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CONTE E LA RESA DEI CONTI NEL M5S: CHIARA APPENDINO SI DIMETTE DA VICE PRESIDENTE DEL MOVIMENTO 5 STELLE IN POLEMICA CON LA LINEA CONTIANA DI ALLEANZA CON IL PD E ASSUME DI FATTO IL RUOLO DI LEADER DELL’OPPOSIZIONE INTERNA

Ottobre 18th, 2025 Riccardo Fucile

PRONTA LA CONTROMOSSA DI CONTE: IL PROSSIMO WEEKEND SI TERRA’ LA VOTAZIONE SUL SECONDO MANDATO DI CONTE DA PRESIDENTE DEL MOVIMENTO. L’EX PREMIER È L’UNICO CANDIDATO IN CORSA ED È SCONTATA LA SUA RIELEZIONE. LA MOSSA HA UN VALORE POLITICO: PERMETTE L’AZZERAMENTO DEGLI ATTUALI ORGANI DIRIGENZIALI

Alla fine è arrivata la resa dei conti nel Movimento. Chiara Appendino, nel corso del consiglio nazionale stellato (la riunione dei vertici M5S) ha annunciato le proprie dimissioni da vice presidente del partito. La deputata piemontese ha confermato nel suo intervento durante l’assemblea (in corso dalle 10 di questa mattina) le critiche nei riguardi del posizionamento politico dei Cinque Stelle, critiche manifestate già martedì scorso nel corso di una assemblea congiunta dei parlamentari.
Come in una partita a scacchi, pronta la contromossa del leader stellato: il prossimo weekend si terrà infatti la votazione sul secondo mandato di Giuseppe Conte da presidente del Movimento. L’ex premier è l’unico candidato in corsa ed è scontata la sua rielezione.
La mossa, però, ha un valore politico: permette l’azzeramento degli attuali organi dirigenziali e, quindi, di fatto fa sì che la casella vuota lasciata da Appendino tra i suoi vice resti vacante solo per una settimana.
(da Corriere della Sera)

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ARRESTATO PER CORRUZIONE IL CONSIGLIERE REGIONALE DI FRATELLI D’ITALIA ENRICO TIERO

Ottobre 18th, 2025 Riccardo Fucile

INDAGATO ANCHE L’ASSESSORE REGIONALE DEL LAZIO GHERA (FDI)

Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Enrico Tiero è stato arrestato questa mattina dai Carabinieri e dalla Guardia di Finanza. Ora si trova ai domiciliari. Per la procura di Latina il consigliere, “avvalendosi delle proprie funzioni, avrebbe agevolato le attività e gli interessi di alcuni imprenditori operanti in vari settori (commercio alimentari, sanitario, raccolta rifiuti)
nell’ambito della gestione di pratiche e iter amministrativi e procedurali, a fronte di utilità, quali assunzioni lavorative e, in un caso, una somma di denaro e la sottoscrizione di schede di tesseramento a un partito politico”. Tiero, già indagato per corruzione, si era autosospeso dal consiglio regionale.
L’assunzione della figlia in cambio di favori
Una delle accuse mosse a Enrico Tiero, è quella di aver garantito finanziamenti all’Icot di Latina in cambio dell’assunzione e di favori al lavoro per la figlia. Che sarebbe stata chiamata ‘la vip’ dai colleghi, proprio in nome di questi presunti favori per la ragazza. La figlia di Tiero, già lavorava all’Icot, ma il suo contratto era in scadenza: il padre però l’avrebbe tranquillizzata, dicendole che non avrebbe avuto problemi e che anzi, avrebbe già potuto chiedere un mutuo per la casa. In cambio del prolungamento del suo contratto di lavoro, secondo chi indaga, Tiero avrebbe dovuto sollecitare l’ampliamento dei posti letto all’Icot. Data la risposta negativa della Asl per mancanza di budget, non si sarebbe dato per vinto, dicendo che avrebbe comunque smosso dei contatti “per arrivare a dama”. La sua influenza era così forte che in una chat un medico dell’ospedale Santa Maria Goretti gli aveva scritto: “Sei diventato il deus ex machina della Sanità nella nostra provincia”.
Indagato anche l’assessore alla Regione Lazio Fabrizio Ghera
A essere indagato dalla procura di Latina non è solo il consigliere Tiero, ma anche l’assessore ai rifiuti della Regione Lazio Fabrizio Ghera, Roberto Ciceroni, direttore
amministrativo della struttura ospedaliera Icot, Maurizio Marasca, gestore del Conad di Latina, gli imprenditori Leonardo Valle e Francesco Traversa del Gruppo Cosami, e Leonardo Morabito.
(da agenzie)

