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REGNO UNITO, LA CAMERA DEI LORD BOCCIA IL DISEGNO DI LEGGE PER DEPORTARE I MIGRANTI IN RUANDA

Marzo 5th, 2024 Riccardo Fucile

ALTRA CLAMOROSA SCONFITTA DELL’AMICO DELLA MELONI, IL CONSERVATORE RAZZISTA SUNAK

Da tempo l’obiettivo del primo ministro del Regno Unito, Rishi Sunak, è dissuadere gli immigrati extra comunitari dall’attraversare la Manica con piccole imbarcazioni, e inviare le migliaia di rifugiati arrivati in Ruanda, un piccolo Paese senza sbocco sul mare, nell’Africa centro-orientale, a 6.500 km dalla Gran Bretagna. Finora, però, nessun richiedente asilo è stato imbarcato su un volo per l’Africa. Prima ha bocciato il piano la Corte Suprema, poi ci ha pensato l’opposizione.
Il governo Sunak ha difatti subìto cinque sconfitte alla Camera dei Lord in merito alla sua proposta di legge per il rilancio del programma di deportazione in Ruanda presentata alla fine del 2023.
La Corte Suprema aveva già stabilito all’unanimità nel novembre scorso che il programma di rimpatrio era illegale, dichiarando che i veri rifugiati rischiano di essere trasferiti nei loro paesi di origine, dove potrebbero subire torture e trattamenti inumani. I giudici hanno difatti evidenziato che nel 2021 il governo britannico aveva criticato il Ruanda per “esecuzioni extragiudiziali, morti in custodia, sparizioni forzate e torture”. Non solo, essi hanno inoltre messo in rilievo un incidente del 2018, quando la polizia ruandese ha aperto il fuoco contro i rifugiati intenti a protestare.
Eppure il governo ha risposto che il nuovo trattato con il Ruanda, firmato a dicembre, risponde alle obiezioni della Corte Suprema. Il ministro dell’Interno Lord Sharpe di Epsom ha dichiarato che il trattato, che ha sostituito un accordo precedente, avrebbe evitato il rischio che le persone inviate in Ruanda venissero rimandate nei loro Paesi d’origine, dove avrebbero potuto subire persecuzioni. Per spiegare i motivi per cui ha respinto gli emendamenti, ha affermato che i motivi legali per contestare le deportazioni dovrebbero rimanere “limitati”, al fine di “prevenire la giostra dei ricorsi legali”.
Cosa succede ora che i deputati dell’opposizione hanno bloccato le modifiche al disegno di legge secondo cui il Ruanda è un paese sicuro e che Sunak considera fondamentale per fermare le imbarcazioni?
Le rettifiche ora torneranno alla camera dei Comuni, dove il governo ha la maggioranza e potrebbe annullarle. Nel caso fossero respinte, il disegno di legge sarà sottoposto a un processo noto come “ping pong” previsto per fine marzo, in cui passerà fra i deputati e i pari finché non si troverà un accordo sulla formulazione finale. Fra i più critici del nuovo disegno legge, Lord Anderson di Ipswich, che ha presentato un emendamento sostenuto anche da alcuni conservatori, fra cui l’ex segretario agli interni Lord Calrke di Nottingham.
Anderson ha così dichiarato alla BBC: “Se il Ruanda è sicuro, come il governo vorrebbe far credere, non ha nulla da temere da questo controllo”.
I deputati hanno anche approvato le correzioni che prevedono che il paese africano possa essere considerato sicuro solo quando funzionari indipendenti che supervisionano il trattato di deportazione del Regno Unito con il Paese dichiarano che è stato “pienamente attuato”. Hanno poi appoggiato un emendamento laburista, secondo il quale il disegno di legge deve mantenere la “piena conformità con il diritto nazionale e internazionale”.
(da agenzie)

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IL TOUR ELETTORALE DI SALVINI A SPESE NOSTRE: IL MINISTERO PAGA MEZZO MILIONE

