMA-PESCARA, CANCELLATA MESI FA DAL PNRR… SALVINI PROMETTE UN NUOVO CASELLO AUTOSTRADALE A MONTORIO AL VOMANO E EVOCA “MILIARDI DI INFRASTRUTTURE” … MINISTRO DELLA SANITÀ SCHILLACI È ANDATO A SIGLARE UN PROTOCOLLO DA 60 MILIONI PER L’OSPEDALE DI CHIETI, IL VICEMINISTRO PAOLO SISTO ASSICURA IL SALVATAGGIO DEI TRIBUNALI A RISCHIO

Lì, dove tutto nacque. Perché nel 2017 fu un risultato storico la vittoria di Marco Marsilio in una Regione che è sempre stata un «latifondo bianco» Insomma, Regione «Sorella d’Italia», strettamente imparentata al partito romano. Un simbolo. Lì non si era mai vista una tale parata di ministri, una dozzina in tutto, a pochi giorni dal voto, sfavillante conferma, che vale più di qualunque sondaggio, di un’ansia elettorale crescente. Una roba a metà tra una televendita di Giorgio Mastrota e il recupero della tradizione di zio Remo (Gaspari), paradigma di un clientelismo meno truculento rispetto ad Antonio Gava, ma altrettanto impattante sulle casse dello Stato.
Con un timing perfetto e sospetto rispetto alla data del voto, è stata rifinanziata anche la famosa ferrovia Roma-Pescara, cancellata mesi fa dal Pnrr con un tratto di penna, anche se c’è il trucco: il raddoppio del binario è fermo al piano di fattibilità e la tranche di denari arriverà da progetti che il governo ha dimenticato di indicare. Pure un nuovo casello autostradale a Montorio al Vomano ha annunciato ieri Matteo Salvini, pressoché trasferitosi in Abruzzo.
Ovunque promette “miliardi di infrastrutture”, perché sa che si gioca la ghirba e, se non prende almeno il 6 per cento, la fa giocare a tutta l’allegra compagnia. Il ministro della Sanità Orazio Schillaci è andato a siglare un protocollo da 60 milioni per l’ospedale di Chieti, il viceministro Paolo Sisto ad assicurare il salvataggio dei tribunali a rischio, Daniela Santanchè, ca va san dire, il turismo delle meraviglie. E così via, venghino signori venghino
E’ evidente quale sia la posta in gioco, se hai governato per cinque anni e devi ricorrere a questi mezzi perché non sei nelle condizioni di dire «proseguiremo nel lavoro svolto», in quanto su quello ti bocciano. La sconfitta in Sardegna è stata un errore «soggettivo», legato a una sindrome di onnipotenza e alla scelta (sbagliata) di un candidato. La sconfitta in Abruzzo rappresenterebbe una bocciatura «oggettiva» del melonismo praticato a livello regionale.
Che sul melonismo nazionale, dopo la Sardegna, darebbe l’idea di una «china» intrapresa, destinata ad amplificare la fine del momento magico e a squadernare il tema della classe dirigente, sempre scelta con i criteri di fedeltà più che di competenza. Insomma, lei ha tutto da perdere e stavolta non le basta vincere, ma deve anche convincere: la vittoria la metterebbe a riparo dal processo, ma se è di misura non la mette a riparo da dubbi e scricchiolii nella sua coalizione. Gli altri, invece, hanno tutto da guadagnare. Chi l’avrebbe mai detto. Lì dove tutto è iniziato.
(da la Stampa)

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OSPEDALI CHIUSI, MALATI IN FUGA: LA FAIDA FDI-LEGA SULLA SANITA’ RISCHIA DI FAR CADERE I SOVRANISTI IN ABRUZZO

Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile

NELLA REGIONE SONO AUMENTATI I VIAGGI DELLA SPERANZA ED E’ DIMINUITA L’OFFERTA SANITARIA PUBBLICA A VANTAGGIO DEI PRIVATI