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L’AMBASCIATORE DI SALVINI A MOSCA STEFANO BELTRAME NON È GRADITO AL CREMLINO. E PENSARE CHE PASSAVA PURE PER UN DIPLOMATICO “FILORUSSO”

Ottobre 18th, 2025 Riccardo Fucile

GIÀ CONSIGLIERE DIPLOMATICO DI SALVINI AI TEMPI DEL VIMINALE, BELTRAME E’ L’UOMO CHE NELL’OTTOBRE DEL 2018 HA ORGANIZZATO IL VIAGGIO DI SALVINI A MOSCA. ERANO I TEMPI DELL’HOTEL METROPOL, CON GLI EMISSARI DEL CARROCCIO ACCUSATI DI TRATTARE CON I RUSSI PER UN FINANZIAMENTO AL PARTITO … IL RITARDO NEL GRADIMENTO DI MOSCA SAREBBE UNA RITORSIONE PER IL SOSTEGNO DELLA MELONI A KIEV

Lo accusavano di essere un ambasciatore “filorusso” ma la Russia non lo gradisce. Non lo fa ancora insediare. Antonio Tajani e Giorgia Meloni indicano Stefano Beltrame come nuovo ambasciatore a Mosca. Apriti cielo, anzi, Cremlino.
Chi è Beltrame? E’ un veneto, un funzionario stimato dalla Farnesina. Ha lavorato in Asia, in Africa, come vice capo
missione, poi a Bonn. Il salto avviene con l’ex ministra Emma Bonino che lo nomina consigliere generale a Shangai.
Nel 2003, Beltrame viene inviato a Teheran, si sposta successivamente in America, a Washington, come consigliere d’ambasciata. E’ veneto e Luca Zaia lo sceglie come suo consigliere diplomatico. Per tutti è “amico di Zaia”. Quando Matteo Salvini viene nominato ministro dell’interno, Beltrame si sposta a Roma, consigliere diplomatico di Salvini. Per tutti diventa “l’amico di Salvini”. Attualmente è il consigliere diplomatico di Giorgetti e per tutti è “l’amico di Giorgetti”.
Nell’ottobre del 2018, Beltrame organizza il viaggio di Salvini a Mosca. Scoppia il caso Metropol e si parla presunti rapporti fra leghisti e russi, trattative per avere fondi, compravendite di petrolio, incontri fra Gianluca Savoini, leghista, presidente dell’associazione Lombardia Russia e intermediari del Cremlino.
Sul caso Metropol c’è stata un’inchiesta giudiziaria finita lo scorso anno con l’archiviazione. Bene. Ad agosto, Cecilia Piccioni, ambasciatrice a Mosca, stimata da Tajani, lascia la carica e rientra in Italia con un nuovo incarico. E’ promossa, capo Direzione generale per gli affari politici (Dgap).
Beltrame era destinato a Buenos Aires ma Tajani prende tempo. La grande nomina che arriva è quella di Marco Peronaci al posto di Mariangela Zappia, ma non quella di Beltrame. Giorgetti chiede a Tajani il perché della mancata nomina. Beltrame si chiarisce con Tajani. Il 29 agosto, in Cdm, Tajani propone la nomina di Beltrame a Mosca. Il giorno dopo Beltrame passa come l’uomo di Salvini a Mosca. I quotidiani, giustamente, chiedono a Meloni: cara premier, la sua politica estera a favore
dell’ucraina è compatibile con la nomina di Beltrame?
Insomma, Beltrame che avrebbe la sola colpa, dicono gli esteti, di indossare scarpe color marrone, passa per come “l’uomo di Salvini”, il futuro “ambasciatore gradito da Salvini a Mosca”. Peronaci si è già insediato a Washington e ha preso il posto di Zappia ma Beltrame attende ancora il “gradimento” da parte della Russia.
E’ probabile che il ritardo si debba alle posizione italiane sull’ucraina, che sia una ritorsione per il sostegno fermo, deciso di Meloni all’ucraina. Era così “amico” dei russi al punto che i russi lo tengono fermo in Italia. Savoini, pensaci tu. Un’ambasciata?

