ALLUVIONE IN ROMAGNA, DI CHI E’ LA COLPA
L’INCHIESTA DI MILENA GABBIANELLI PER IL “CORRIERE”
In Romagna dal 1 al 17 maggio sono caduti 5 miliardi di metri cubi d’acqua, con 32 mila sfollati, 15 morti, 8 miliardi i danni quantificati finora. I modelli climatici stabiliscono che un evento di questa portata si verifica ogni 200 anni. Ce ne sono stati due nel giro di 15 giorni.
Vuol dire che la difesa del territorio andrà interamente riprogettata perché non sappiamo cosa ci attende. Nel mentre i romagnoli spalano e cercano di tornare a una normalità, ma non sanno quando ripartirà la ricostruzione perché il Commissario, che la deve gestire, ancora non c’è. L’area colpita vale 10 miliardi di export, 130 mila imprese, 443 mila occupati e 38 miliardi di valore aggiunto. Ma il disastro è solo la conseguenza di un fenomeno estremo o ci sono altre responsabilità? Vediamole una per una.
Il confronto improprio
Mentre la popolazione veniva evacuata con i gommoni, sui giornali e nei talk politici e opinionisti hanno subito fatto il paragone con l’alluvione a Vaia (Veneto) del 2018: «lì sono piovuti 700 mm d’acqua, in Romagna fra i 300 e i 600 mm, ma il Veneto non si è allagato perché aveva costruito i bacini di laminazione, mentre in Romagna solo in parte».
Il primo a dire che i due eventi in comune hanno solo il fatto che non si era mai visto nulla di simile è stato proprio il presidente del Veneto Zaia. A Vaia il temporale, durato 3 giorni, si è abbattuto in quota (con un uragano che ha distrutto 42 milioni di alberi) dove nascono i grandi fiumi in grado di accogliere molta acqua: il Piave, il Tagliamento e l’Adige, con un canale scolmatore che riversa nel Garda. In Romagna i 500 mm sono caduti in poche ore, in due eventi ravvicinati, sulle colline e su decine di torrenti e piccoli fiumi con difficoltà di deflusso in pianura e le onde dell’Adriatico alte 3 metri a fare da diga. E su un terreno che era diventato cemento dopo due anni di siccità. «Se tutte le vasche di contenimento in progettazione fossero state tutte operative avrebbero potuto limitare un po’ i danni, ma non trattenere quelle quantità» sostengono tutti i geologi e ingegneri idraulici sentiti. Ma quante casse erano operative?
Le opere fatte e quelle da fare
Nella provincia di Forlì-Cesena: due casse sul Fiume Savio, otto sul Ronco; quattro vasche di laminazione nel punto di confluenza del Montone e del Rabbi; sul Montone quattro casse in progettazione e non ancora finanziate dallo Stato. In provincia di Ravenna: due casse sul Fiume Senio e su una il proprietario ha fatto ricorso. Delle 14 opere realizzate a 6 mancano i lavori che consentono la fuoruscita nei periodi di siccità, ma sono da considerare in questo caso tutte operative proprio perché in grado di accogliere acqua. Sempre in provincia di Ravenna, sul Lamone e Santerno, si sta cercando di capire dove farle perché sono aree completamente insediate e, sia le vasche che le casse, occupano spazi che vanno dai 10 ai 30 ettari. Vuol dire espropri di terreni, di attività e indennizzi. Considerando le incertezze dei profondi eventi climatici, chi decide cosa? La Regione programma, il ministero dell’Ambiente dà i soldi in base a criteri di priorità, poi l’attuazione passa in capo all’Agenzia Sicurezza Territoriale e Protezione Civile regionale che delega il suo ufficio provinciale che, a sua volta, deve avere l’ok dal Comune interessato. E qui dipende dagli interessi che ci sono in ballo e dal gradimento dei comitati.