Sulla sanità in Abruzzo negli ultimi cinque anni si è giocata una lotta fratricida tra Lega e Fratelli d’Italia. Una lotta di potere e di poltrone – per lottizzare ogni angolo di un settore che muove oltre due miliardi e mezzo di euro di spesa all’anno, tra pubblico e privato accreditato – che proprio ora, alla vigilia del voto, giunge alla resa dei conti finale.
Il tutto avviene in una Regione che a parte l’agricoltura e un po’ di manifatturiero non offre altra economia diffusa. Il risultato di questa lotta non solo ha peggiorato un servizio che già non brillava, spingendo sempre più cittadini ad andare a farsi curare in altre Regioni: ma rischia anche di costare carissimo al governatore uscente e grande amico di Giorgia Meloni, Marco Marsilio.
“Consociativismo di bassa lega”
Sondaggi alla mano, per gli abruzzesi il problema più sentito, ancora di più del lavoro in un territorio che vede sempre più over 50 tra i residenti e giovani in fuga, è la sanità. Peccato però che in questi anni manager e anche figure sanitarie di vertice siano stati nominati all’interno di liste ristrette e composte da nomi legati alla politica locale, senza alcuna apertura al meglio che offre il Paese. «Consociativismo di bassa lega», sintetizza un primario abruzzese. Un metodo, cioè, che non permettere all’assistenza di migliorare, e così sono aumentati i viaggi della speranza ed è diminuita l’offerta sanitaria pubblica sul territorio, a vantaggio dei privati. L’Abruzzo, tra l’altro, è la Regione che ha subito il più grande attacco hacker a un sistema sanitario, che ha bloccato a lungo le attività e costretto il personale a rispolverare carta e penna, salvo scoprire che in alcune di queste semplicemente non erano stati aggiornati i software: esempio lampante di una gestione che fa acqua da tutte la parti.
L’assessora “scippata” alla Lega
Eppure per Fratelli d’Italia la sanità conta talmente tanto da “scippare” alla Lega proprio l’assessora al ramo nella giunta Marsilio: il mese scorso, a ridosso del voto, Nicoletta Verì ha lasciato Salvini per abbracciare Meloni, anche se non ufficialmente. Sei giorni fa ha lanciato a Pescara la sua campagna elettorale da candidata nella lista Marsilio Presidente animata da Fratelli d’Italia, il partito del governatore uscente. La sanità è un settore che conta e dopo cinque anni di gestione adesso si vedrà alle urne quanto vale il lavoro dell’assessora che non porterà più i suoi consensi alla Lega. Ma in casa Fratelli d’Italia si punta molto anche sui consensi dell’assessore al Bilancio, che è un noto chirurgo che lavora per la clinica privata “Immacolata” di Celano, Mario Quaglieri. La sanità è potere, voti, ma anche il tallone d’Achille per la giunta Marsilio: «In questo comparto troverà la sconfitta al voto – dice il senatore del Pd Michele Fina – perché secondo un nostro sondaggio recente è il problema più sentito tra gli abruzzesi, perché il sistema non funziona e il governatore in questi anni ha peggiorato le cose. Qualche esempio? Nelle aree interne le ambulanze del 118 non hanno medici e in alcune province come Rieti sono crollate le prestazioni sanitarie segnando in media un meno trenta per cento».
Approvazione tardiva di bilanci
I primi problemi della sanità sono economici. L’Abruzzo è una delle Regioni finite in piano di rientro. La Corte dei Conti, appena tre giorni fa, ha fatto notare che il bilancio consolidato è solo per gli anni dal 2018 al 2021 «e che, per quest’ultima annualità, il documento definitivo è stato approvato dalla Regione solo a luglio 2023». Non è solo un fatto formale. La tardiva approvazione dei bilanci degli enti del servizio sanitario locale «ha condizionato l’attività di indirizzo e vigilanza dell’ente Regione». Tradotto: la sanità funziona peggio. E del resto, sempre per il presidente della Sezione regionale di controllo della Corte, Stefano Siragusa, ci sono problemi, come «la gestione del recupero delle liste di attesa e il saldo negativo per la mobilità extraregionale». Poi c’è un tema che riguarda i privati convenzionati, per i quali non si fissano i tetti di spesa, cosa che non permette di programmare l’offerta sanitaria e porta a contenziosi con i privati stessi.
Migra un malato di tumore su quattro
Ma a rivelare le difficoltà del sistema sanitario ci sono le fughe dei cittadini per curarsi in altre Regioni. L’Abruzzo è terzultimo in Italia per il cosiddetto “Indice di soddisfazione della domanda interna” (Isdi) creato da Agenas, l’agenzia nazionale sanitaria delle amministrazioni locali, proprio per calcolare quanto sono in grado i sistemi pubblici di rispondere alle esigenze degli abitanti. Peggio vanno solo Basilicata e Calabria. Il saldo dei costi di chi va a curarsi altrove, 29 mila pazienti, e chi arriva da altre realtà (18 mila persone) è negativo per 51 milioni di euro. Una cifra importante. Di questi, 6,6 milioni riguardano persone che hanno il cancro. Significa che un malato di tumore su quattro decide di “migrare”. In pochi in Italia fanno peggio. Del resto, 6 malati su 10 di tumore al fegato e 5 su 10 di tumore alla tiroide lasciano l’Abruzzo.
Il nodo delle liste di attesa
E sempre seguendo ciò che dice la Corte dei Conti, va ricordato il problema delle liste di attesa. La sanità regionale fa meno attività pubblica e convenzionata rispetto all’anno precedente al Covid. Meno offerta significa più liste di attesa. Nel primo semestre del 2023 sono state fatte 628mila visite contro le 730mila del 2019. Si tratta del 14% di attività in meno. Se si guarda agli esami diagnostici il calo è stato del 12%. I cittadini non si fanno controllare o bussano al privato. Per questo sono insoddisfatti della loro sanità.
(da repubblica.it)

