Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
IL PASSAGGIO INTEGRALE È MOLTO INQUIETANTE: “DOVREMMO SOSTENERE PARTITI, MOVIMENTI E FIGURE INTELLETTUALI E CULTURALI CHE CERCANO LA SOVRANITÀ E LA CONSERVAZIONE/RIPRISTINO DEI MODI DI VITA TRADIZIONALI EUROPEI PUR RIMANENDO FILO-AMERICANI”
‘Collaborare maggiormente’ con Austria, Ungheria, Italia e Polonia ‘con l’obiettivo di
allontanarli dall’Unione Europea’: è uno dei passaggi di una versione più estesa, circolata prima di quella ufficiale della Casa Bianca, del documento di Strategia di Sicurezza Nazionale (Nss) Usa esaminata da Defense One, sito Usa specializzato nel settore difesa/sicurezza americana.
Mentre la Nss resa pubblica venerdì scorso dalla Casa Bianca chiede la fine di una ‘Nato in continua espansione’, la versione più ampia che circolava prima entra più nel dettaglio su come l’amministrazione Trump vorrebbe ‘rendere l’Europa di nuovo grande’, pur invitando i membri europei della Nato a rendersi autonomi dal supporto militare americano.
Partendo dal presupposto che l’Europa sta affrontando una ‘estinzione di civiltà’ a causa delle sue politiche sull’immigrazione e della ‘censura della libertà di parola’, la Nss – scrive Defense One – propone di concentrare le relazioni statunitensi con i Paesi europei con governi e movimenti simili all’America di Trump, quindi presumibilmente di destra. Austria, Ungheria, Italia e Polonia sono elencati dalla ricostruzione di Defense One come Paesi con cui gli Stati Uniti dovrebbero ‘collaborare maggiormente, con l’obiettivo di allontanarli dall’Unione Europea’.
‘E dovremmo sostenere partiti, movimenti e figure intellettuali e culturali che cercano la sovranità e la conservazione/ripristino dei modi di vita tradizionali europei pur rimanendo filo-americani’, affermava il documento, secondo la testata.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
MA I COSTITUZIONALISTI RITENGONO CHE NON SI POSSA INDIRE PRIMA DELLA FINE DEL MESE DI MARZO (“CINQUANTA GIORNI DOPO IL PRIMO FEBBRAIO”) … CACCIA AI TESTIMONIAL: BACHELET E BINDI IN CAMPO PER IL NO, DI PIETRO E SALLUSTI TRA I NOMI ALLA GUIDA DEI GRUPPI PER IL SÌ
Due grandi comitati del No, per il momento. Piccole strutture sparse in tutta Italia. E ancora: almeno sei gruppi per promuovere il Sì. La caccia ai testimonial, i numeri dei sondaggi che girano sulle scrivanie dei comitati ma anche su quelle dei partiti che stanno scegliendo se, e soprattutto come, schierarsi.
E, infine – ma non per ultima – una battaglia silenziosa sulla data del referendum, con il governo che vorrebbe anticipare il voto ai primi di marzo, in modo da rendere il più veloce possibile la
campagna referendaria ed evitare una rimonta che i sondaggi definiscono assolutamente possibile. E i costituzionalisti che invece ritengono che non si possa indire prima della fine del mese: «Cinquanta giorni dopo il primo febbraio», dice il presidente del primo comitato del No, Enrico Grosso.
La battaglia referendaria sta per entrare nel vivo. E, giorno dopo giorno, si definiscono le squadre.
Ieri è nato ufficialmente un nuovo comitato del No: il presidente sarà Giovanni Bachelet, fisico, ex parlamentare, figlio di Vittorio, il giurista assassinato dalle Brigate rosse nel 1980. Bachelet è stato indicato dalla rete dell’associazionismo della Via Maestra: un comitato civico che va dai sindacati alle associazioni ambientaliste, dai gruppi per i diritti civili alle realtà cattoliche sociali.
