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MA QUALE COMUNISMO: LA CINA È SEMPRE STATA TURBO GLOBALISTA. NEL X SECOLO, IL DRAGONE ESPORTAVA CERAMICHE DI LUSSO E MANIFATTURA IN TUTTO IL MONDO. EPPURE IL RAPPORTO DEI CINESI CON IL MARE FINO AD ALLORA ERA STATO PRATICAMENTE NULLO

POI, TRA IL X E IL XIII SECOLO, PER VIA DI UN ENORME BALZO DEMOGRAFICO E DI UN INCREMENTO DELLA PRODUZIONE AGRICOLA E MINERARIA, LE ROTTE TERRESTRI NON BASTARONO PIÙ. E COSÌ I CINESI INIZIARONO AD ALLARGARSI

Forse davvero fu una specie di globalizzazione. Attorno al X secolo, i cinesi avevano con i paesi stranieri i legami commerciali più fitti di qualunque altro popolo del pianeta.
La Cina esportava ceramiche di lusso e altre manifatture in mezzo mondo, a beneficio dei suoi acquirenti nel Medio Oriente, in Africa, in India e nel Sud-Est asiatico. E in tutte queste zone c’erano a loro volta fornitori che assicuravano le merci ai consumatori cinesi.
I contatti internazionali della Cina erano così estesi da influire sulla popolazione a tutti i livelli sociali, non soltanto sugli abitanti delle città portuali ma anche su quanti vivevano nell’entroterra, molto distanti dal mare.
Ed era in fondo la prima volta che la storia marittima della Cina prendeva quella scala smisurata. Per secoli, anzi per millenni, il suo rapporto con il mare era stato una cosa più modesta. Tutto era probabilmente cominciato dai fiumi. Imbarcazioni fatte per risalire le grandi arterie d’acqua che innervavano quella immensa regione del mondo.
Ma dai fiumi al mare la via fu breve. Sappiamo che già tra il 6000 e il 2000 a.C., a Guangzhou, quella che conosciamo oggi in Occidente come Canton, le canoe scavate erano usate anche per avventurarsi in mare aperto. Ma è difficile dire molto più di così.
Quello che sembra dai ritrovamenti archeologici è che per secoli e secoli la popolazione costiera avrebbe continuato a usare solo semplici mezzi capaci di galleggiare lungo le acque più vicine a riva.
Anche i testi scritti non dicono molto di più: forse la prima nave degna di menzione è quella citata nel Zhushu jinian, gli Annali su bambù, quando parla di un grosso pesce catturato nelle acque costiere e sacrificato a Huangdi…
Si era attorno al IV secolo a.C., all’epoca detta degli Stati combattenti, e a quanto pare non si trattava propriamente di popoli del mare… Anzi, forse fu solo allora che iniziarono a usare le vele, quelle che in cinese si chiamano fan.
E fu sempre nello stesso periodo che iniziarono a usare navi da guerra e a combattere sul mare. Sappiamo di una battaglia, avvenuta verso il 485 a.C., quando Fuchai, re di Wu, inviò una flotta dal Sud e sconfisse la marina del regno di Qi, nel Nord. E sappiamo pure che pochi anni dopo il regno di Yue nel Sud attaccò Wu dal mare sconfiggendolo.
Tutte avventure di cabotaggio, scontri avvenuti vicino a riva, ma il segno che i vari regni cinesi cominciavano a dare una diversa e nuova importanza al mare. Anche se ci vollero alcuni secoli perché cominciassero a osare un po’ di più. Nel 109 a.C. l’imperatore Han Wudi inviò una flotta con cinquemila soldati da Shandong verso la Corea. Poi fu la volta del Giappone.
Anzi per la verità il contatto sembra essere avvenuto a parti inverse: la prima testimonianza scritta in cui si menziona il paese di Wo, il Giappone appunto, risale all’anno 57 d.C. e parla di un ambasciatore proveniente da quelle isole che avrebbe reso omaggio alla corte cinese, riportandosene a casa un sigillo d’oro.
Ne venne fuori un lungo periodo di scambi diplomatici e commerciali: i giapponesi inviavano tessuti, legno di sapan, archi, frecce, schiavi e perle bianche; i cinesi, dal canto loro, mandavano seta, oggetti d’oro, perle, piombo, cinabro e soprattutto specchi di bronzo, tra gli oggetti più ricercati dell’epoca. Anche qui, come sulle strade di terra della via della seta, commercio voleva dire un crescente via vai di monaci buddhisti e un infittirsi degli scambi culturali.
Tali contatti tra Cina e Giappone furono mantenuti per lungo
tempo via Corea: era più facile navigare sfruttando la relativa vicinanza dell’isola, piuttosto che affrontare il mare aperto. L’influenza della civiltà cinese lascio segni di vasta portata nel mondo giapponese, a quel tempo ancora relativamente primitivo; e non solo sul piano culturale, ma anche politico e sociale.
Fu soprattutto a partire dalla dinastia Song, tra il X e il XIII secolo, che le cose cambiarono radicalmente. Un enorme balzo demografico, un grande incremento della produzione agricola e di quella mineraria; e infine il notevole aumento della produzione, con conseguente aumento del volume di scambi e delle reti di distribuzione.
Le rotte terrestri non bastarono più, insufficienti per gestire da sole la grande quantità di beni che ora venivano smerciati; era un problema di quantità e anche di peso e mole delle mercanzie.