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IL CAMALEONTISMO PARACULO DELLA MELONI FA INCAZZARE IL MONDO CONSERVATORE AMERICANO. “FOX NEWS” SVELENA CONTRO LA PREMIER ACCUSANDOLA DI “VOLTAFACCIA”: “DA ANTI GLOBALISTA. A PRO EUROPA. LA COCCA DI BIDEN FA INFURIARE LA BASE”

Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile

SALVINI VEDE L’ENNESIMA OPPORTUNITÀ PER METTERE IN DIFFICOLTÀ LA DUCETTA E ESALTA TRUMP, AUSPICANDO “UN CAMBIAMENTO A WASHINGTON”

Con amici così, chi ha bisogno di nemici? Questo detto americano calza come un guanto sul doppio corto circuito politico, che minaccia di mettere la premier Meloni in rotta di collisione tanto con gli americani democratici, quanto con i repubblicani.
Sul primo fronte, l’imbarazzo lo ha creato l’alleato di governo Matteo Salvini, pubblicando un post su X con cui esalta le vittoria di Trump nelle primarie e si augura «un cambiamento a Washington».
Significa la cacciata di Biden, che ha appena accolto con grande calore Giorgia. La Casa Bianca ha replicato all’Ansa con un no comment, ma il fatto che abbia risposto vuol dire che ha notato l’uscita del capo della Lega.
Il secondo fronte si apre a causa dell’articolo di Fox News, che attacca la premier italiana fin dal titolo: «Il voltafaccia di Meloni da anti globalista a pro Europa. La cocca di Biden fa infuriare la base: non la voteremo più». Come mai la tv di Murdoch, santuario dei conservatori americani, se la prende con Meloni, rimproverandole di aver tradito il verbo anti globalista, per abbracciare il credo filo europeo del capo della Casa Bianca?
L’articolo sottolinea la linea atlantista scelta su Ucraina e Medio Oriente, e le rimprovera anche un mezzo dietrofront sulle deportazioni degli immigrati illegali, con l’appoggio al Migration Asylum Pact della Ue. Poi avverte che con queste scelte moderate rischia di alienare il suo elettorato originale, aprendo spazio a forze più radicali, forse tenendo a mente la Lega di Salvini.
Fox dimostra il complicato equilibrismo a cui è condannata la premier. L’Italia è alleata degli Usa e deve lavorare con chiunque sia alla Casa Bianca. Da qui la scelta pragmatica e saggia di coltivare il rapporto con Biden, sancito dal paternalistico bacio sulla testa durante l’incontro di venerdì. Nello stesso tempo, però, il 5 novembre Trump potrebbe vincere le elezioni, e Meloni deve tenersi pronta all’eventualità di dover lavorare con lui a partire dal prossimo 20 gennaio.
D’altra parte la contraddizione della premier tra l’antica passione politica per Trump e l’attuale sintonia con Biden doveva esplodere, prima o dopo. E lo sta esplodendo in prossimità delle presidenziali americane. Da una parte perché Salvini supporta il tycoon, con la precisa intenzione di metterla in difficoltà. Dall’altra perché è dura conciliare la linea atlantica al fianco di Biden e non entrare in rotta di collisione con Trump.
Un assaggio si è avuto sabato, durante il punto stampa a Toronto. Alla premier è stato chiesto se avesse discusso col presidente Usa i fondi per l’Ucraina, bloccati dai trumpiani: «Di questo stallo non abbiamo parlato, non mi è stato chiesto. E non ne ho parlato con i repubblicani». Per poi aggiungere di non voler ingerire in decisioni interne, ma comunque di «sperare» in una soluzione a favore di Kiev. Sono posizioni distanti dai repubblicani e pure da Salvini, che ha deciso di intensificare sui social il suo supporto alla causa trumpiana. Nei prossimi giorni arriveranno altri interventi. Tutto, pur di indebolire l’alleata.
I conservatori sembrano un po’ offesi dal balletto di Giorgia. Al congresso della Cpac, prima organizzazione trumpista dove aveva parlato in due occasioni, ha inviato una delegazione minore, per non urtare Biden alla vigilia della visita. Però lo spagnolo Abascal e l’argentino Milei sono andati e l’assenza è stata notata. Cpac ora vorrebbe organizzare una conferenza in Italia, mettendo alla prova la sua fedeltà. Fox ha avuto un rapporto complicato con Trump: nel 2016 lo ha appoggiato, all’inizio di questa campagna ha preso le distanze, ora si riallinea. Forse le critiche a Meloni vanno prese come un segnale?
(da La Repubblica)

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DALLE CARICHE DI PISA AL GENERALE VANNACCI: LA SEDICENTE DESTRA CHE RINNEGA ORDINE E GERARCHIE

Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile

E’ SALTATA UNA CULTURA POLITICA CARA ALLA DESTRA

Giorgia Meloni smentisce di aver chiamato in causa il Quirinale quattro giorni fa, quando ai microfoni del Tg2 aveva polemizzato con le istituzioni che «tolgono il sostegno» alle forze dell’ordine. Così facendo riallinea se stessa e il suo mondo all’ordine gerarchico delle cose: quello per cui, davanti ai richiami del massimo rappresentante dell’unità nazionale, si può applaudire, annuire, tacere, ma mai dare l’impressione di entrare in conflitto con lui. È un allineamento che la destra, in teoria, avrebbe dovuto scegliere d’istinto fin dall’inizio.
L’ordine gerarchico delle cose è uno dei capisaldi del suo racconto, insieme con l’idea che la cultura conservatrice sia il regno del rispetto delle “istanze superiori” mentre dall’altra parte, a sinistra, alligna una natura sovversiva e poco incline a riconoscere l’autorità.
Questo tipo di grammatica è saltata almeno due volte negli ultimi mesi, una prima con le polemiche seguite alle bastonature di Firenze e Pisa e una seconda con i mugugni o i silenzi imbarazzati sui provvedimenti disciplinari che hanno colpito il generale Roberto Vannacci. È sorprendente. È curioso.
Nella vicenda delle cariche agli studenti in corteo ogni alto livello della catena istituzionale ha riconosciuto gli eccessi e la necessità di accertamenti. Il capo della Polizia Vittorio Pisani ha parlato di «iniziative che dovranno essere verificate con severità e trasparenza».
Il prefetto di Pisa ha negato l’esistenza di disposizioni sull’uso della forza per contenere i manifestanti. Il responsabile della Questura ha riconosciuto un problema di gestione della piazza dal punto di vista organizzativo e operativo.
A seguire Rettori, presidi e insegnanti: tutte figure che una destra d’ordine, una destra delle gerarchie, una destra delle regole, di solito ascolta con grande attenzione.
Tutta gente che nella visione conservatrice «ha sempre ragione» e viene difesa a gran voce.
Stavolta no. Neanche la linea espressa da Sergio Mattarella e condivisa con un’altra autorità di massimo rilievo gerarchico – il ministro dell’Interno – è riuscita a suscitare il tipo di adesione che la destra riserva di solito alle istanze superiori. Anzi, ogni singola dichiarazione del dopo, comprese le parole di Meloni sui rischi del mettere in dubbio certi operati di polizia, è stata funzionale al contrario: negare le ricostruzioni, criticare le perplessità, delegittimare la necessità di capire espressa da tante fonti diverse e tutte di assoluta autorevolezza.
L’altro caso che intorbida la narrazione è la simpatia per un generale deferito agli organi disciplinari dal ministro della Difesa, di recente colpito da un provvedimento di sospensione per «carenza di senso di responsabilità» e oltraggio «al prestigio e alla reputazione dell’Esercito». Accuse che, da un punto di vista di destra, dovrebbero equivalere a un de profundis. Fellonia, roba da degradazione sul campo.
E invece per mesi si è confuso l’azzardo polemico di Vannacci con l’esercizio della libertà di pensiero, cercando di tenere insieme la difesa dell’ufficiale rockstar con quella del ministro Guido Crosetto (uno dei fondatori di FdI! ) che lo aveva allontanato dall’incarico. E anche in tempi più recenti, troppa accondiscendenza, troppi silenzi, mentre ci si prepara ad accogliere il ribelle – pare cosa già fatta – nel team della maggioranza nel ruolo di europarlamentare eletto con la Lega. Roba da svenimento per un mondo che della disciplina e dell’obbedienza alle regole ha fatto un valore assoluto.
Vista da questa prospettiva, la spiegazione di Meloni sulle parole pronunciate al Tg2 («non ce l’avevo col Presidente ma con la sinistra sempre capace di criticare e mai di difendere le forze dell’ordine») è un passo che guarda alla riconciliazione con il Quirinale, ma anche a una parte del suo elettorato.
Quella parte che da un po’ di tempo si chiede: ma insomma, chi siete? Con chi state, dove vi collocate?
Una destra d’ordine che piccona l’ordine delle cose è un ossimoro difficile da sostenere, persino in una politica spregiudicata e senza memoria come la nostra.
La sensazione che questa confusione abbia un prezzo, anche in termini di consenso, forse comincia a farsi strada.
(da lastampa.it)

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ORDINE E MANGANELLI: IL GOVERNO MELONI CONTRO I GIOVANI

Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile

GLI STUDENTI: “CI DESCRIVONO COME FANNULLONI PER DELIGITTIMARCI”