Marzo 5th, 2024 Riccardo Fucile

DODICI EVENTI DEL MINISTRO IN GIRO PER LE REGIONI PER FARE CAMPAGNA ELETTORALE ALLA LEGA

Le campagne elettorali costano e le casse dei partiti piangono. Ma Matteo Salvini ha trovato la soluzione: snocciolare i propri successi e promuovere le iniziative del ministero dei Trasporti in eventi istituzionali – e quindi pagati con soldi pubblici – sparsi per l’Italia e programmati da qui a fine maggio, secondo uno schema già rodato per le Regionali.
Un giochino costato una media di oltre 50 mila euro a evento e che quindi, in totale, peserà sulle casse dello Stato più di mezzo milione, preservando invece i conti della Lega.
Coincidenza Le tappe prima delle elezioni
Il tour “L’Italia dei sì” ha già toccato 7 città, ma la novità è che il ministero ha già previsto altri 5 appuntamenti da qui al 31 maggio, ovvero prima delle elezioni. E la scelta dei luoghi non è mai casuale: delle 7 città visitate finora dagli eventi di Salvini, ben 5 erano in campagna elettorale al momento della kermesse.
È avvenuto a Cagliari, dove le Regionali ci sono appena state, ma pure a Potenza e Pescara (dove si voterà presto per scegliere il governatore), mentre a Trento e Bolzano la visita salviniana ha preceduto di poco le rispettive elezioni provinciali. Senza dimenticare Bari, che comunque andrà al voto in primavera e ha ospitato l’Italia dei sì a novembre, con Milano che resta dunque l’unica tappa senza imminenti interessi elettorali.
A organizzare ogni evento ci pensa Ram spa, una società interamente controllata dal ministero di Salvini e gestita da un suo fedelissimo, Dario Bordoni. È Ram a pensare all’affidamento diretto dei vari servizi richiesti, dal catering all’allestimento tecnico. Il Fatto aveva già raccontato che le prime quattro tappe – Trento, Bolzano, Milano e Bari – erano costate più di 200 mila euro.
Cagliari Gadget, buffet e servizi a 53 mila euro
A quelle cifre si aggiungono ora i numeri della kermesse sarda, quella che – al solito – è stata presentata come un evento istituzionale per parlare dei progetti del ministero e di quanto fatto finora, ma di fatto è servita a lanciare la fallimentare campagna elettorale a sostegno di Paolo Truzzu, poi sconfitto. Per l’evento del 26 gennaio, Ram ha approvato diversi ordini di acquisto per un totale di quasi 53 mila euro più Iva. Si tratta di affidamenti diretti, il più corposo di quali è quello da 23.300 euro (sempre al netto dell’imposta sul valore aggiunto) verso BePop Srl, una società con sede a Napoli la cui amministratrice unica è Eugenia Russo. Esperta di comunicazione politica, in passato ha lavorato per esponenti leghisti (come il campano Severino Nappi) e in generale del centrodestra (Catello Maresca), ricevendo riscontri positivi al punto che il suo nome era tra i candidati a sostituire Luca Morisi nella “Bestia” nelle settimane in cui lo storico spin doctor di Salvini si era allontanato dalla macchina social leghista.
A BePop sono state chieste “le attività di Project Management, progettazione e realizzazione materiale digitale, video e stampa”. Non è una novità: la stessa società si era aggiudicata due diversi affidamenti – uno da 58 mila euro più Iva, l’altro da 68 mila più Iva – per i primi quattro eventi del tour. Ai 23 mila e dispari finiti a BePop per l’appuntamento di Cagliari si aggiungono i 18.500 più Iva approvati, sempre da Ram, in favore di Iiriti Srl. Il motivo? “Allestimento tecnico per l’evento”, comprensivo di “audio, luci, video, strutture e tecnici”. L’importo pagato coincide col preventivo presentato dall’azienda.
Ma non è finita. Per esaltare la visita di Salvini a Cagliari, Ram ha pensato anche di provvedere a una “fornitura di gadget”, accogliendo la proposta economica della società Cs Promo, specializzata nella personalizzazione di braccialetti, penne, agendine eccetera. Souvenir vari costati 3.371 euro (più Iva) alla controllata del ministero.
E ancora: per l’evento di Cagliari Ram ha sborsato altri 4.790 euro più Iva per la “fornitura e posa di totem e pannelli”, ancora tramite affidamento diretto questa volta a beneficio di Pubblicitas srl. Infine, ulteriori 3.044 euro più Iva per affittare la location, ovvero l’Hotel Regina Margherita, e assicurarsi i relativi “servizi ristorativi”. Il totale perciò sfonda i 53 mila euro, a cui sommare l’imposta sul valore aggiunto.
Agenda Propaganda pure prima del voto ue
Questo il quadro su Cagliari. Nell’attesa del conto definitivo su Potenza e Pescara, già visitate da Salvini, si possono già fare ipotesi sul futuro del tour. Ram infatti ha già chiuso accordi a lungo termine con due delle società con cui ha lavorato a Cagliari. Evidentemente soddisfatta del servizio, la società gestita da Bordoni ha premiato la Iiriti srl con un affidamento diretto per “l’allestimento tecnico di sette eventi dal 9 febbraio al 31 maggio 2024”.
Se a Cagliari la singola prestazione era costata 18 mila euro, l’abbuffata fa scendere il prezzo a 11.478 euro a evento, per un totale di 80.349 euro più Iva. Al di là dell’affidamento, la delibera di Ram indica dunque che Salvini ha intenzione di proseguire con le tappe e andare avanti fino alle Europee. Dei sette eventi citati nell’atto, due sono già avvenuti (Potenza e Pescara) e altri cinque ci saranno nei prossimi tre mesi. E per i fortunati spettatori ci saranno sorprese, visto che la controllata del ministero ha deciso di comprare decine di gadget anche per i prossimi appuntamenti. Con la stessa ratio della delibera in favore di Iiriti, Ram ha infatti approvato un pagamento da 24 mila euro più Iva verso la già citata Cs Promo, la stessa che ha pensato ai souvenir per Cagliari. Anche qui, “sette eventi dal 9 febbraio al 31 maggio”.
Ipotizzando che ciascun evento mantenga una media di circa 50 mila euro l’uno e senza considerare l’Iva, a fine tour “L’Italia dei sì” sarà costato oltre 600 mila euro di soldi pubblici. Salvini e la sua campagna elettorale ringraziano. Le casse della Lega pure.
(da ilfattoquotidiano.it)

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MARSILIO, GOVERNATORE PENDOLARE SU E GIU’ CON L’AUTISTA DA ROMA

Marzo 5th, 2024 Riccardo Fucile

IMPOSTO DALLA MELONI A PRESIDENTE DELL’ABRUZZO PUR VIVENDO A ROMA… QUANTO CI COSTANO I SUOI VIAGGI?