Molti prodotti esportati dai Song, infatti, erano troppo pesanti per essere trasportati da cammelli e cavalli. Vasellami e piatti di porcellana, ad esempio, dovevano essere protetti e impacchettati in casse di legno per evitare che si rompessero.
E sebbene queste merci non fossero di per sé pesanti e ingombranti, lo diventavano una volta impacchettate per la spedizione.
Naturale, quindi, che simili trasformazioni incentivassero notevolmente la cantieristica navale:
Furono quelli i tempi in cui il commercio con le isole della Sonda e l’Oceano Indiano cominciò a crescere sempre di più.
Furono i tempi di quella sorta di globalizzazione che attraversò l’Asia più orientale. Anche per questo, crebbe a dismisura l’importanza dei porti cinesi meridionali. Oltre a Quanzhou, uno dei principali snodi commerciali divenne Guangzhou, a volte chiamata Canton, che si trova poco a nord di Hong Kong, sulla costa sud-orientale del paese
Da Guangzhou le navi partivano in direzione sud lungo la costa del Vietnam e poi attraverso lo stretto di Malacca. Da lì facevano rotta verso ovest, raggiungevano la costa occidentale dell’India e procedevano verso la penisola arabica.
In ciascun porto c’era un funzionario, il sovrintendente al commercio marittimo, incaricato di sorvegliare tutti i mercanti stranieri che arrivavano nel porto e di rilasciare licenze ai mercanti cinesi che facevano rotta verso paesi stranieri.
E normalmente, dove vi sono grandi possibilità di guadagno, finisce per affermarsi una volontà di controllo politico e militare. Fu soprattutto la dinastia Yuan, la dinastia mongola che prese il potere nel XIII secolo (quella per intenderci che ospitò anche Marco Polo), che cercò di scalzare i mercanti privati e creare una sorta di monopolio del commercio: un progetto che la vide impegnata anche in grandi missioni diplomatiche, con l’invio di tributi e mercanzie sino in India.
E fu ancora la dinastia Yuan a spingersi in una delle rare spedizioni marittime militari della storia cinese. Il Giappone era ricco e in quei secoli era diventato anche sempre più potente. Scriveva un monaco buddhista giapponese di quel periodo che i mongoli erano sbigottiti dalla qualità delle armature e dall’eccellenza degli arcieri del Giappone: «Le nostre corazze fan tremare persino gli dèi
Una volta sotto il loro controllo, i guerrieri del Giappone saranno in grado di conquistare la Cina e l’India […] nessun paese potrebbe resistere. Ecco perché i mongoli vogliono sottomettere il Giappone».
Non era solo questo: c’erano anche i buoni rapporti che il Giappone aveva con la precedente dinastia imperiale cinese – quella che gli Yuan avevano cacciato -, c’erano in gioco grandi quantità di tributi e tanto altro ancora.
Fu così che nell’ottobre del 1274 navi cinesi e coreane apparvero
al largo delle coste giapponesi, verso la baia di Hakata: la via più breve e più diretta venendo dall’estremità sud della Corea.
Un contingente marittimo di novecento navi e quindicimila soldati fu scagliato contro il Giappone. I cronachisti della dinastia annotarono che i mongoli avevano vinto, ma scrissero pure che la scarsa disciplina e la mancanza di frecce avevano obbligato le loro armate a ritirarsi… che era un modo per riconoscere, pur con dovuta prudenza, la vittoria folgorante del Giappone.
Le fonti giapponesi sostennero dal canto loro che fu un «vento divino», un kamikaze, a scacciare gli invasori, ma alcune recenti ricerche archeologiche suggeriscono che i cinesi furono sconfitti per colpa del mediocre equipaggiamento e del cattivo stato di manutenzione delle loro navi.
Kublai continuò a inviare ambasciatori in Giappone, ma invano. Sei anni dopo, però, l’esecuzione capitale da parte dello shogun di alcuni inviati dell’imperatore portò a un secondo tentativo d’invasione. Ma anche in questo caso il risultato fu un disastro per i mongoli e un altro kamikaze per i giapponesi.
Nel 1286, Kublai annunciò che avrebbe temporaneamente messo da parte i suoi piani di conquista del Giappone, e ciò a causa della problematica situazione in cui versava il confine meridionale con il Dai Viet: «Il Giappone non ci ha mai invasi, mentre proprio in questo momento l’Annam sta sconfinando al di qua delle nostre frontiere.
Meglio dunque mettere da parte il Giappone e concentrare tutte le nostre forze sull’Annam» decise saggiamente Kublai. Volendo evitare di subire una terza sconfitta sul mare, scelse di far avanzare i suoi eserciti sulla terraferma.
Dopo la morte di Kublai, nel 1294, un ufficiale propose al successore Temür di provarci di nuovo. La risposta del nuovo imperatore fu enigmatica: «Ora non è il momento. Ci penseremo».
Il che voleva dire in pratica: non se ne fa nulla e non aspettatevi da me un’altra parola sulla questione. Alla fine dei conti, il mare dimostrava di poter essere più un problema che la soluzione.

(da la Repubblica”)

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