Sviluppo, abusi e condoni
La Romagna una volta era una palude, poi è stata bonificata e sulla ex palude si è costruito lo sviluppo. Dagli anni ‘40 in poi ogni metro quadrato si è trasformato in attività agricola, allevamenti, capannoni e abitazioni. Attorno un reticolo di canali e 26 torrenti che si riempiono quando piove e poi vanno in secca. L’ultima grande alluvione risale al 1939, quando esondò il fiume Senio. Nessuno se la ricorda più, e si è costruito anche dove non si doveva. Un esempio per tutti: proprio sul Senio, a Faenza, 20 anni fa al posto di un capannone che lavorava le pelli è sorto uno bel condominio con 45 garage interrati. A maggio a Faenza si sono rotti anche gli argini in muratura e nella «casa sul fiume» l’acqua è arrivata fino al primo piano. Il cemento è da sempre il motore dell’economia, sostenuto dai condoni sugli abusi. Il governo Berlusconi ne ha fatti ben due, nel 1994 e nel 2003. Nel 2018 il governo Conte 1 (M5S – Lega) vara un altro condono in una zona fragilissima, Ischia, che nel novembre 2022 subisce una frana devastante che provoca 12 vittime. Funziona così su tutto il territorio italiano e, quando si verifica un evento drammatico, la corsa è a scaricare le colpe su qualcun altro. «I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato e tutti dovremmo aver capito che ben poco hanno di “naturale”, poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano per la stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti»: questo scriveva sul Corriere della Sera Antonio Cederna il 3 gennaio del 1973.
La visione unitaria
Nel 1989, dopo tante alluvioni, finalmente una legge nazionale (la 183): il territorio viene diviso in 13 grandi bacini idrografici, ognuno con il proprio Piano, in modo da avere una visione unitaria dei corsi d’acqua e loro affluenti dalla sorgente alla foce. Controllo e interventi sono affidati alle Autorità di bacino, ministeri dei Lavori pubblici e Ambiente. Il principio è questo: la difesa del suolo è compito dello Stato ed è l’Autorità di bacino a stabilire quanta acqua si può prelevare per uso agricolo, quanto e dove cavare sabbia e ghiaia e dove non si può costruire. Alle Regioni resta la competenza per i loro fiumi interni. Contro la parte urbanistica hanno fatto ricorso tutte le Regioni. La Corte Costituzionale li ha respinti, ma la sentenza è stata totalmente ignorata. Come sappiamo nell’elezione di un presidente di Regione, Provincia e sindaco di un Comune non c’è arma più potente del piano urbanistico.
Sui fiumi il federalismo non funziona
Negli anni ‘90 arriva la spinta federalista e nel 2001 — con la modifica del titolo V e successivo decreto del 2006 — Regioni, Province e Comuni si prendono la gestione del territorio e la dividono lungo i confini amministrativi. La legge del 1989 viene svuotata di poteri, insieme alla visione unitaria. Il risultato è che se una Regione, per evitare allagamenti, deve rompere un argine che sta su un confine, l’altra Regione si oppone perché ritiene che i suoi campi siano più utili di quelli della Regione adiacente. All’interno di una stessa Regione le competenze vengono poi a loro volta spezzettate. Quindi nel caso della Romagna, per esempio, l’ufficio della Provincia di Ravenna si occupa del tratto ravennate, quello di Forlì del tratto di Forlì, di quello che va verso Bologna l’ufficio di Bologna. Tutti questi uffici però sono inquadrati dentro l’Agenzia Sicurezza Territoriale e Protezione civile regionale che, essendosi sempre occupata di emergenza, fa fatica a fare anche prevenzione: non ha abbastanza geologi e ingegneri idraulici, e la figura del sorvegliante ambientale è stata abolita.
Lo spezzatino
Quindi c’è un ente che si occupa del luogo dove scorre l’acqua, poi c’è l’Arpa che si occupa della qualità dell’acqua, ma a cui è stata affidata anche la competenza sulle concessioni di estrazione. In pratica se devo innaffiare i miei campi prendo l’acqua dal fiume nella quantità e nei tempi decisi da Arpa e non dall’Autorità di bacino, che ogni anno deve fare appelli (che nessuno ascolta) perché c’è troppo prelievo. Certo in Romagna gli uffici preposti hanno operato al massimo delle loro possibilità: la portata dell’evento è stata tale che di più non si poteva. La sostanza del problema è che ogni Regione si preoccupa del suo territorio, fregandosene dei danni che può provocare alla Regione confinante. In questo quadro di disonestà politica e culturale avvengono le tragedie evitabili e si amplificano quelle provocate dagli eventi estremi.