«E vola vola vola vola e vola lu pavone, si tiè lu core bbone mo fammece arpruvà». Accusato di essere un romano paracadutato in Abruzzo perché amico di Giorgia Meloni, l’unico governatore pendolare nella storia d’Italia, presidente all’Aquila ma residente nella Capitale, Marco Marsilio le sta provando tutte per farsi perdonare la sua estraneità. E così l’altro giorno si è messo a cantare Vola vola lu cardillo.
A sinistra non gli scontano l’accento romanesco, la guasconeria meloniana, lo stile «e fattela na risata», le foto con le caprette, da ciclista, i selfie da piacione sul lungomare di Pescara, le abbuffate di arrosticini, l’aver detto che l’Abruzzo si affaccia su tre mari «compreso lo Ionio», le sgrammaticature regionali, «questa è una decisione tutta marsicanese», e le pose vagamente ducesche.
Infatti si è fatto riprendere in costume mentre si tuffa nella piscina Le Naiadi, a Pescara, tre giorni dopo l’hanno chiusa per irregolarità, e quindi ora circolano video e meme con la voce di Fantozzi.
Lo chiamano il governatore in vacanza. «Ogni volta che può, da cinque anni, un autista pagato con soldi pubblici lo va a prendere a Roma, e poi lo riporta a casa. Quanti chilometri ha macinato a nostre spese?», si chiede il consigliere regionale pd Pierpaolo Pietrucci.
«Lo rivendica come una cosa normale, non gli crea alcun problema, è come se dicesse, faccio come mi pare, non me ne frega niente di voi, è come il marchese del Grillo», rincara un altro consigliere, Sandro Mariani.
Con Repubblica Marsilio si è giustificato di avere preso la casa dei «suoi sogni» a Chieti, ma quando si trova a Pescara o all’Aquila, per le riunioni di giunta o di consiglio, dorme in albergo, e poi, a notte fonda, se ne torna nella Capitale, «per dare il bacio della buonanotte a mia moglie e a mia figlia».
«Non vive il territorio, non sa nulla di noi, e infatti i risultati si sono visti», scandisce il senatore democratico Michel Fina. «Marsilio è il nostro miglior alleato, è agli ultimi posti nella classifica di gradimento dei governatori, è un altro Truzzu».
Il candidato della destra, tifosissimo juventino, al Corriere ha paragonato il centrosinistra al Frosinone. Morale: si sono incazzati pure in Ciociaria. Il centrosinistra, che sente odore di rimonta, sta costruendo la sua campagna sul campanile. Funzionerà?
Cinque anni fa Marsilio, 55 anni, figlio di Colle Oppio, era un illustre sconosciuto per gli abruzzesi, scelto solo per non fare ombra al sindaco dell’Aquila, Pierluigi Biondi, eppure vinse contro una riserva della Repubblica come Giovanni Legnini.
Fu la Lega — nel 2019 Matteo Salvini sembrava il salvatore dell’Italia — a trainarlo. In cinque anni Marsilio l’ha svuotata. E oggi resta il favorito, l’uomo da battere, anche se il suo slogan suona “Il governo che fa bene all’Abruzzo”. E così sempre a Giorgia Meloni si torna. Oggi pomeriggio, a Pescara, la premier comizierà in piazza per lui, insieme agli altri due tenori, Salvini e Tajani. «Loro sono molto nervosi, noi molto entusiasti», giura Fina.
Un mese fa l’Abruzzo era dato per perso nel centrosinistra, nonostante per una volta i progressisti si siano uniti tutti dietro Luciano D’Amico, di Torricella Peligna, il paese di John Fante, «Luciano, lui sì un vero figlio dell’Abruzzo», assicura Fina. «Vola vola vola…»
(da La Repubblica)

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IL FORTINO IN ABRUZZO TRABALLA: MELONI SI MOBILITA PER MARSILIO

Marzo 5th, 2024 Riccardo Fucile

AGLI UTIMI POSTI NELLA CLASSIFICA DI GRADIMENTO DEI GOVERNATORI: SOLO IL 35% DEGLI ABRUZZESI HA ESPRESSO UN GIUDIZIO POSITIVO

Negli anni giovanili, quando era un giovane militante del Fronte della gioventù a Roma, Marco Marsilio era soprannominato «il Lungo». Altissimo e di qualche anno più vecchio di lei, lo ricorda Giorgia Meloni che proprio in lui si imbatte quando – quindicenne – entra per la prima volta nella sezione dell’Msi. Oggi uno è il governatore uscente e ricandidato in Abruzzo, l’altra è la presidente del Consiglio.
E quest’ultima ha assoluto bisogno di un colpo di reni del suo uomo di fiducia, perché una sconfitta in Abruzzo a stretto giro dopo quella in Sardegna sarebbe un danno enorme prima di tutto per lei, poi anche per il governo. Per questo oggi la premier sarà sul palco di Pescara insieme a Matteo Salvini e Antonio Tajani per tirare l’ultima volata e anche vari ministri del governo sono stati precettati.
Anche perché, dicono fonti interne, Marsilio è detto «il Lungo» anche per la verbosità dei suoi interventi pubblici, in cui è considerato tutt’altro che efficace e «da arginare il più possibile», è il racconto.
Marsilio e l’Abruzzo sono due simboli nella narrazione meloniana. Lui è l’amico fraterno, romanissimo ma con i genitori abruzzesi: è bastato questo nel 2019 a Meloni per spedirlo all’Aquila
Il successo arriva, grazie al 27 per cento della Lega. FdI è il terzo partito della coalizione con il 6, ma la vittoria contro Giovanni Legnini del Pd è schiacciante: 48 per cento contro il 31. Proprio dall’Abruzzo, nella narrazione di FdI, parte la vera ascesa del partito di Meloni, che prosegue poi con la conquista delle Marche nel 2020 con un altro ex giovane di Atreju, Francesco Acquaroli. Tanto che la leader stessa non scorda il legame con il territorio e sceglie il collegio uninominale l’Aquila-Teramo per candidarsi nel 2022.
Da quel 2019, però, il clima della gioiosa macchina meloniana in terra marsicana si è progressivamente incrinato, con sondaggi che fotografano un testa a testa tra Marsilio e Luciano D’Amico. Il candidato ha messo insieme sia il Pd che il M5S, l’8 marzo avrà la vincitrice in Sardegna Alessandra Todde a chiudere con lui la campagna elettorale e da ex rettore dell’università di Teramo vanta radicamento sul territorio, che è storicamente di destra solo all’Aquila e nella marsica.
L’Abruzzo è stato il fortino di FdI negli ultimi cinque anni, terra di eletti spesso paracadutati da Roma. Di lusso, come la premier Meloni, ma anche meno positivamente accolti dalla base locale come la candidatura della marchigiana Rachele Silvestri, ex Movimento 5 Stelle poi transitata in FdI nel 2021, che alle politiche 2022 ha ottenuto all’Aquila un collegio sicuro alla Camera.
Un nome, il suo, che ha creato qualche imbarazzo per voci – da Silvestri smentite con forza anche con una lettera al Corriere della Sera – secondo cui suo figlio «sarebbe nato da una relazione clandestina grazie alla quale io avrei anche ottenuto la mia candidatura», scrive lei di suo pugno. Tanto da averla spinta al test del Dna per avere prova del contrario.
In ogni caso, il clima in Abruzzo si è incrinato sia sul piano amministrativo che su quello politico. Il governatore Marsilio, infatti, è finito nella parte bassa della classifica di gradimento dei governatori del 2023, con un apprezzamento del 35 per cento.
Molte delle tensioni si sono scaricate sul congresso locale di FdI all’Aquila. Avrebbe dovuto svolgersi in ottobre e da via della Scrofa era arrivato il diktat di procedere con un candidato unico da eleggere per acclamazione, ma lo scontro interno è esploso in modo violento. A contrapporsi, il sindaco della città Pierluigi Biondi e il senatore e vice coordinatore regionale Guido Liris. Tema dello scontro: i nomi dei candidati nel collegio aquilano alle regionali, sulla cui lista c’erano troppe ambizioni per pochi posti.
Il risultato è stato l’invio da Roma di un pacere, che ha ordinato di sedare ogni rivolta sia per le liste che – soprattutto – per il congresso. Così è stato, con l’elezione per acclamazione a segretario del sindaco di Barete Claudio Gregori il 3 dicembre. Sotto la cenere, però, continuano a covare braci accese
(da agenzie)