Cgil come capofila, e poi Libera, Arci, Acli, Greenpeace, Wwf, Libertà e Giustizia: alcune delle oltre cento sigle che si sono ritrovate attorno alla difesa della Costituzione. Ci saranno anche ex magistrati e politici. Uno dei volti sarà per esempio quello dell’ex ministra Rosy Bindi, a conferma di quel «movimentismo» che mette insieme esperienze sociali e partiti. Che però stanno valutando di formare un altro comitato per spiegare – racconta una fonte del Partito democratico – «quanto quello della giustizia sia soltanto un inganno per nascondere in realtà un progetto politico più ampio: l’assalto alla Costituzione».
Questo nuovo «No sociale» si affianca al No istituzionale, quello dell’Associazione nazionale magistrati, che resta il primo comitato formalmente costituito contro la riforma. Il presidente è il professor Enrico Grosso: un fronte che parla con il linguaggio
della Costituzione, che rivendica autonomia e indipendenza, che contesta una riforma giudicata frettolosa e costruita senza reale confronto.
Contemporaneamente si sta muovendo il Sì, con una maggiore caratterizzazione politica. Ci sarà un maxi comitato con i partiti della maggioranza. E poi ci sono i tecnici: il cuore resta quello delle Camere penali. Poi c’è il comitato guidato dall’avvocato Gian Domenico Caiazza («Sì Separa»). E ancora il comitato Giuliano Vassalli o «Cittadini per il Sì», presieduto da Francesca Scopelliti, l’ultima compagna di Enzo Tortora. Anche il Sì è alla ricerca di testimonial: c’è Antonio Di Pietro, ma in questi giorni è circolato anche il nome del giornalista Alessandro Sallusti.
(da la Repubblica” )
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
LA DUCETTA DEL COLLE OPPIO CONTINUA A TENERE IL PIEDE IN DUE STAFFE: RIMANE AGGANCIATA AL TRENO UE NELLA DIFESA DI KIEV, MA È RESTIA A PRENDERE LE DISTANZE DA TRUMP
Il ministro degli Affari esteri ucraino lo chiama «pacchetto deterrenza». Contiene, tra
le altre cose, l’idea di fabbricare droni insieme, Ucraina e Italia, al limite delocalizzando sul nostro territorio.
«È tra gli argomenti di cui Zelensky ha discusso con Meloni», spiega Andriy Sybiha, capo della diplomazia di Kiev, venuto a Roma insieme col presidente.
In cosa consiste, esattamente?
«Misure per rafforzare l’esercito ucraino e renderci più autosufficienti, aumentando anche la nostra produzione di droni. Al momento produciamo il 40% del fabbisogno, l’obiettivo è arrivare al 50% nel futuro prossimo».
Sui droni state discutendo di una collaborazione con Leonardo?
«Sì, siamo pronti a coprodurre, condividendo esperienza e tecnologie con l’Italia»
Cosa può fare l’Italia per aiutarvi a raggiungere un accordo di pace?
«Sostenere le garanzie di sicurezza, soprattutto l’idea della vostra premier di sviluppare un meccanismo di protezione che parta dall’articolo 5 della Nato. Ma deve essere legalmente vincolante».
Qual è la soluzione che proponete per le garanzie?
«Presenza militare degli alleati europei con il supporto organizzativo degli Stati Uniti e adesione all’Ue. È ciò che chiede almeno il 65% della nostra gente, abbiamo bisogno di chiarezza dai nostri partner».
State chiedendo altri aiuti militari all’Italia?
«Prima di tutto, voglio ringraziare ogni famiglia italiana per il sostegno dato dall’inizio della guerra. Sugli aiuti abbiamo quattro priorità. La prima sono i sistemi di difesa aerea, Samp-T e Patriot. La Russia usa la migrazione come arma: con ogni attacco massiccio cerca di spingere la nostra gente a lasciare il Paese, per minare morale ed economia. Quanto migliore sarà la nostra difesa aerea, tanto più forti saranno entrambi».