Frane: cause e concause
La Pianura Padana è la zona d’Italia che più ha sofferto i due anni di siccità: il terreno troppo secco non ha assorbito e i temporali si sono scatenati sulle colline già naturalmente fragili perché argillose. Aperte 936 frane e ad oggi 31 frazioni sono isolate con 331 abitanti raggiungibili solo con mezzi pesanti. Non ci sono più i contadini a curare e manutenere il territorio; le terre le coltivano i terzisti e i fossi non li scava più nessuno. Un destino comune a tutte le aree montane e collinari italiane, dove i piccoli paesi si sono via via spopolati anche perché ha cominciato a chiudere la scuola, poi l’ufficio postale, l’ambulatorio e non arriva più il trasporto pubblico. In aggiunta la manutenzione alla rete di strade è diventata scarsa o inesistente da quando per legge (2014) le Province state svuotate di risorse.
La legge sul consumo di suolo
Dopo Lombardia e Veneto Ispra mette l’Emilia-Romagna al terzo posto per consumo di suolo. Una legge nazionale sulla sua riduzione ancora non c’è. L’Emilia-Romagna si è fatta la sua (legge n° 24) e approvata a maggioranza nel 2017 ed è la prima a darsi un limite massimo del 3% della superfice urbanizzata. Se si va a leggere bene riguarda sostanzialmente gli insediamenti residenziali e prevede un periodo transitorio di 5 anni che diventano 6 grazie a un emendamento del consigliere leghista Pompignoli, sostenuto dai colleghi più cementiferi del Pd. Alla Camera il 30 maggio quattordici deputati della Lega presentano un emendamento dal titolo: «Disposizioni urgenti per la mitigazione del rischio alluvioni». La sostanza è questa: i presidenti delle Regioni e i sindaci possono autorizzare in via d’urgenza soggetti pubblici e privati a estrarre sedimenti, sabbia e ghiaia dal letto dei fiumi e torrenti fino al ripristino del livello storico (quale?) dell’alveo. Il nulla osta degli enti interessati deve pervenire entro 30 giorni, decorso il termine vale l’assenso. L’emendamento viene dichiarato inammissibile, ma probabilmente verrà ripresentato. Il professor Roberto Passino, fondatore dell’Istituto Ricerca sulle Acque del Cnr nonché segretario generale dell’Autorità di bacino del Po dal 1991 al 2002 e che ha lottato per anni contro i tentativi di corruzione da parte dei cavatori, dichiara: «Questa è un’attività rigidamente normata perché l’alveo dei fiumi, privi di ghiaia e sabbia a causa dei continui prelevamenti, aumenta la velocità dell’acqua e il pericolo. Ne emerge che lo scopo non sia quello di pensare alla sicurezza, ma quello di aumentare il potere delle Regioni».
Il Commissario che non c’è
E ora c’è da ricostruire la Romagna. È evidente che non si potrà fare tutto negli stessi luoghi: la natura ha dimostrato che non può essere piegata alla volontà dell’uomo. Per fare queste operazioni ci vuole un Commissario e quello naturale sarebbe il Presidente della Regione Bonaccini, proprio perché il suo territorio lo conosce bene. Salvini è contrario, ma non spiega il perché. Alla luce di quanto ricostruito è complicato attribuirgli colpe che potevano evitare i danni. Sta di fatto che la Presidente del Consiglio ha messo la questione in stand by. Chiunque arrivi si farà la sua struttura, ad operare saranno i funzionari di Comuni, Province e Regione, che contemporaneamente rispondono ai loro sindaci e presidenti. Quindi si va alla duplicazione dei centri di responsabilità rallentando il processo. Suona come una cinica rivalsa politica mentre un’intera regione sta offrendo.
(da il Corriere della Sera)
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