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A SCUOLA CON L’OMBRELLO

Marzo 5th, 2024 Riccardo Fucile

L’AUTOREVOLEZZA DI UN DOCENTE DOVREBBE SEMPRE FARE RIMA CON COMPOSTEZZA

Grande è la confusione sotto il cielo della scuola, efficacemente rappresentata da quanto accade al Parini, sommo liceo milanese. Ci sono studenti che occupano l’istituto inneggiando all’Amore, un preside barricato nel suo ufficio che si affaccia dal balcone per dare dei «fascisti» agli occupanti. E poi c’è un ombrello. Quello agitato da un supplente davanti al portone per tentare di aprirsi un varco.
Nella civiltà dell’immagine, l’ombrello ha un vantaggio inestimabile: essendo un oggetto, rimane più impresso di qualsiasi concetto.
Nelle mani di un insegnante è subito diventato il simbolo di qualcosa a cui non saprei dare altro nome se non «perdita di autocontrollo».
Ogni paragone con i manganelli di poliziesca memoria è francamente esagerato, tanto più che lo stesso ragazzo destinatario dell’ombrellata ha minimizzato le conseguenze dell’impatto. Rimane il portato ideale del gesto: un professore che esce dai gangheri esce anche dal suo ruolo.
Sono andato a capo per dare al lettore il tempo di pensare «sarà stressato, gli studenti lo deridono e lo Stato lo paga una miseria, vorrei vedere te al suo posto».
Però proprio chi si batte perché il mestiere dell’insegnante recuperi il prestigio quasi sacrale di una volta dovrà riconoscere che l’autorevolezza fa sempre rima con compostezza. Quasi tutti i politici l’hanno smarrita, ma quelli ormai li diamo per persi. Nei prof, invece, ci crediamo ancora. E anche negli ombrelli, quando fanno il loro mestiere e si aprono per proteggerci.
(da corriere.it)

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CHE FINE HA FATTO IL SOVRANISTA GEERT WILDERS? L’OLANDA E’ SENZA GOVERNO DA 8 MESI