La seconda?
«Capacità a lungo raggio»
L’Italia può davvero fornirla?
«Sì».
E cosa?
«Sono argomenti sensibili. Posso però dire che avete il potenziale e che fornircelo contribuirà anche alla vostra sicurezza. La Russia deve sperimentare le conseguenze della guerra sul proprio territorio: se loro attaccano le nostre
infrastrutture energetiche, noi attacchiamo loro».
Le altre priorità?
«Il pacchetto deterrenza».
State chiedendo a Meloni di inviare truppe italiane come garanzia?
«Vogliamo capire quale contributo ogni Paese possa fornire nel sistema di garanzie […]. In ogni caso avremo bisogno di truppe sul terreno e in tal senso e abbiamo già avuto conferme della disponibilità di diversi Paesi».
Non dell’Italia, però.
«Ogni Paese ha il suo potenziale».
Ci sono partiti come la Lega che non intendono mandarvi altri aiuti militari.
«Sì, lo sappiamo, stiamo seguendo da vicino. Ovviamente, ogni politico ha una base di elettori a cui deve rispondere. Il nostro interesse è di chiudere questa guerra, fermare l’aggressione russa e creare una nuova architettura di sicurezza in Europa».
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
ENTRIAMO IN UN CLUB CHE GIÀ COMPRENDE IL PASTO GASTRONOMICO DEI FRANCESI (INSERITO NEL 2010), LA CUCINA TRADIZIONALE MESSICANA (SEMPRE NEL 2010), LA PRATICA COREANA DI PREPARARE E CONDIVIDERE IL KIMCHI E LA CUCINA TRADIZIONALE GIAPPONESE
La Cucina Italiana ha ottenuto oggi il riconoscimento dell’Unesco. Adesso fa parte dei Patrimoni Immateriali dell’Umanità, lista di 788 tradizioni viventi, fra cui vantiamo già la Dieta Mediterranea e l’Arte del Pizzaiolo Napoletano. T
utto è avvenuto nel giro di pochi minuti a New Delhi, dove era riunito il Comitato Intergovernativo, che doveva sciogliere le riserve sul lungo iter intrapreso.
Entriamo così in un club che già comprende il pasto gastronomico dei francesi (2010), la cucina tradizionale messicana (ancora 2010), la pratica coreana di preparare e condividere il kimchi (2013) e la cucina tradizionale giapponese (ancora 2013).
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE SI È ACCORTO CHE NEGLI USA L’INFLAZIONE GALOPPA E, PER QUESTO, SPERA CHE LA FED TAGLI I TASSI… SOLO 36% APPROVA LA POLITICA ECONOMICA DI TRUMP
Trump ha capito che la sua promessa della nuova età dell’oro non si sta realizzando, o
quanto meno gli americani non l’avvertono nei portafogli, perché il costo della vita e l’affordability mordono più dei suoi slogan. Siccome questo
problema è costato ai repubblicani la sconfitta nelle elezioni dello scorso novembre, e rischia di fargli perdere la maggioranza al Congresso nelle midterm del prossimo anno, ha deciso di correre ai ripari.
Lo ha fatto spingendo la Federal Reserve a tagliare i tassi, sperando che continui a ridurli nella riunione di oggi, e con una strategia della comunicazione sul campo negli stati chiave, iniziata col comizio di ieri sera a Mount Pocono, Pennsylvania. L’obiettivo è dimostrare agli americani che non sottovaluta il loro disagio, ma allo stesso tempo rivendicare i propri risultati, che secondo lui hanno reso gli Usa «il paese più caldo e ricco al mondo».
L’errore maggiore commesso da Joe Biden era stato ignorare l’impennata dell’inflazione, aiutata dai suoi sussidi eccessivi, facendo finta che non esistesse. I prezzi però erano saliti, gli americani se ne accorgevano al supermercato, e quindi lo hanno punito alle urne.