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ATTENTATO A RANUCCI: ROBERTO SAVIANO PUNTA IL DITO CONTRO MELONI E FRATELLI D’ITALIA: “AVETE TRASFORMATO REPORT IN BERSAGLIO”

Ottobre 18th, 2025 Riccardo Fucile

IL RIFERIMENTO E’ AI MANIFESTI AD ATREJU CON IL VOLTO DI RANUCCI INDICATO COME NEMICO

Roberto Saviano ha lanciato accuse pesanti al governo di Giorgia Meloni e anche al suo partito Fratelli di Italia e ai giovani organizzatori della festa di Atreju identificati come responsabili del clima che ha consentito l’attentato al conduttore di Report, Sigfrido Ranucci. Saviano anche se non ha citato nomi e nemmeno sigle di partiti, ha alluso chiaramente a loro mentre era ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, insieme al regista Luca Guadagnino, alla giornalista di Repubblica, Annalisa Cuzzocrea e per brevissimo tempo anche allo stesso Ranucci.
Il j’accuse di Saviano diretto al governo in carica per l’attentato a Ranucci
Saviano ha esordito dicendo infatti: «Quello che oggi sta facendo la politica, soprattutto in questo momento la politica al governo è bersagliare la persona. Non criticare il suo lavoro o l’inchiesta. Ma considerare come un rivale o un nemico il giornalista fisicamente, usando il viso o usando il nome. Qualcuno da potere spendere sui manifesti in campagna elettorale, all’apertura dei loro festival. Come ci fosse un concetto per noi passato come
naturale, ossia che quando qualcuno si espone facendo il suo lavoro, raccontando il potere, debba fatalmente accettare che questa cosa gli comprometta la vita, che lo rende un bersaglio. Report è stato massacrato, continuamente. Intendo non criticata, perché la critica è necessaria al tuo lavoro. Ma non quando inizia ad esserci un continuo sospetto sulla tua persona: ti arricchisci, manipoli. Oppure: vota noi perché così lui sarà triste, lui sarà sconfitto…».
Lilli Gruber lo ha interrotto sorridendo: «È un esempio reale… siamo finiti…». E Saviano: «Reale, certo. Questo significa isolare quella persona soprattutto. Il messaggio che la politica manda quale è? Se prendete posizione, ne pagherete le conseguenze».
(da agenzie)

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“IL GOVERNO MELONI NON HA RISPETTATO I PATTI SU ALMASRI”: LA DECISIONE DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE

Ottobre 18th, 2025 Riccardo Fucile

ENTRO IL 31 OTTOBRE IL GOVERNO DOVRA’ FORNIRE SPIEGAZIONI

«L’Italia, non eseguendo correttamente la richiesta d’arresto e consegna» del generale libico Almasri, «non ha rispettato i propri obblighi internazionali» di cooperazione.
Lo ha stabilito la camera preliminare I della Corte penale internazionale (Cpi). Che però ha deciso a maggioranza di rinviare la scelta su un eventuale deferimento all’assemblea degli Stati parte o al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Secondo il documento della Cpi il governo dovrà fornire entro il 31 ottobre informazioni su eventuali procedimenti interni pertinenti e sul loro impatto sulla cooperazione con la Corte.
Il governo e Almasri
Nelle loro conclusioni, le tre giudici della camera preliminare I de L’Aja ritengono «all’unanimità che l’Italia non abbia agito con la dovuta diligenza né utilizzato tutti i mezzi ragionevoli a sua disposizione per ottemperare alla richiesta di cooperazione» della Corte penale internazionale. Il governo, si legge ancora nel documento, non ha inoltre fornito «alcuna valida ragione giuridica o ragionevole giustificazione» per il trasferimento immediato di Almasri in Libia. Anziché «consultare preventivamente la Corte o cercare di rettificare eventuali difetti
percepiti nella procedura d’arresto».
Le tre giudici
Secondo le togate (la presidente della camera preliminare I, Iulia Motoc, la beninese Reine Alapini-Gansou e la messicana Maria del Socorro Flores Liera), nonostante «l’ampio tempo a disposizione» e i «ripetuti tentativi d’interloquire con il ministero della Giustizia italiano», l’Italia non ha mai contattato la Corte per «risolvere eventuali ostacoli».
Ovvero quelli relativi al mandato d’arresto e alla «presunta richiesta d’estradizione concorrente» da parte della Libia. Impedendo così alla Cpi di esercitare le proprie funzioni. Il governo ha giustificato il rimpatrio di Almasri con «motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni». Ma la Corte ritiene tali spiegazioni molto limitate, osservando che non è chiara la scelta di «trasportarlo in aereo verso la Libia».
Le questioni interne
Inoltre, le giudici ricordano che le questioni di diritto interno non possono essere invocate per giustificare una mancata cooperazione con la Cpi, respingendo dunque la tesi italiana.
Pur constatando la violazione, le giudici hanno scelto di non deferire subito il caso all’Assemblea degli Stati parte o al Consiglio di sicurezza dell’Onu, assicurando di tenere in considerazione la complessità del caso. A maggioranza – con Flores Liera in dissenso – è stato deciso di concedere al governo una proroga fino a venerdì 31 ottobre per fornire ulteriori chiarimenti e informazioni su eventuali procedimenti interni connessi alla vicenda. Come quello aperto al Tribunale dei ministri nei confronti della premier Giorgia Meloni, dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e del sottosegretario Alfredo Mantovano.
(da agenzie)