Marzo 5th, 2024 Riccardo Fucile

NON E’ RIUSCITO IN OTTO MESI A METTERE D’ACCORDO QUATTRO PARTITI E SARA’ DIFFICILE CHE CI RIESCA

Mercoledì scorso Mark Rutte ha accolto in Olanda il presidente cipriota Nikos Christodoulides. Due giorni dopo, era a Kharkiv per una missione di alto valore politico: visitare una delle città più duramente colpite da due anni di bombardamenti russi e firmare un patto decennale di sicurezza con l’Ucraina. Oggi, un ben più rilassante incontro all’Aja con il primo ministro del Lussemburgo Luc Frieden. Tutto in regola, se non fosse per un piccolo particolare: Rutte si è dimesso da capo del governo olandese ormai da 8 mesi. Era il 7 luglio del 2023 quando il premier più longevo d’Europa – alla guida dei Paesi Bassi dal 2010 – gettò la spugna consegnando a re Guglielmo Alessandro la sua frustrazione per le divisioni all’interno della maggioranza sul tema dell’accoglienza dei richiedenti asilo. «L’Olanda gli sta stretta, punta a un incarico internazionale di spicco», malignò più di un retroscenista. Possibile. Perfino probabile, considerato che oggi viene data per quasi fatta la sua nomina a prossimo segretario generale della Nato. Peccato che da 8 mesi Rutte resti “imprigionato” nella gestione degli affari correnti (e non solo) del suo Paese. Perché, nonostante un passaggio elettorale che nel frattempo – oltre 100 giorni fa – ha dato indicazioni piuttosto chiare sul sentiment politico degli olandesi, un governo sostenuto da una nuova e chiara maggioranza ancora non c’è. E non è neppure alle viste.
Il diavolo veste Wilders
«Vince Wilders, l’estrema destra travolge l’Europa», titolava Repubblica lo scorso 23 novembre. Di «vittoria shock dell’estrema destra» parlava pure France 24, di «trionfo del populista anti-Islam Geert Wilders» l’Associated Press. Per giorni il profilo dinoccolato del leader dei sovranisti olandesi ha tenuto banco sulle prime pagine di tutta Europa, dando corpo ai timori che quello celebrato nelle urne del Paese nordico il 22 novembre potess’essere un antipasto di quel che avverrà in tutta l’Ue alle Europee di giugno: un balzo oltre i pronostici di tutti i partiti di destra dura, anti-Islam, gelidi sui diritti civili e più o meno segretamente pronti ad abbandonare l’Ucraina al suo destino. Eppure proprio quello shock per lo “sdoganamento” di forze anti-sistema è quel che fin qui ha reso impossibile a Wilders di conquistare lo scettro della guida dell’Olanda. Il suo Partito della libertà (Pvv) ha preso oltre il 23% dei voti, pari a 37 seggi del nuovo Parlamento. Tanti, ma molto meno di quanti ne servono per governare il Paese, ovviamente (almeno 76 sui 150 della Camera bassa). Conti alla mano, era parso subito evidente che l’opzione più percorribile per la formazione di un nuovo governo a trazione di destra fosse quella di una coalizione a quattro. Insieme al Pvv di Wilders, i liberali dell’uscente Rutte (Vvd, calato a 24 seggi sotto la guida di Dilan Yeşilgöz ma ineludibile) e le due novità/sorprese dell’elezione: il partito del Nuovo contratto sociale (Nsc) dell’ex leader cristiano-democratico Pieter Omtzigt (20 seggi) e il movimento di protesta degli agricoltori Bbb guidato dalla pasionaria Caroline van der Plas (7 seggi). Tratti in comune: un’avversione più o meno spiccata alla sinistra e alla “società aperta”. Differenze: quasi tutto il resto.
Stallo messicano
Sin dalla settimana dopo il voto, quando sono iniziate le interlocuzioni tra i quattro partiti, la matassa s’è dimostrata complicata. A porre gli ostacoli maggiori nelle trattative con Wilders sono stati soprattutto Yeşilgöz e Omtzigt, leader non a caso dei due partiti più vicini all’establishment del Paese. Digerire un governo guidato dall’«impresentabile» Wilders resta affare complicato, e i due partiti sono divisi al loro interno: trovare un’intesa accettabile in cambio di una propria nutrita pattuglia di ministri, o far saltare il tavolo in nome della difesa della Costituzione dagli assalti anti-Islam e anti-Ue del Pvv, rischiando però di essere puniti dagli elettori? Una risposta definitiva ancora non c’è. Da ormai quattro mesi i negoziati procedono a stop and go, e il Parlamento ha già bruciato un mediatore incaricato di facilitarli, il laburista Ronald Plasterk. In queste ore sta provando per l’ennesima volta a sbrogliare la matassa il nuovo negoziatore incaricato, Kim Putters (laburista pure lui), tentando la carta degli incontri separati coi quattro leader. Ma ormai gli olandesi – dentro e fuori dal Parlamento – hanno capito che un governo-Wilders potrebbe non vedere mai la luce. A inizio febbraio Omtzigt ha abbandonato il tavolo delle trattative, ufficialmente per distanze con gli altri interlocutori sulla futuribile politica economica. Ma la vera ragione sembra l’impresentabilità di Wilders agli alleati: tra le altre cose, il leader populista ha promesso di mettere fine alla libertà di movimento per i lavoratori Ue, e giocato più volte col fuoco dello stop agli aiuti militari all’Ucraina.
Vie d’uscita
Che fare, quindi? Wilders venerdì ha provato ad alzare la pressione sugli altri partiti coinvolti nelle trattative insistendo sul «pericolo» di un ribaltone, con l’arrivo al governo del centrosinistra guidato dall’ex commissario Ue Frans Timmermans. Ma con i 25 seggi racimolati a fine novembre dal suo fronte “rosso-verde”, anche uniti a quelli di altre sigle centriste, la maggioranza resterebbe un miraggio. Lo stesso Timmermans ha rilanciato nelle scorse settimane l’appello alla destra scrollandosi di dosso ogni responsabilità: «Avete vinto voi, formate un governo se ne siete in grado». Nel sistema politico olandese non è previsto un termine ultimo ai negoziati per la formazione di un governo. Ma sullo sfondo aleggia ormai chiaramente lo spettro di un ritorno alle urne, magari da accorpare al voto per le Europee (6 giugno 2024). Una scommessa dall’esito incerto. Così l’ultima carta per provare a uscire dallo stallo l’ha resa esplicita nelle scorse settimane lo stesso Omtzigt: una coalizione a 4 si potrebbe fare, a patto che il governo non abbia profilo politico. Un governo tecnico, dunque, o comunque composto da personalità “extra-parlamentari” apprezzate dalle forze di maggioranza che lo sostengono. In Italia sa di già sentito, in Olanda un po’ meno. Ma Wilders e la stessa Van der Plas hanno fiutato rapidamente il pericolo e non sembrano affatto ben disposti all’idea. Si riparte dalla casella di partenza. Finché c’è tempo.
(da agenzie)

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L’AUTOGOL DI CALDEROLI SULL’AUTONOMIA: “QUESTO ETERNO ‘CHIAGNE E FOTTE’ DI PARTENOPEA MEMORIA HA STANCATO”