Passano i mesi e tra giovani e governo aumentano distanze e scontri. Da quando Giorgia Meloni è arrivata a Palazzo Chigi, l’esecutivo guidato dalla ministra per la Gioventù del quarto governo Berlusconi e, prima ancora, presidente di Giovane Italia, Azione Giovani e Azione Studentesca, si è distinto per la solerzia e la costanza nell’intervenire nel mondo di ragazze e ragazzi con un’impronta molto chiara. C’è chi la definisce «puniti e mazziati» e chi parla di «ordine e manganelli» o più semplicemente di «zitti e buoni» scomodando i Maneskin, ma il senso è lo stesso.
L’offensiva è partita con il decreto anti-rave, provvedimento annunciato dal governo Meloni pochi giorni dopo l’insediamento – come se le occupazioni dei terreni rappresentassero il problema principale dell’Italia dell’autunno del 2022 – inserendo nella prima versione del provvedimento un testo che proibiva qualsiasi tipo di manifestazione. E si è arrivati sedici mesi dopo alle manganellate a Pisa su un corteo di studenti che non aveva altre armi che la propria voce.
«In mezzo c’è molto altro – spiega Paolo Notarnicola, 22 anni, studente di Filosofia a Padova e coordinatore della Rete degli Studenti Medi -. C’è il decreto Caivano, il decreto vandali, l’inasprimento delle pene contro chi aggredisce i docenti, la circolare del ministro Valditara che minaccia punizioni per chi occupa o il ddl sulla condotta che inasprisce le sanzioni. E ci sono gli inutili incontri avuti con il ministro che ci convoca a decisioni già prese o che usa un atteggiamento paternalistico o di censura quando proviamo ad affrontare tematiche di respiro più ampio».
E poi ci sono la drastica limitazione del 18App, il misero 3% della legge di Bilancio dedicato ai giovani con l’aggiunta di proposte come il disegno di legge del vice capogruppo di FdI alla Camera Alfredo Antoniozzi che vuole portare l’età del consenso sessuale da 14 a 16 anni. Oppure si assiste a gesti maldestri come quello del dirigente di Modena che aveva sospeso uno dei rappresentanti degli studenti in consiglio di istituto perché aveva osato criticare la scuola in un’intervista. La sospensione è stata poi annullata ma la tentazione di silenziare gli studenti resta.
«Ci raccontano come fannulloni che vogliono soltanto perdere qualche giorno di scuola. Lo fanno per delegittimarci come interlocutori. Invece, se ogni altro tentativo di far sentire la nostra voce e di portare i nostri temi nelle sedi opportune fallisce, è nostro dovere usare cortei, manifestazioni e occupazioni per farci sentire – avverte Notarnicola -. Se, in queste occasioni, si arriva alle manganellate su studenti inermi siamo di fronte a un obiettivo molto chiaro: spaventare gli studenti per evitare che scendano in piazza».
«Siamo preoccupati – ammette Alessia Conti, presidente del Cnsu, il Consiglio nazionale degli studenti universitari – perché se la presidente del Consiglio discute con il presidente della Repubblica che prende le nostre difese vuol dire che siamo di fronte a un attacco serio. A tantissime richieste e proposte che, come generazione, abbiamo avanzato ha fatto seguito soltanto il silenzio. A questo punto ci resta soltanto il diritto di scendere in piazza in modo pacifico finché non vedremo un cambiamento nelle politiche del governo».
Per farsi un’idea di come stanno i giovani italiani basta andare a leggere gli indicatori di benessere contenuti nel rapporto annuale Istat, riferito al 2022. Sono ai livelli più bassi d’Europa: oltre 4 milioni di ragazzi hanno almeno un segnale di privazione, e 1,7 milioni non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi di formazione (i Neet), un disagio diffuso soprattutto tra le ragazze e in chi risiede nel Mezzogiorno. Tristi, sfiduciati e in drammatico calo. Gli italiani dai 18 ai 34 anni sono poco più di 10 milioni, il 17,5% del totale mentre venti anni fa erano il 23%. Solo nell’ultimo anno i giovani iscritti per l’espatrio sono stati 50mila, il 60,4% del totale (dati Censis).
«La descrivono come una fuga di cervelli, invece si tratta di una fuga e basta. Pur di non vivere in Italia vanno a raccogliere frutta in Australia o a lavorare come camerieri», spiega Walter Massa, presidente nazionale dell’Arci. E non siamo di fronte a una disattenzione recente. «È già da qualche decennio che questo Paese non è più per giovani indipendentemente dal governo. L’ unica politica messa in atto è il servizio civile e ogni anno dobbiamo elemosinare qualche euro in più per ampliare la platea. Questo governo, però, ha peggiorato una situazione già drammatica insistendo su politiche sanzionatorie, cancellando le poche forme di investimento culturali esistenti e ora reprimendo il diritto di manifestare con una pesantezza inaccettabile. Passa il messaggio che repressione e ordine pubblico siano l’unica politica educativa possibile, che si debba stare zitti e muti e questo è inquietante. L’Italia non è un Paese per giovani e credo che sia il delitto più grave che si possa commettere perché vuol dire non ragionare per nulla sul futuro».
Ma i giovani non hanno alcuna intenzione di starsene zitti e buoni. «Stiamo preparando le prossime manifestazioni – annuncia Paolo Notarnicola – e una stagione di rivendicazione dei nostri diritti. Vogliamo partecipare ai processi decisionali come prevede la democrazia».
(da lastampa.it)