Trump finora lo aveva imitato, sostenendo che il problema dell’affordability, ossia la sostenibilità economica della vita negli Usa, era «un imbroglio inventato dai democratici». Non è così, come hanno dimostrato la vittoria di Mamdani nelle elezioni per sindaco di New York, e le democratiche Spanberger e Sherrill, diventate governatrici di Virginia e New Jersey.
È vero infatti che i fondamentali non sono poi così cattivi, la crescita tiene e la disoccupazione non esplode, ma l’inflazione resta presente e l’abbattimento dei prezzi promesso da Trump in campagna elettorale non si è avverato. Anzi, semmai sono continuati a salire, irritando gli elettori, se è vero l’ultimo
sondaggio della Gallup secondo cui solo il 36% degli americani approva la politica economica del presidente.
Lo dimostrano i sussidi da 12 miliardi di dollari per gli agricoltori annunciati lunedì. È un provvedimento poco ortodosso per un partito come quello repubblicano, dove lasciar fare il mercato è da sempre dogma indiscutibile. Il problema però è che le tariffe hanno messo in ginocchio i contadini, in particolare perché la Cina ha smesso di comprare la loro soia.
Davanti al rischio di un’ondata di bancarotte tra gli agricoltori che lo avevano votato a occhi chiusi nel Midwest, Trump ha ripiegato sul rimedio di dare loro un po’ di soldi raccolti con i dazi. È un cane che si morde la coda, perché da una parte lo stato incassa grazie alle tariffe, ma dall’altra deve poi elargire questi soldi sotto forma di sussidi, per compensare i danni provocati dalle tariffe stesse.
A questo si aggiunge il fatto che il capo della Casa Bianca ha deciso di scommettere la sua presidenza sui benefici dell’intelligenza artificiale, come conferma l’autorizzazione appena data a Nvidia per vendere i suoi chip in Cina. La base Maga però non è contenta di essere scavalcata dagli oligarchi della Silicon Valley e perciò Trump deve trovare il modo di placarla.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
“IL TEMA DELL’EGEMONIA CULTURALE È UNA PALLA MICIDIALE: LA CULTURA DI DESTRA ANCORA NON È CHIARO A NESSUNO COSA SIA, A TAL PUNTO CHE RAPPRESENTA PURE QUELLA DI SINISTRA CHE NON C’È PIU’…” (MA CHE VOR DI’?) – “L’EGEMONIA DELLA DESTRA DI GOVERNO PASSERA’ ATTRAVERSO L’IRONIA” (COME AL BAGAGLINO)
La nuova egemonia della destra di governo passerà attraverso l’ironia, la vera arma tagliente in grado davvero, e da sempre, di azzerare il nemico. “Non siamo quelli dell’amichettismo, ma chi ci accusa fa parte del nemichettismo, che stasera coniamo come termine da cucire addosso a tutti quelli che ci accusano di fare cultura liberamente” dice Alessandro Giuli, arrivato ad Atreju per partecipare ad un dibattito organizzato per fare quantomeno scalpore: Pasolini e Mishima, due simboli del Novecento, due poeti da sempre considerati icona di una cultura riconducibile ad opposte sponde politiche.
Ma tra Pier Paolo Pasolini e Yukio Mishima “ci sono molti più punti in comune di quanto si possa immaginare” esordisce il ministro della Cultura che, oltre alla “maschera tragica” e alla “poetica del gesto esemplare” incarnata dai due poeti sottolinea quanto entrambi abbiano “praticato nella scrittura la più grande libertà”. Insomma, di fronte alle accuse nei confronti di chi intende praticare ancora il gioco degli steccati culturali e “se proprio dobbiamo trovare un aggettivo, ironico o autoironico è quello che definisce meglio colui che è aperto alla vita e al confronto e non è un lugubre nemichettista: nemico giurato della bellezza”.