Marzo 5th, 2024 Riccardo Fucile

OTTIMA MOSSA, CON QUESTO LA LEGA SI E’ GIOCATA I QUATTRO VOTI CHE GLI SONO RIMASTI AL SUD… L’OPPOSIZIONE: “MINISTRO ANTI-MERIDIONALISTA PER ECCELLENZA”

“Dal primo ciclo di audizioni sull’autonomia, con ‘esperti’ invitati dalla sinistra, emergono con chiarezza pregiudizi puramente ideologici, un allarmismo immotivato e fantasiose ipotesi di pericolo che evidentemente sono figlie di un’avversione politica alla riforma. . Dopo aver ascoltato anche tutte le audizioni in Senato, penso dovrò ricorrere ancor di più alla pazienza di Giobbe”.
Roberto Calderoli, al termine delle prime audizioni in commissione Affari costituzionali alla Camera, tira così le somme e spiega che “peraltro da un professore ci si aspetta la conoscenza e la scienza, non dei comizi o peggio ancora delle contumelie, men che meno l’arroganza di sentirsi su un piedistallo e paventare giudizi di analfabetismo costituzionale verso parlamentari eletti, senza aver mai amministrato neanche un condominio”.
“Prima di fare politica e lanciarsi in giudizi avventati – continua Calderoli – forse certi professoroni dovrebbero quantomeno mettersi alla prova con le elezioni e farsi eleggere in Parlamento. Io nel dubbio continuerò a portarmi il Maalox ma inizio a essermi stancato di sentire l’eterno ‘chiagne e fotte’ di partenopea memoria.
Per il Pd le parole del ministro per gli Affari regionali e le Autonomie “sono inaccettabili. Oltre ad essere ancora una volta offensive nei confronti dei napoletani, rappresentano la solita operazione di distrazione di massa da parte di chi, oltre a non voler entrare mai nel merito, è ben consapevole di aver scritto un provvedimento sbagliato e ingiusto”, commenta il deputato democratico, responsabile nazionale Sud e aree interne, Marco Sarracino.
Per Toni Ricciardi, deputato del Pd e componente dell’ufficio di presidenza del gruppo della Camera, il ministro si conferma “l’antimeridionalista per eccellenza. Gli porteremo, non una scatola, ma un tir di Maalox per l’opposizione che faremo al suo Spacca-Italia”.
Replica il dem Sarracino: “Un ministro che attacca gli auditi, non solo non rispetta il Parlamento, ma dimostra anche di essere nervoso e preoccupato. Ma cosa pensano i parlamentari della destra meridionale delle parole del ministro? Qui le uniche cose che sono state ‘fregate’ sono le risorse del fondo perequativo infrastrutturale che erano destinate ai nostri ospedali, alle nostre scuole, alle nostre strade, le nostre reti idriche e che il governo ha cancellato. Il ddl Calderoli mette in discussione l’unità e la coesione nazionale e lo fa legittimando l’idea che nel nostro paese debbano esistere cittadini di serie A e cittadini di serie B sulla base della accessibilità e sostenibilità dei diritti fondamentali”.
Anche il capogruppo democratico nella commissione affari europei della Camera, Piero De Luca, figlio del governatore campano Vincenzo De Luca che più volte ha criticato la riforma Calderoli, aggiunge: “Il ministro rispetti il lavoro del Parlamento ed eviti di offendere gli auditi. I toni e gli attacchi ai tecnici che stanno fornendo un contributo all’istruttoria della camera sono assolutamente inaccettabili e fuori luogo. Peraltro la sostanziale unanimità delle critiche e delle preoccupazioni che arrivano da tutte le direzioni e che sono giunte anche oggi alla commissione bicamerale per le questioni regionali dai rappresentanti degli enti locali, delle parti sociali, dei settori economici e produttivi, dovrebbero indurre ad una riflessione il ministro e il suo governo. Si fermi invece di inveire contro chi rappresenta legittime e purtroppo evidenti contraddizioni e rischi legati a questa sgangherata e pericolosa riforma sull’autonomia differenziata”.
Oltre a Sarracino, i deputati democratici della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, Bonafè, Ricciardi, Fornaro, Cuperlo e Mauri, commentando il primo ciclo di audizioni che si è tenuto questa mattina, fanno notare che “sta emergendo un giudizio negativo univoco sugli effetti dell’autonomia differenziata proposta dal governo. È una bocciatura su tutta la linea – proseguono i dem – ed è molto grave che la maggioranza resti sorda, confermando l’impostazione di chiusura su un tema centrale per l’assetto futuro del nostro paese. La bocciatura non arriva solo dalla politica: autorevoli studiosi e professori delle università italiane stanno smontando punto su punto la proposta del governo mettendone in evidenza il contrasto con i principi fondamentali della costituzione di unità e indivisibilità dello Stato, di solidarietà e gli effetti devastanti della sua attuazione. Peraltro, come è stato sottolineato oggi, è molto grave che la maggioranza e il governo stiano tenendo fuori dalla discussione gli enti locali e le regioni a cui viene chiesta la sottoscrizione di intese, di fatto, irreversibili”.