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NIENTE MISSILI ALL’UCRAINA E SANZIONI ALLA RUSSIA: I SOLITI INFAMI A STELLE E STRISCE

Ottobre 18th, 2025 Riccardo Fucile

IL PREMIO NOBEL DEI CIALTRONI SERVE L’ASSIST A PUTIN

Un incontro «teso». In cui Donald Trump è stato «duro». E ha detto chiaramente che al momento non è intenzionato a fornire i Tomahawk all’Ucraina. A descrivere il dietro le quinte del faccia a faccia fra Trump e Volodymyr Zelensky è Axios. Il dialogo si è concluso bruscamente dopo due ore e mezza. «Penso che abbiamo finito. Vediamo cosa succede la prossima settimana», ha detto Trump. Riferendosi al suo prossimo faccia a faccia con Vladimir Putin a Budapest. Mentre gli europei presenti all’incontro sono rimasti perplessi per l’atteggiamento del presidente Usa.
Trump: Né sì né no
Nel corso del colloquio fra Zelensky e i leader europei il primo ministro britannico Keir Starmer ha proposto di collaborare con gli Stati Uniti per elaborare un piano di pace per l’Ucraina. Sulla falsariga del piano in 20 punti di Trump per Gaza, riporta Axios. Mettendo in evidenza che il segretario della Nato Mark Rutte ha
proposto un’urgente chiamata di follow-up tra i consiglieri per la sicurezza nazionale europei nel fine settimana. Zelensky ha premuto con forza per i Tomahawk ma Trump non ha mostrato alcuna flessibilità. Anche se il presidente ucraino a NbcNews ha detto che il presidente «non ha detto no» all’invio dei missili che hanno una gittata in grado di colpire in profondità nel territorio russo. Precisando però che «non ha detto nemmeno di sì».
Trovate un accordo
Secondo l’agenzia di stampa Afp Trump ha esortato Zelensky a cessare le ostilità. «L’incontro con il presidente ucraino è stato molto interessante e cordiale, ma gli ho detto, come ho fortemente suggerito anche al presidente Putin, che era ora di fermare le uccisioni e trovare un ACCORDO», ha scritto in maiuscolo il tycoon su Truth.
Secondo Trump i due belligeranti dovrebbero «fermarsi dove sono. Lasciate che entrambi cantino vittoria, che sia la storia a decidere. Basta sparatorie, basta morti».
Poi ha detto anche ai giornalisti che «Ucraina e Russia dovrebbero fermarsi immediatamente all’attuale linea del fronte». «Rispettate la linea del fronte, ovunque essa sia, altrimenti diventerà troppo complicata», ha detto.
I Tomahawk e i droni ucraini
E ancora: Trump aveva già espresso le sue riserve su una potenziale consegna all’Ucraina di questi missili con una gittata di 1.600 chilometri, a cui Mosca è ovviamente contraria. Durante l’incontro con Trump, Zelensky ha proposto uno scambio tra i Tomahawk e «migliaia» di droni ucraini. Ma non ha convinto il presidente americano. Così come non lo hanno convinto le
“mappe” dei potenziali obiettivi russi che Zelensky gli ha mostrato, secondo una fonte ucraina. «Il presidente Putin vuole porre fine alla guerra», ha detto Trump dopo la sua conversazione con il Cremlino.
Prendere tempo
Trump ha anche detto di ritenere «possibile» che Putin stia cercando di guadagnare tempo, in risposta a una domanda di un giornalista dell’AFP. Ma ha anche affermato: «Per tutta la vita, i migliori hanno cercato di fregarmi. E me la sono cavata davvero bene». La Russia, con l’avvicinarsi dell’inverno, sta intensificando gli attacchi alle infrastrutture energetiche nemiche. Venerdì 17 ottobre ha anche rivendicato la presa di tre villaggi ucraini. In questo contesto, la rinnovata vicinanza del presidente americano con Putin è motivo di preoccupazione a Kiev. Soprattutto perché Trump ha reso a Zelensky un resoconto molto positivo del suo incontro del giorno prima con la sua controparte russa.
L’Alaska e le sanzioni
Il suo ultimo vertice con Putin, il 15 agosto in Alaska, si è concluso senza alcuna concreta prospettiva di pace. Il presidente americano, tuttavia, non ha dato seguito alle sue minacce di pesanti sanzioni contro Mosca. Adesso Budapest sarà decisiva. Sempre che Trump non cambi idea un’altra volta.
(da Open)