E se poi l’ironia non dovesse bastare a vincere il nemico, allora, c’è sempre la tradizione popolare che corre in aiuto: “Agli attacchi della sinistra rispondiamo con un detto arabo: i cani abbaiano, la carovana passa” sintetizza il ministro che dopo il dibattito su Pasolini e Mishima con la ministra della Famiglia Eugenia Roccella e con il presidente della Commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone, si concede un passaggio alla radio di Atreju dove, tra l’altro, torna ad intonare “Albachiara” di Vasco Rossi
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
BENVENUTI NEL MODELLO FOGNA CHE PIACE TANTO A MELONI E SALVINI… E POI SENZA PROVE ROMPONO I COGLIONI A ILARIA SALIS
In Ungheria si è aperto un caso che sta scuotendo profondamente l’Unione Europea,
sollevando interrogativi inquietanti sul rispetto dei diritti fondamentali.
Al centro della storia c’è Géza Buzás-Hábel, attivista rom e membro della comunità LGBTQ+, oggi sotto inchiesta per aver organizzato il Pride di Pécs, una marcia pacifica che quest’anno ha attirato fino a ottomila persone, nonostante il divieto imposto dalle autorità locali.
Il governo di Viktor Orbán, già in primavera, aveva approvato una legge che vieta esplicitamente le manifestazioni Pride e che autorizza addirittura l’uso del riconoscimento facciale per identificare e multare i partecipanti; Amnesty International aveva definito già allora quella legge una “aggressione frontale” alla comunità LGBTQ+.
Le piazze però non si sono fermate: prima a Budapest, trasformando l’evento in una manifestazione culturale municipale, poi proprio a Pécs, dove tra i partecipanti hanno sfilato anche alcuni eurodeputati.
La scelta inevitabile
Per Buzás-Hábel, che è anche cofondatore della Diverse Youth Network, l’organizzazione che cura la marcia, scendere in strada non era una decisione, ma una necessità. “La libertà di riunirsi è un diritto fondamentale”, afferma. “Se rinunciamo qui, dove potremo farlo?”.
Pochi giorni dopo, la risposta delle autorità è stata immediata. Buzás-Hábel è stato convocato dalla polizia, e la procura sta valutando accuse che vanno dall’organizzazione di una manifestazione vietata fino a tre anni di reclusione, anche se con sospensione. Le conseguenze sono già state devastanti: dopo quasi dieci anni di insegnamento, l’attivista è stato licenziato dalla scuola pubblica in cui insegnava lingua e cultura rom, e anche dal centro musicale dove lavorava come mentore. In caso di condanna, potrebbe perdere definitivamente il diritto di insegnare.
Un precedente inquietante
Quattro organizzazioni per i diritti umani ungheresi hanno sottolineato come si tratti del primo caso noto nell’Unione Europea in cui un difensore dei diritti finisca sotto procedimento penale per aver organizzato un Pride, un precedente finora visto solo in Russia o in Turchia. La European Roma Rights Centre e la rete europea dei Pride denunciano un “salto di qualità” nella
repressione in Ungheria. Secondo gli attivisti e le attiviste, il messaggio è insomma profondamente chiaro: colpire non solo un singolo individuo, ma lanciare un segnale intimidatorio a chiunque voglia difendere la libertà di espressione e la tutela delle minoranze. Buzás-Hábel stesso lo conferma al Guardian: “Io sono solo un pretesto. L’obiettivo è spaventare chi mi sta intorno, scoraggiare un’intera comunità”.
Una voce a Bruxelles
Nonostante la pressione e la perdita del lavoro, Buzás-Hábel ha scelto di non restare in silenzio. Nei giorni scorsi è infatti volato a Bruxelles per partecipare a un evento europeo dedicato ai giovani rom e per incontrare i decisori europei interessati al suo caso: “Organizzerei tutto di nuovo. E lo farò anche il prossimo anno”, ha detto. “La libertà ha un prezzo alto, ma quello che non potrei mai accettare è restare in silenzio”. La domanda che guida il suo impegno è ora semplice e diretta: l’Unione Europea è pronta a difendere davvero i valori che proclama?