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COSI’ IL PONTE SULLO STRETTO SI MANGERA’ I FONDI DEL PNRR

Marzo 5th, 2024 Riccardo Fucile

OLTRE ALL’INCOGNITA’ DEGLI ESPROPRI, SALTERANNO OPERE ATTESE DA TEMPO… I SINDACI GUIDANO LA RIVOLTA

Prima la consegna degli atti ai ministeri, poi l’incontro coi sindaci di Messina e Villa San Giovanni. Sullo sfondo la certezza, che agita molto i primi cittadini di entrambe le sponde dello Stretto, di perdere i progetti finanziati con il Pnrr (e non solo) che ricadono sulle aree coinvolte dalla costruzione del Ponte sullo stretto. Soldi che probabilmente resteranno inutilizzati grazie alla grande opera riesumata dal ministro delle Infrastrutture, il leghista Matteo Salvini.
Di certo la settimana appena passata, per Pietro Ciucci, amministratore delegato della Stretto di Messina spa, è iniziata con un obiettivo: pubblicare «nei prossimi giorni – ci dice –, subito dopo la convocazione della conferenza dei servizi», l’elenco degli immobili e dei terreni da espropriare per fare spazio al ponte sullo stretto. Ecco perché ai comuni direttamente interessati dalla posa della prima pietra è stato inviato, almeno con un po’ di anticipo rispetto a quanto accadde nel 2011, l’elenco delle proprietà sottoposte a vincolo di esproprio.
«Ottenere questi elenchi anticipatamente è quanto chiedevamo da tempo alla Stretto di Messina», dice la sindaca di Villa San Giovanni, Giusi Caminiti, «abbiamo, d’altronde, necessità di organizzarci, anzi di prepararci a quello che sarà un vero e proprio allarme sociale. Già da settimane i cittadini fanno la via crucis in comune per capire se la propria casa dovrà essere abbattuta».
Sono subissati da richieste anche gli uffici del municipio di Messina: «Con gli elenchi inviatici prima della relativa pubblicazione sui giornali, potremo fornire maggiori informazioni, così dai primi di marzo organizzeremo degli sportelli nei locali comunali per poter far fronte alle richieste di chiarimento di chi rischia l’esproprio. A Ciucci, nel corso del nostro incontro, tuttavia l’ho detto: credo che a breve ci sarà più di un contenzioso», spiega il sindaco di Messina, Federico Basile.
Da quanto risulta a Domani, però, nessun cambiamento radicale si paleserà dalle nuove carte sugli espropri. È quanto Ciucci ci conferma: «Ci sono state lievi modifiche legate alle variazioni catastali intervenute nel periodo di fermo del progetto e, ancora, agli elementi introdotti dal suo aggiornamento».
Se si replicheranno pertanto i piani del 2011, il blocco di ancoraggio del ponte sorgerà in corrispondenza dell’unico sito archeologico di Villa San Giovanni, Forte Beleno. Con la differenza che oggi proprio su quel sito grava un investimento di un milione e mezzo di fondi Pnrr per la relativa riqualificazione. Il risultato è che sarà perduto, stanziato e investito a vuoto.
Non più «il recupero dell’area attraverso la riforestazione urbana», non più – come si legge nei documenti del progetto – «la realizzazione di un parco multifunzionale e di uno spazio verde adibito a gioco ludico». Soltanto il blocco dell’esecuzione dei lavori. Un vero e proprio spreco di risorse economiche per dare vita al ponte, la cui realizzazione è tutt’altro che certezza nel futuro del paese.
Stessa sorte toccherà poi ai sette milioni del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) per la riqualificazione, sempre a Villa San Giovanni, del lungomare e per la mascheratura della variante Cannitello, concepita all’epoca come opera propedeutica al ponte ma rimasta, con la successiva bocciatura dell’infrastruttura, un muraglione di cemento di notevole impatto ambientale.
I residenti lo chiamano «l’ecomostro». I lavori in mano al soggetto attuatore, Rfi, sarebbero dovuti terminare entro febbraio 2022. Non è stato così. «Col ponte e i vincoli di esproprio, rischiamo che la mascheratura, per cui sono stati impiegati solo due milioni rispetto ai sette previsti, non venga conclusa», dice la sindaca di Villa, «per questo abbiamo chiesto alla società Stretto di Messina che il comune possa ottenere i cinque milioni non ancora spesi, ma è tutto da vedere».
A Messina, invece, «in zona Gazza, dove si prevede lo spostamento della stazione centrale, c’era un finanziamento, non Pnrr ma di altro tipo, di un paio di milioni», è laconico il sindaco Basile. Anche in questo caso, a causa del ponte, ci potrebbe essere un cambio di programma “obbligato” dalla scelta di Salvini.
ESPROPRI AL RISPARMIO
«Al pari del 2011, tremila dovrebbero essere gli espropri complessivi tra Villa e Messina», precisa inoltre Caminiti «con 150 case private nella sola Villa». E gli indennizzi? «Parliamo – risponde la sindaca – di un totale di 300 milioni: una cifra bassissima, meno della metà di quella che dovrebbe essere considerata adeguata. In più – dice – non si tiene conto che per tutte queste persone verranno meno diritti esistenziali, il diritto all’abitare in primis. E poi chi pensa a tutte quelle case, non rientranti nella lista espropri, ma comunque danneggiate? Case che, per il ponte, entreranno in un cono d’ombra o non godranno più della vista panoramica che hanno: in questi casi il danno è legato alla valutazione economica degli immobili».
Sul punto l’amministrazione di Villa non intende dare carta bianca. «La mia amministrazione – prosegue la sindaca – si opporrà a tutti gli espropri non strettamente necessari: è paradossale che, almeno nel piano del 2011 e probabilmente anche ora, rientri una villa di un privato, dal valore di un milione di euro, da abbattere per costruire un’area lavaggio, un’area da cantiere. Cercheremo inoltre di evitare gli errori del passato: sempre nel 2011 i cittadini soggetti a esproprio vennero ricevuti dalla Stretto di Messina, nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione delle liste, in un albergo. Oggi – continua Caminiti – i cittadini dovranno manifestare le loro osservazioni nei locali comunali e non in solitudine».
Poi c’è il protocollo che ai comuni interessati dagli espropri è stato chiesto di sottoscrivere. «Io, a differenza della precedente amministrazione che nel 2011 lo firmò, non lo farò – dichiara Giusi Caminiti – Il protocollo riguarda forme di arbitrato per quantificare gli indennizzi in caso di controversie, ma sul punto esistono le norme di legge: sono quelle che bisogna seguire. Firmerò solo e soltanto qualora il protocollo sia migliorativo per i cittadini».
Sempre dall’amministrazione di Villa San Giovanni, si fa largo, infine, una proposta, oltre a quella di «fare dei pilastri del ponte degli attrattori turistici» in modo che, nel caso di mancata costruzione dell’opera, non siano cattedrali nel deserto. «Occupare temporaneamente gli immobili, evitando di espropriarli, e poi restituirli alle famiglie a seguito della costruzione del ponte. Nel caso di espropriazione necessaria, invece, sarebbe opportuno – afferma la sindaca – consentire ai cittadini di scegliere tra l’indennizzo in denaro o una nuova casa. Chiederemo che vengano costruite centocinquanta villette a schiera».
«CANTIERI? NON PER L’ESTATE»
Salvini e Ciucci hanno annunciato trionfanti: «Lavori entro l’estate 2024». La realtà tuttavia è dura da accettare. Sulle tempistiche, infatti, restano moltissime perplessità. Lo stesso Ciucci, facendo quasi un passo indietro, dichiara a questo giornale che «l’approvazione del progetto definitivo da parte del Cipess nonché la dichiarazione di pubblica utilità, sulla scorta delle attuali procedure in corso, potrà avvenire a metà del 2024 e che soltanto successivamente potrà avviarsi la procedura attuativa degli espropri».
«C’è bisogno dell’approvazione del progetto da parte del Cipess e prima si deve avere l’ok sulla valutazione di impatto ambientale. Non è affatto vero che i cantieri verranno aperti questa estate. Solo nell’autunno 2024 avremo, eventualmente, i cantieri per le opere preliminari al ponte – conferma Caminiti – E le dichiarazioni del ministro Salvini sull’opera che, in termini di incremento di Pil, farebbe bene al Nord, lasciano spazio ad altri dubbi. Per Villa San Giovanni sarebbero necessari investimenti sul sistema dei trasporti, un porto traslato a sud della città per evitare l’attraversamento di 4,5 milioni di mezzi leggeri e pesanti all’anno, un rilancio da un punto di vista turistico».
«Per la Calabria tutta – conclude Caminiti – la priorità non è il ponte sullo stretto, ma la sanità, la scuola, il sociale. Tutti ambiti che, col progetto di autonomia differenziata, rischiano di restare sempre più indietro». La realtà, appunto, supera la propaganda.
(da editorialedomani.it)