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LAVORARE COME UN GRECO

Ottobre 18th, 2025 Riccardo Fucile

LA GIORNATA LAVORATIVA DI 13 ORE

Avanti popolo, si torna indietro. La Grecia, culla della democrazia, ha varato la giornata lavorativa di 13 ore. Facoltative e ben remunerate, ci mancherebbe, però intanto la nuova legge approvata dal Parlamento ellenico rompe un tabù e inverte una tendenza. Quando l’ho saputo, quasi non ci volevo credere. Ridurre il tempo dedicato al lavoro era stata una delle conquiste della modernità, e procedeva da decenni in modo graduale ma, pensavo, inesorabile. Certo, dietro il paravento legalitario si è sempre mossa una realtà di tutt’altro segno, e ieri la ministra greca Niki Kerameos l’ha spiattellata in faccia a tutti con parole così poco ipocrite da apparire brutali: «Ci sono persone che già adesso fanno due o tre lavori per arrivare a fine mese. Noi daremo loro la possibilità di prendere gli stessi soldi senza doversi spostare da un posto all’altro».
Rinfoderati i sogni umanisti nell’album dei rimpianti, quel poco di politica che resta si è dunque assegnata l’unico compito di regolamentare l’ineluttabile, rinunciando definitivamente all’idea di cambiarlo o almeno di metterlo in discussione. Un paio di generazioni sono cresciute sventolando l’utopia del «lavorare meno, lavorare tutti». Invece lo slogan del nuovo pragmatismo recita «lavorare in meno, lavorare tanto». Da una parte un esercito di disoccupati e sottooccupati. Dall’altra una minoranza che, per conservare il proprio tenore di vita, sarà costretta a faticare sempre di più. Ma siamo proprio sicuri sia questo il mondo che vogliamo?
(da corriere.it)