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
I CASI DEL SAN RAFFAELE DI MILANO E DEL SANT’EUGENIO DI ROMA LO DIMOSTRANO
Due indizi fanno una prova. Al San Raffaele di Milano il ceo dell’ospedale si è dimesso dopo che l’affidamento del reparto di medicina intensiva a una cooperativa esterna di infermieri aveva generato disastri a catena, da farmaci scambiati ad altri somministrati in dosi dieci volte superiori al normale.
Nelle stesse ore, al Sant’Eugenio di Roma, è stato arrestato in flagranza di reato il primario di nefrologia Roberto Palumbo, che in cambio di tangenti indirizzava i pazienti dimessi ma ancora bisognosi di terapia, ad alcune strutture private per l’emodialisi.Possono sembrare due casi isolati, due mosche bianche, ma non lo sono.
Primo: perché parliamo di due realtà che fino a qualche giorno fa avremmo definito “eccellenze” della sanità italiana: il fiore all’occhiello della sanità privata lombarda e il super luminare
romano. Se queste sono le eccellenze, figuratevi il resto.
Secondo: perché il caso del San Raffaele scoperchia la ormai endemica carenza di personale medico e infermieristico, che – nel migliore dei casi – costringe gli ospedali ad affidarsi a cooperative con personale del tutto inadeguato al ruolo. Negli ultimi vent’anni, il sistema sanitario italiano ha perso 180mila addetti, tra medici e infermieri, tanto per dare due numeri.
Terzo: perché Il caso del Sant’Eugenio, invece, ci racconta in modo didascalico il rapporto malsano tra pubblico e privato, che sovente genera una sanità che è pubblica e universale solo in teoria, ma che in pratica è a misura dei ricchi, di chi ha la fortuna di avere un’assicurazione sanitaria. Per tutti gli altri, liste d’attesa infinite, fino a che non rinunciano a curarsi: sei milioni di persone solo nell’ultimo anno, ci dice impietosamente l’Istat.
Quarto: perché mentre gli italiani smettono di curarsi e la sanità pubblica viene regolarmente definanziata, i profitti della sanità privata sono in crescita costante, trainati proprio dalla crescente spesa dei cittadini – superiore ai 40 miliardi nel 2023- la cui causa è da ricercare proprio nelle infinite liste d’attesa.
Quinto: perché di fronte a tutto questo, e dopo una pandemia, è surreale che la sanità non sia in cima ai pensieri di chi ci governa, scavalcata costantemente da finte emergenze come i rave, i maranza, gli ambientalisti che imbrattano i monumenti, l’ideologia gender. Delle due, una: o sono completamente scollegati dalla realtà, oppure stanno deliberatamente nascondendo il problema, a beneficio dei re della sanità privata che siedono con loro in parlamento e controllano i giornali che li aiutano a fare propaganda. Quale delle due, secondo voi?
(da Fanpage)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
L’ANALISI DEL FILOSOFO MAURO CERUTI: “TRA SOVRANISMI, CRISI GLOBALI E POTENZE OSTILI, SOLO UNA UE PIU’ INTEGRATA PUO’ EVITARE UNA DERIVA IMPERIALE”
La “paura della libertà” negli anni Trenta del secolo scorso rischiò di portare alla
nazificazione dell’Europa. Oggi c’è la “paura della complessità”. La esprimono i sovranismi e l’inedito asse Usa-Russia. Minaccia non solo il progetto europeo, minaccia l’umanità. La complessità del mondo moderno è
segnata dall’imprevisto: pandemie, catastrofi climatiche. Ogni risposta che guarda al passato è inefficace. Anzi, devastante.
Lo sostiene Mauro Ceruti, filosofo e teorico del pensiero complesso. Non c’è alternativa a una comunità internazionale legata da impegni multilaterali. Una Cosmopolis, una comunità di destino mondiale. È l’unico modo per affrontare la modernità. La politica di potenza di Russia e Stati Uniti va in senso contrario.
