“ABBANDONATI DA CHI DOVEVA DIRIGERCI”; LA DENUNCIA DEI MEDICI DI MILANO
L’ORDINE DEI MEDICI HA RACCOLTO LE DRAMMATICHE TESTIMONIANZE DEI SUOI ISCRITTI
“Siamo stati abbandonati da chi doveva dirigerci”. Elena Vitali fa il medico di famiglia a Milano. Nel ripercorrere quei mesi terribili, che nessuno avrebbe immaginato, usa la parola “amarezza”. Non è l’unica: molti suoi colleghi, che come lei hanno deciso di sedere davanti a un foglio bianco e raccontare cosa hanno vissuto, usano quel termine. Insieme a “paura”, “angoscia”. Alcuni, “impotenza”.
Elena Vitali è una dei medici che, nelle scorse settimane, ha risposto all’appello lanciato dall’Ordine dei medici di Milano e ha inviato la sua testimonianza per raccontare cosa ha significato, per lei camice bianco, vivere sulla sua pelle e nella sua professione il Covid-19. Un’epidemia che sembrava lontana migliaia di chilometri, confinata in Cina, e che è arrivata qui e ha cambiato tutto. Il cui inizio per Michele Bandirali, radiologo che lavora a Codogno, primo epicentro del virus, non potrà mai essere cancellato: “Non dimenticherò quel giorno – scrive – come non ho dimenticato cosa stavo facendo l’11 settembre 2001”
Sono un racconto amaro e diretto, le testimonianze dei medici milanesi e lombardi. Che l’Ordine ha raccolto in un’edizione straordinaria del suo bollettino, “Informami”, dando vita a “un vero e proprio diario dalla trincea – spiega il presidente, Roberto Carlo Rossi – che contiene testimonianze dirette, ma anche polemiche spontanee sorte in merito alla gestione delle informazioni sul virus, per offrire un punto di vista inedito”.
Questi racconti, allora, riportano alla mente le sirene delle ambulanze, gli ospedali inaccessibili, le strade deserte, il silenzio del blocco totale. Le camionette dell’esercito a Bergamo, per potare via le bare dei morti.
Elena Vitali mette in fila tutto quello che a parer suo non è andato come doveva, in quei mesi terribili. Lei che quando è scoppiato tutto era dall’altra parte del mondo, in viaggio con il marito, e online ha cercato di comprare quelle mascherine che già erano introvabili.
“È mancato un piano della protezione civile, su epidemia o attacco terroristico biologico, che avrebbe dovuto avere i dpi per sanitari e altre figure chiave – si sfoga – e che avrebbe dovuto sapere come trasformare gli ospedali con entrate separate per renderli luoghi più sicuri, sapere che i colleghi ospedalieri non avrebbero dovuto essere rimandati in famiglia senza una diagnosi certa e nel frattempo tenerli in un dormitorio apposito, sapere che un familiare di possibile infetto esce per necessità , sapere che i pazienti sospetti dovrebbero essere isolati anche dalle loro famiglie in luoghi protetti”.
Stefania Acerno è una neurochirurga del San Raffaele: a inizio marzo dà la sua disponibilità per lavorare con i pazienti Covid, con lei in reparto “un ortopedico, un otorino, un urologo, un neurochirurgo”.
Fatica, stanchezza, paura: nelle sue parole ci sono tutte, insieme con il ricordo di quando durante la “prima notte di auto- esilio fuori casa, perchè non sono riuscita a convivere in pace con l’idea di far sopportare ai miei cari il peso delle mie scelte, ho pianto. A dirotto”.
Anche Marina Boeri, chirurga ed ematologa, ha lavorato in un reparto Covid: il figlio di un paziente, che rischiava di non farcela, le ha chiesto di far dare al padre l’estrema unzione. Il prete non poteva però entrare in reparto, ha autorizzato lei a farlo: “Mi accosto al letto del malato, che è sotto Cpap (il casco per la ventilazione meccanica, ndr) e in trattamento con morfina e recito un Pater Noster – ricorda – . Quindi lo benedico usando parole richiamate da luoghi della mente lontani. E traccio nell’aria il segno di croce. Calogero (il paziente, ndr) ripete il segno di croce andando a cozzare contro il casco di plastica. Nello stesso momento, il suo vicino di letto, musulmano e non parlante italiano, prende dal comodino il suo rosario dai grossi grani di legno e si mette a pregare. Esco da quella stanza diversa da come c’ero entrata”.
E poi ci sono i medici che, il virus, l’hanno vissuto sulla loro pelle.
“Quando la pandemia è scoppiata a Bergamo ho pensato: questa volta nell’occhio del ciclone ci sono io”, scrive Marzia Bronzoni, medico di famiglia di Seriate. Si è ammalata, ha cercato di seguire i pazienti a distanza nonostante anche lei lottasse contro il virus. E dopo? “Resto sola nella colpa che sento con alcuni miei pazienti, per non essere stata nelle condizioni di poterli curare al meglio, così come avrei voluto”.
C’è anche il trauma della malattia, la paura: Pietro Roberto Goisis, psichiatra e psicoanalista, è stato ricoverato a metà marzo, il suo è stato “un corpo a corpo intenso e appassionato con Mister Corona”. Quando viene finalmente dimesso, vorrebbe abbracciare una delle colleghe che l’ha curato: “Non si può. ‘Però stringerci le due mani sì’, dice lei. Lo facciamo con il piacere e l’intensità consentiti. ‘Non so come ringraziarvi’. ‘Siamo noi a ringraziare lei’. Nascondiamo due lacrime”.
(da agenzie)
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