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LA SOLIDARIETA’ NON BASTA, VA GARANTITO IL GIORNALISMO LIBERO

Ottobre 18th, 2025 Riccardo Fucile

LA SOLIDARIETA’ NON BASTA, VA GARANTITO IL GIORNALISMO LIBERO
OCCORRONO FATTI CONCRETI PER LA LIBERTA’ DI INFORMAZIONE

L’intimidazione subita dal conduttore di Report Sigfrido Ranucci e dalla sua famiglia lascia sgomenti. Non solo per l’aggressione a colpi di bombe carta al giornalista, che da anni è uno dei simboli di chi prova ancora, cocciutamente, a raccontare le pieghe nascoste e gli scandali dei potenti. Ma anche perché rende manifesta una democrazia monca, malata, dove i cronisti che fanno il loro dovere rischiano, sistematicamente, pressioni e minacce, fino a violenze come quella di giovedì notte.
Al netto della matrice che ancora ignoriamo e che molto dirà dei motivi per cui uno o più sconosciuti hanno piazzato un ordigno rudimentale in mezzo ai vasi della villetta di famiglia a Pomezia, è un fatto che l’attentato colpisca il lavoro di Ranucci, quello dell’intera redazione di uno dei pochissimi programmi di servizio pubblico rimasto in Rai e, indirettamente, quello dell’intera stampa libera.
Solo due settimane fa, da un palco in Puglia, con Ranucci elencavamo gli ostacoli che in questi anni il potere economico, politico e giudiziario hanno opposto a un mestiere che ha obiettivo primario quello di informare i cittadini, affinché possano scegliere al momento del voto quali rappresentanti (e dunque quale governo) supportare e sostenere. La lista è senza fine: querele temerarie, richieste di risarcimento danni multimilionarie, pressioni multiformi, insulti pubblici, caccia alle fonti da parte delle procure, intercettazioni abusive a cronisti e direttori di testate.
L’arma preferita dal potere illiberale, e non da ora, è però quella della delegittimazione: i giornalisti e la loro funzione – anche quando raccontano fatti incontrovertibili con evidenze indiscutibili – sono vissuti come un fastidioso filtro tra il potere e l’opinione pubblica, nei casi migliori; come servi, calunniatori, professionisti faziosi da isolare e sostituire con colleghi embedded, in quelli peggiori.
Nulla c’entra, nella vicenda della bomba carta, il governo sovranista. Chi oggi rovescia le teorie bislacche sui «cattivi maestri» usate da Meloni negli scorsi giorni per incendiare la polemica contro le piazze e «la sinistra peggio di Hamas» commetterebbe un grave errore. Mai usare propaganda avariata: è un gioco di specchi che fa male in primis alla tenuta democratica, bene prezioso che tutti devono proteggere da ogni tentazione retorica.
Quello che si deve, e può, contestare alla presidente del Consiglio e alla sua claque di fedelissimi, fatta anche di editori impuri che usano i loro media come clava contro gli avversari veri o presunti, è la creazione in questi anni di un clima asfittico per il giornalismo critico.
L’Italia di Meloni non è il Messico dei narcos o la Russia di Vladimir Putin che ammazza Anna Politkovskaja, ma un paese in cui cresce un’ostilità diffusa verso chi esercita il diritto di cronaca e opinione. Premier, ministri, parlamentari (non solo di destra, in verità) invece di difendere l’articolo 21 della Costituzione e il giornalismo d’inchiesta lo attaccano sbracatamente e assai volentieri, additandolo pubblicamente come un pericolo da ridimensionare, disconoscendo il valore di
un ingranaggio chiave per ogni sistema democratico maturo.
Se Report, Domani, Fanpage, Il Fatto Quotidiano o Repubblica vengono definiti «portatori d’interesse», quando querele cadono a pioggia su ogni articolo sgradito, se i talk non proni a palazzo Chigi vengono evitati come la peste, se si aboliscono le conferenze stampa perché le domande sgradite vengono considerate lesa maestà, significa che il governo non si vergogna di minare il fragile equilibrio tra potere e controllo, cioè tra esecutivo e cittadini, bilanciamento necessario a fare della repubblica un paese davvero libero.
Non sappiamo chi abbia piazzato l’ordigno sotto casa Ranucci né perché. Ogni conclusione e analisi è dunque affrettata. Ma la solidarietà arrivata dalle istituzioni scomparirà nel vento se non si tradurrà in atti concreti: una legge che protegga la stampa dalle querele bavaglio, una Rai che non risponda più ai partiti e al governo, una politica che rinunci all’intimidazione, una nuova attenzione alla cultura del rispetto. Sarebbe un passo in avanti, ma siamo quasi sicuri che nessuno lo farà. Speriamo di sbagliarci.
(da agenzie)