Un esempio: l’unico organismo davvero in grado di far pagare le tasse alle multinazionali e regolamentare la rivoluzione digitale è l’Ue. Che è un organizzazione multilaterale e anche un’istituzione con poteri sovranazionali. L’ultima sanzione al social network di Elon Musk, X, è stata tutto sommato timida. Ma ha fatto perder le staffe allo stesso Musk e a Donald Trump. Solo un’organizzazione multilaterale può imporre regole alle Big Tech, aziende più ricche di molti Stati, e ai loro irascibili padroni.
Interpretando il pensiero di Ceruti: la modernità non prescinde dalle regole. Deve essere uno sviluppo che crea valore senza sprechi, attento al cambiamento climatico e alla transizione energetica. Russia e Stati Uniti restano i maggiori produttori di idrocarburi. Siamo ancora agli imperialismi petroliferi. La modernità è altro. La “potenza tranquilla” dell’Unione Europea, superando le sue contraddizioni, potrebbe farne parte. Esserne il fulcro, forse.
Mauro Ceruti è autore con Edgar Morin del recente saggio La nostra Europa (Raffaello Cortina, 2025). Fanpage.it lo ha intervistato
Professor Ceruti, torna a contare solo la potenza, in politica internazionale?
“Questo primo quarto di secolo si compie con il ritorno della logica della guerra per dirimere i rapporti fra le nazioni. La potenza e la forza sono tornate ad essere gli unici criteri regolatori dell’ordine economico e geopolitico. E la pace è intesa quale esito appunto della potenza, della forza e della guerra.
La “barca” europea si trova oggi a fluttuare in un mondo dove risorgono pulsioni autoritarie e imperiali. Imperialismi complici o antagonisti minacciano l’Europa dall’esterno. Demagogismi illiberali, xenofobia e fanatismi nazionalisti la minacciano dall’interno, con concreti rischi di disgregazione e di decivilizzazione”.
L’America di Donald Trump e la Russia di Vladimir Putin ritengono che l’Unione Europea e il multilateralismo siano un impiccio. Tra le accuse: troppe regole e mancanza di realismo. Molti sono d’accordo anche in Europa. Che meriti può contrapporre, l’Ue?
“La solidarietà di interessi tra Usa e Russia mette “sotto assedio” l’esperimento multinazionale e multiculturale. Di fronte al pericolo di regressione, si deve ricordare che il progetto dell’Unione Europea ha voluto superare le due malattie che avevano ridotto l’Europa in macerie: la purificazione etnica e la sacralizzazione dei confini.
È bene ricordare che, dal secondo Dopoguerra, la complessità è stato il progetto intenzionale della nostra Europa: il suo progetto di convivenza, contrapposto al semplicismo brutale e omologante dello spirito totalitario, imperiale e autocratico”.
Nei suoi scritti lei parla della necessità di una “comunità cosmopolitica”. Ma ormai lo slogan è “ognuno per sé”. Non è che la sua sia una pia illusione?
“Le spinte alla deglobalizzazione, al sovranismo e alla frammentazione sono controbilanciate dal processo contrario inaugurato cinque secoli fa con il viaggio di Cristoforo Colombo. Il processo di planetarizzazione è irreversibile. È una tappa evolutiva della specie umana. Se la coscienza e la politica internazionale lo ignorano, siamo nei guai. Perché i problemi e le gigantesche sfide che abbiamo di fronte hanno una dimensione planetaria, transnazionale. Non possono essere affrontati dai singoli Stati. Nemmeno da quelli che hanno dimensioni demografiche, geografiche, militari o economiche da “potenze imperiali””.
E quindi, che dovrebbero fare gli Stati?
“Dovrebbero cooperare. Le tante crisi accumulate non sono separabili tra loro. Sono intrecciate in una “policrisi” che riguarda tutti. Quindi, siamo “obbligati” alla cooperazione internazionale. Necessità ed etica collimano. Ma la convergenza di Usa e Russia può creare un ordine precario e pericoloso, un nuovo nomos della terra, per riprendere l’espressione di Carl Schmitt (1888-1985 giurista, filosofo e politologo tedesco che aderì al nazismo, ndr)”.