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PARTE LA CACCIA AI BAGNINI, NE MANCANO 4.000, PER I GESTORI “AI RAGAZZI NON INTERESSA PIU'”

Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile

PAGATELI E VEDRETE CHE LI TROVATE, INVECE DI SFRUTTARE IL PROSSIMO

AAA bagnini cercasi. E pure disperatamente. La stagione estiva è (quasi) alle porte, ma i gestori degli stabilimenti balneari non riescono a trovare professionisti che vigilino sulla sicurezza dei bagnanti.
Sono circa 4mila le posizioni vacanti ogni anno, stima Roberto Dal Cin, presidente di Confapi Turismo citato da Repubblica.
Se un tempo ne bastava uno ogni 600 metri, oggi le nuove regole ne impongono uno ogni 180. E i ragazzi, stando a Dal Cin, non vogliono fare più questo mestiere. Lo stipendio è sempre lo stesso: 1.400-1.500 euro al mese, 8 ore al giorno. Salvo situazioni di sfruttamento, come molto spesso accade.
Ma a pesare, con ogni probabilità, sono gli alti costi di vitto e alloggio nelle località balneari. E se un tempo tali benefit venivano garantiti dallo stesso stabilimento, oggi invece non è più così.
«La situazione è critica», dice Massimiliano Schiavon, presidente di Federalberghi Veneto. «Negli ultimi 6 mesi c’è stato un lieve miglioramento ma siamo sempre sotto il fabbisogno, soprattutto in vista della prossima stagione balneare».
(da agenzie)

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SARDEGNA, SCRUTINIO FINITO ANCHE NELLE 19 SEZIONI MANCANTI, LA TODDE RIMANE CON 1.600 VOTI DI VANTAGGIO, DISTACCO NON SUFFICIENTE PER UN RIBALTONE

Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile

FINE DELLE SPECULAZIONI DEI BALLISTI DI PROFESSIONE, RILASSATEVI CHE DOMENICA RICOMINCIATE A “BALLARE” IN ABRUZZO

Alessandra Todde si era già detta serena. A oltre una settimana dalla chiusura dei seggi in Sardegna, negli uffici dei tribunali competenti si è finalmente chiuso lo scrutinio delle 19 sezioni che non avevano completato in tempo lo spoglio delle schede delle regionali di domenica 25 febbraio.
Secondo i primi dati ufficiosi, il divario tra la candidata di centrosinistra e lo sfidante Paolo Truzzu sarebbe di circa 1.600 voti, non così piccolo da spingere il centrodestra a tentare un ricorso.
Già ieri la neo eletta governatrice aveva parlato di “una forchetta tra i 1.400 e i 1.600 voti in più”, dicendo di sentirsi tranquilla davanti a uno scarto “ben lontano dai 200 voti di cui sento vagheggiare”.
Il distacco di 1600 voti sarebbe troppo ampio per pensare a un ribaltone: per un eventuale ricorso sarebbero state necessarie almeno 14 mila schede nulle e meno di 900 voti di distanza fra i due candidati.
Nel centrodestra per ora nessuno si sbilancia: la coalizione aspetta l’ufficialità per valutare eventuali azioni. Sull’ipotesi di contestare i risultati si era espressa anche Giorgia Meloni. Durante il suo viaggio in Canada la premier aveva detto: “Aspettiamo il riconteggio, poi vediamo cosa fare, mi pare che si stia assottigliando lo scarto, le cose sono andate meno peggio di come sembrava”.
Comunque ci vorranno almeno altre due settimane prima che l’ufficio elettorale centrale della Corte d’appello di Cagliari riesca a proclamare presidente e consiglieri regionali eletti. I tempi sono in linea con quelli di cinque anni fa, quando l’ufficializzazione dei risultati elettorali arrivo’ il 20 marzo, mentre le elezioni si erano tenute il 24 febbraio.
(da agenzie)

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LE RIVELAZIONI DEL GENERALE ROBERTO JUCCI: “DOVEVO INTERVENIRE PER SALVARA ALDO MORO: COSI’ MI TOLSERO DI MEZZO”

Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile

“IL MIO RAMMARICO SUL CASO E’ QUELLO DI NON AVER CAPITO CHE VENIVO STRUMENTALIZZATO”