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IN ITALIA, UNO STUDENTE SU 5 HA AMMESSO DI AVER ASSISTITO AD AGGRESSIONI, SIA FISICHE CHE VERBALI, NEI CONFRONTI DEI PROFESSORI

Marzo 5th, 2024 Riccardo Fucile

NEI CONFRONTI DEI DOCENTI, UN DATO CHE E’ IN COSTANTE AUMENTO NEGLI ULTIMI ANNI

Gli assalti ai docenti da parte degli studenti non accennano a diminuire: anche in quest’anno scolastico ben un alunno delle superiori su cinque ha assistito ad aggressioni per lo più verbali, ma anche fisiche, nei confronti dei professori; e, in un caso su tre, ciò avverrebbe addirittura frequentemente. E’ quanto rivela il periodico monitoraggio sul fenomeno effettuato dal portale Skuola.net, che ha coinvolto un campione di 2.000 studenti delle classi secondarie superiori.
Il dato complessivo che emerge appare in linea con quanto riscontrato esattamente un anno fa. Rispetto ad allora c’è però sicuramente maggiore attenzione rispetto a questi comportamenti, segnala Skuola.net, ma gli inasprimenti sanzionatori a cui sta lavorando il Parlamento entreranno in vigore solo a partire dal prossimo anno scolastico. Un giro di vite che, secondo 1 alunno su 4, potrebbe aiutare a ridurre la frequenza di tali episodi. Ma non tutti ne sono pienamente convinti: per la metà degli intervistati l’inasprimento degli aspetti sanzionatori è solo una parte della soluzione, mentre la restante parte la giudica assolutamente inutile.
Anche perché, la maggior parte di loro – il 66% – è concorde nell’affermare che negli ultimi anni c’è stato un aumento dell’aggressività degli studenti verso i docenti. Allo stesso tempo in tanti ci tengono comunque a “scagionare” la propria generazione. Solo 1 su 4 pensa che il fenomeno sia legato al fatto che i giovani di oggi sono meno tolleranti rispetto a un’autorità superiore quale può essere un professore. Ma la fetta più grande (37%) individua nella società nel suo complesso la fonte della violenza: l’aggressività è ovunque e i giovani non sfuggono al ‘contagio’. Tornando all’attualità, per fortuna la stragrande maggioranza degli scontri tra alunni e docenti si limita sul piano verbale: così in 3 casi su 4.
E qui abbiamo una prima buona (si fa per dire) notizia: la quota di scontri solo “a parole” – sicuramente deprecabili ma preferibili a quelli fisici – è cresciuta dal 70% al 76%. “Purtroppo le aggressioni verbali e fisiche messe in atto dagli studenti all’indirizzo dei docenti non accennano a diminuire”, afferma così Daniele Grassucci, direttore di Skuola.net. “Anche quest’anno – aggiunge – il 18% degli alunni delle superiori ne è stato testimone. Sanzioni più severe, anche a detta dei diretti interessati, possono aiutare a contrastare il fenomeno ma non sono risolutive. Le famiglie potrebbero giocare un ruolo decisivo, ma spesso non lo fanno: solo una minoranza dei genitori si schiera apertamente dalla parte del professore”.
(da agenzie)

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