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GIORNALISTI, PROIETTILI E QUERELE: + 76% DI MINACCE NEL 2025

Ottobre 18th, 2025 Riccardo Fucile

SONO 81 I CRONISTI INTIMIDITI NEL PRIMI SEI MESI DELL’ANNO

Intercettati illegalmente, minacciati, denunciati dai potenti con querele spesso temerarie. Sono tempi duri per la libertà di informazione. L’auto incendiata a Sigfrido Ranucci è l’ultimo di una valanga di casi di intimidazioni a cronisti. E se per il conduttore di Report c’è stata immediata solidarietà, ci sono tanti altri casi meno noti di giornalisti che ogni giorno subiscono e rischiano aggressioni e minacce. Nei soli primi sei mesi del 2025 ci sono stati 81 episodi di intimidazioni, il 76% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I numeri sono in crescita costante. I dati raccolti dal Viminale raccontano di 114 casi di minacce nel 2024, a fronte dei 98 del 2023, dunque il 16,3% in più. La matrice di questi episodi è riconducibile alla criminalità organizzata per il 12,1% e a contesti socio/politici nel 65,8% dei casi, che includono le cause intentate da politici e potenti per articoli poco graditi. Il restante 21,6% riguarda altri contesti, incluso il web. Il fenomeno è esteso in tutta Italia, interessa 17 regioni, anche se la maggior parte degli episodi è avvenuta in Lombardia, Lazio, Sicilia, Toscana e Calabria.
Se si considerano le querele temerarie come atto di intimidazione, i numeri crescono vertiginosamente. Nel 2024 “Ossigeno per l’Informazione” ha contato ben 516 minacce nei confronti di giornalisti, blogger e operatori dei media. In questi casi, il 15% delle intimidazioni proviene dalla criminalità, il 21% dal mondo politico-istituzionale e il 25% dal settore del calcio. Di tutti questi avvertimenti, il 22% “è stato eseguito con querele temerarie e altre azioni legali pretestuose provenienti per la metà
da politici e amministrazioni pubbliche”.
Purtroppo anche un cronista del Fatto è nell’elenco dei minacciati. Vincenzo Iurillo in diversi articoli ha raccontato le speculazioni edilizie sul territorio sorrentino dell’imprenditore edile Salvatore Langellotto, già condannato a quattro anni e mezzo per concorso esterno in associazione camorristica. Per atti persecutori ai suoi danni, Langellotto è ora sotto processo.
Iurillo non è solo. Ci sono i nomi più noti, molti anche sotto scorta: Roberto Saviano, Lirio Abbate e Salvo Palazzolo di Repubblica, da lungo tempo sono finiti nel mirino dei clan. E poi, con una matrice diversa, stavolta anarchica, c’è il caso del direttore del Tempo Tommaso Cerno.
I giornalisti che operano sui territori, quelli meno esposti mediaticamente, corrono rischi quotidiani. Giorgia Venturini di Fanpage, che si occupa di criminalità organizzata, il 10 settembre ha trovato davanti casa sua a Milano la testa mozzata di un capretto, in una busta nera, insieme alla pelle scuoiata dell’animale. Klaus Davi dopo tre anni di messaggi di minacce, scritte sui muri e sui social, ha addirittura rischiato un’imboscata nel momento in cui è stato contattato da una persona che diceva di volerlo incontrare in un comune della Calabria per dargli alcune informazioni. Il corrispondente della Gazzetta del Sud per la Sibaritide, Luigi Cristaldi, ha visto la sua auto prendere fuoco a novembre del 2023. E minacce sui social, con tanto di profilo fake con una foto con alcune tombe alle spalle, sono state recapitate a Elisa Barresi, vicedirettrice del sito Il Reggino. Jacopo Storni del Corriere Fiorentino, invece, a giugno 2024, è stato accerchiato mentre cercava di documentare situazioni di
spaccio nel parco cittadino. E queste sono solo alcune delle centinaia di storie.
Ma l’informazione, non va solo silenziata, va anche controllata. E qui entrano in gioco gli spyware, come quelli trovati nei dispositivi elettronici dei cronisti. Tra il 2020 e il 2025, almeno 35 giornalisti sono stati spiati in tutta Europa: hanno scritto articoli contro il potere, da quelli sul presidente serbo a quelli su primo ministro ungherese Viktor Orbán, o anche sugli 007 marocchini.
Nei loro cellulari sono stati trovati software come Novispy, creato dal governo serbo oppure Predator che, nato in Grecia, viene usato in altri Stati come Armenia, Colombia, Germania, fino ai Paesi Arabi.
In Italia il virus-spia Graphite (creato dalla società israeliana Paragon) è stato trovato nel cellulare di Ciro Pellegrino. E si sospetta che lo stesso software sia stato iniettato anche nel cellulare del suo direttore Francesco Cancellato. Il governo di Giorgia Meloni, in questi casi, ha respinto ogni responsabilità: non è opera dei Servizi segreti, dicono. Eppure, nonostante richieste da più parti, nessun altro chiarimento è stato fornito. Per il governo, alla stampa deve bastare questa spiegazione.
(da ilfattoquotidiano.it)

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