Sarebbe simile alla “deriva imperiale dei continenti” di cui lei parla nel saggio Umanizzare la modernità, scritto con Francesco Bellusci?
“Proprio così”.
La teoria del nomos si ricollega all’idea nazista di “spazio
vitale”. Ma in Schmitt c’è molto di più: enfasi sulla sovranità e sul decisionismo extra-giuridico; approccio amico-nemico nelle relazioni internazionali; critica al liberalismo e al costituzionalismo democratico. Idee tornate d’attualità. Proprio perché il mondo è complesso, non è che un sano realismo sovranista e “realista” in politica internazionale funzioni meglio?
“Sarebbe la risposta dell’impero. Una risposta sbagliata all’attuale complessità del mondo. Una tragica, lacerante e brutale riproposizione del paradigma moderno della semplificazione. La nazione ha ancora un senso nel destino degli uomini, aiuta anche a non rinchiudersi in appartenenze più “tribali” o settarie, ma è anch’essa una risposta limitata, fragile, se si nutre solo del suo mito romantico. I confini nazionali non sono più garanzia di sicurezza, non solo dalle pandemie o dagli effetti negativi del cambiamento climatico, ma anche dalle minacce esterne alla pace interna. Se l’Europa si illude di trovare sicurezza chiudendosi a “fortezza”, con una politica di irrigidimento dei confini (esterni e interni) allora, sì. troverà in questa miopia le premesse di una sua autodistruzione”.
Esponenti dell’estrema destra internazionale come Steve Bannon, uomo vicino all’amministrazione Trump, tornano a parlare di scontro di civiltà, di guerra tra popoli giudaico-cristiani e forze della barbarie. Al netto di retorica e propaganda, il rischio è reale?
“Non c’è uno scontro tra civiltà. C’è una crisi di civiltà, perché non riusciamo a varcare la soglia “complessa” verso una civiltà planetaria. Tra il 1939 e il 1940, Carlo Levi esaminò la crisi cha avvicinava l’incubo della nazificazione dell’Europa in un libro
dal titolo Paura della libertà. Ecco, oggi a proposito della nostra crisi di civiltà parlerei di “paura della complessità””.
La “paura della complessità” sta distruggendo l’Unione Europea ?
“Se l’Europa vuole salvarsi deve tornare a scommettere sulla prospettiva federalista o quantomeno di una maggiore integrazione politica. La sincronia anti-europea tra Mosca e Washington, insieme all’ondata sovranista e nazionalpopulista che attraversa anche le nostre società, mina le democrazie e rischia di far arretrare o congelare il progetto di un’Europa unita. Ma ci sono ancora le risorse e le energie per rilanciarlo. Rafforzando politica energetica comune, difesa comune e allargamento ad Est, in risposta al neoisolazionismo americano, alle minacce della Russia putiniana o alla “deriva imperiale dei continenti””.
L’Ue limita l’onnipotenza delle multinazionali e cerca di regolamentare sviluppi come la rivoluzione digitale. Basterà a garantire un minimo di eticità, con la spinta alla deregolamentazione che arriva da oltreoceano?
“Per affermare un’etica e una regolamentazione planetarie occorrono organismi sovranazionali. “Umanizzare la modernità” è l’invito a cambiare paradigma, a pensare che la realtà politica elementare del mondo non è più lo Stato-nazione, ma l’umanità intera ormai accomunata da uno stesso destino, dagli stessi problemi di vita e di morte, prodotti dalla inedita possibilità di autosoppressione con l’arma nucleare e con l’impatto umano sul clima e sulla biosfera. La sfida della complessità è la scommessa della Cosmopolis, della paziente costruzione della comunità di
destino mondiale, una e molteplice, dove l’universalismo che ne deriva non oppone la diversità all’identità, l’unità alla molteplicità”.
(da Fanpage)
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