Il generale Roberto Jucci, 98 anni, è stato al vertice del servizio di sicurezza dell’esercito e comandante dei carabinieri. È stato l’uomo di fiducia di molti politici della Prima Repubblica come Francesco Cossiga, Bettino Craxi, Giovanni Spadolini.
E non è stato mai sentito dalle commissioni parlamentari sul caso del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro.
Oggi in un’intervista a Repubblica spiega che all’epoca era solo un generale: «Nel 1978 ero capo del Secondo reparto dello Stato Maggiore dell’Esercito che si occupava di sicurezza, più spesso noto con la sigla Sios». E ricorda con Gianluca Di Feo: «Il mio più grande rammarico sul caso Moro è quello di non avere capito che venivo strumentalizzato. Nel senso che mi avevano messo nell’angolo e mandato via da Roma per non vedere e non operare».
Non vedere e non operare
Jucci dice che Cossiga gli chiede di creare «un reparto dell’Esercito che potesse intervenire per liberare Moro quando fosse stata individuata la sua prigione. Dovevano operare con una precisione millimetrica per non rischiare la vita dell’ostaggio. Mi diede una settimana di tempo. Io ho preso gli incursori del leggendario Col Moschin, ho acquistato armi sofisticate in Gran Bretagna e in Germania e li ho fatti addestrare senza sosta in una base segreta all’interno della tenuta presidenziale di San Rossore. Cossiga mi domandava continuamente se erano pronti. Gli ho detto: “Ministro venga a vedere di persona”.
Durante il viaggio per l’ispezione, senza preavviso, gli incursori fecero un agguato al suo corteo e immobilizzarono la scorta: a Cossiga stava venendo un infarto».
Ma secondo lui nell’incarico c’è sempre stato qualcosa di strano: «Non so se lo fecero per togliermi fuori dal campo a Roma. Perché io così passai praticamente tutti i giorni del rapimento in Toscana nella tenuta di San Rossore per predisporre questa squadra che non è mai entrata in azione».
La Loggia P2
E aggiunge: «Mi tolsero di mezzo. E non so se questo fu fatto apposta. Perché allora gran parte dei vertici delle Istituzioni militari erano della P2. E su quella loggia io oggi ho molti pensieri: perché la P2 era espressione di un gruppo di potere di un Paese straniero, amico sicuramente ma che aveva altri interessi».
Jucci parla degli Stati Uniti. O meglio di «centri di potere americani che operavano anche attraverso elementi della P2». Secondo Jucci la lista di Gelli non era l’elenco completo: «Nell’elenco c’erano persone amicissime di altre che non comparivano nella lista. La cosa non mi è mai tornata. Bastava esaminare le carriere che hanno sponsorizzato per farsi un’idea… La P2 era uno Stato nello Stato!».
Federico Umberto D’Amato
Poi il generale ricorda Federico Umberto D’Amato: «Era un’anguilla, da quando era vicecommissario della polizia imperava nell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Quando nel 1986 sono arrivato al vertice dei carabinieri, sono andato ad Arezzo e ho chiesto di Gelli al comandante provinciale dell’Arma. Lui mi disse: “Qui molti dei responsabili delle istituzioni sono stati voluti da Gelli. Il mio impegno più gravoso è stato far ricevere generali la domenica da Gelli”. Rimasi senza parole».
Per Moro, ricorda, aveva un affetto filiale: «Ricordo ancora quando l’ho accompagnato nell’incontro con Gheddafi per discutere delle condizioni degli italiani in Libia e di altri problemi: il principale era l’importazione a prezzo speciale del greggio libico quando era prezioso, poiché il Canale di Suez era bloccato. Ho avuto con Moro vari colloqui, spesso mi chiedeva opinioni».
I pedinamenti
Dice che nel sequestro Moro avrebbe fatto pedinare «coloro che andavano a portare le lettere di Moro al suo segretario Freato e ad altri soggetti. Avrei cercato di trovare supporto nei Paesi arabi che forse avrebbero potuto trovare un canale utile per la sua liberazione. Avrei tentato l’intentabile per salvarlo. Probabilmente non ci sarei riuscito, ma avrei tentato di tutto».
Ma «non ci fu un coordinamento. E purtroppo ci si affidò a quel gruppo che consigliava Cossiga per portare avanti le operazioni. Cossiga era consigliato da un uomo mandato dagli Usa e dalla commissione composta in gran parte da piduisti. Tutte persone che a mio avviso volevano che le cose andassero in una maniera diversa da quella che tutte le persone oneste chiedevano. Moro doveva essere distrutto politicamente e fisicamente: se Moro fosse sopravvissuto la politica dell’Italia avrebbe avuto uno sviluppo diverso da quello che è stato. Credo che si sarebbe potuto liberare Moro, se tutte le istituzioni avessero operato in questa direzione. Ma l’apertura di un governo, sostenuto da Moro, formato da comunisti e democristiani era osteggiata sia dagli Usa e sia per altri motivi dall’ex Unione Sovietica».
(da La Repubblica)

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REGIONALI, TUTTI IN ABRUZZO: DA MELONI A SCHLEIN, LA CALATA DEI LEADER NEI GIORNI DECISIVI

Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile

LA MELONI SI PRECIPITA A PESCARA…CONTE: “C’E’ ARIA DI RIMONTA”… SCHLEIN SCATENATA: “MELONI PRIMA TAGLIA I FONDI ALLA ROMA-PESCARA DAL PNRR, POI LI RIMETTE A 10 GIORNI DAL VOTO: COME ACHILLE LAURO CHE DAVA LA SCARPA SINISTRA PRIMA DEL VOTO E PROMETTEVA QUELLA DESTRA DOPO L’ESITO DELLE URNE”

E ora di corsa in Abruzzo: in vista del voto di domenica prossima, 10 marzo, da destra a sinistra i leader si precipitano all’ombra del Gran Sasso per tirare la volata finale ai propri candidati. Perché la partita abruzzese è quanto mai aperta, e il risultato potrebbe avere conseguenze politiche ben più profonde di quello in Sardegna.
Lo sa bene la premier – di nuovo in Italia oggi dopo la missione negli States e in Canada – che domani sarà a Pescara per il comizio a sostegno di Marco Marsilio, e con lei sul palco saliranno anche Matteo Salvini e Antonio Tajani.
Per Meloni è essenziale difendere il governatore uscente, un suo fedelissimo e amico di vecchia data, che a sorpresa rischia la sconfitta contro lo sfidante del campo largo di centrosinistra, Luciano D’Amico. La parola d’ordine è evitare una nuova batosta, dopo quella sarda, e dimostrare che la debacle sull’isola è stata solo un caso isolato. Uno degli ultimi sondaggi pubblicati prima dello stop obbligatorio, quello di Winpoll, registra un sostanziale testa a testa tra il candidato di centrosinistra, al 49,4% e il presidente uscente di Fratelli d’Italia, dato al 50,6%.
Il leader leghista era già ieri in regione, nel Teramano, ad annunciare – guarda caso – il completamento di una nuova infrastruttura: “Lo svincolo autostradale dell’A24 a Montorio al Vomano si farà e sarà inaugurato entro la fine dell’inverno prossimo”, ha detto Salvini, dicendosi anche convinto “che domenica prossima il centrodestra vincerà largamente e la Lega sarà in doppia cifra”.
Proprio sulle infrastrutture, e in particolare sul raddoppio della ferrovia Roma- Pescara, Elly Schlein ha attaccato l’esecutivo: “Ricordate Achille Lauro quando regalava ai suoi elettori una scarpa sinistra e prometteva di dare la scarpa destra solo dopo il voto? – ha scritto ieri la segretaria del Pd sui suoi canali social – Il Governo Meloni prima taglia le risorse per la Roma-Pescara dal Pnrr, poi a pochi giorni dal voto magicamente dicono di averle ritrovate da fondi Fsc, sottraendoli però ad altri progetti per l’Abruzzo”.
Il 6 e il 7 marzo la leader dem sarà di nuovo in Abruzzo – dove ormai è una habitué – per la campagna a sostegno di Luciano D’Amico. Con lei ci sarà Pierluigi Bersani, la stessa accoppiata fortunata dell’ultimo tour elettorale in Sardegna.
Da giorni è molto attivo sul territorio anche Giuseppe Conte, che già la settimana scorsa è stato in tour varie zone dell’Abruzzo, dall’Aquila a Chieti, da Teramo alla Marsica. Il presidente dei Cinque Stelle, oggi di nuovo in giro in Regione, intervistato da Abruzzoweb ha parlato di “una rimonta in corso che si percepisce, forte” e di “un Abruzzo che soffre e che viene da cinque anni di malgoverno da parte della giunta Marsilio. Sanità allo sbando, carenze infrastrutturali, scelte disastrose contro ambiente e paesaggio”.
Anche Carlo Calenda oggi è all’Aquila “per parlare di sanità e di scuola”. Il leader di Azione, in un’intervista a Sky Tg24, si è rivolto agli elettori, tornando sulla polemica della Roma-Pescara: “Provate a non votare chi vi leva una ferrovia e ve la rimette a seconda del ciclo elettorale come ha fatto Meloni. Perché quella roba lì non è seria. Se voi andate a comparare il curriculum vitae di D’Amico, quello che ha fatto, con quello di Marsilio non c’è storia. E D’Amico non è un pericoloso maoista, è un liberale progressista”.
L’8 marzo volerà in Regione per la chiusura della campagna elettorale del centrosinistra anche Alessandra Todde, la neoeletta governatrice della Sardegna, dove a oltre una settimana dal voto lo scrutinio non è ancora terminato. Intervistata a Mezz’Ora in Più su Rai3, la neopresidente si è detta “felice di poterlo fare”, invitando a “usare ogni leva possibile per mandare a casa, almeno regionalmente, questa destra”.
(da agenzie)

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