ATTACCO AL CUORE DELLA LEGA
IL NO DI MELONI AL TERZO MANDATO RENDE CONTENDIBILE IL VENETO E LIBERA ZAIA ALLA CONTESA PER LA LA SEGRETERIA DEL PARTITO
C’è un disegno politico, e c’è anche una certa esibizione della propria forza, in questa mossa di Giorgia Meloni. Che, senza esitazioni, prudenze, timori per possibili conseguenze, remore per lo spettacolo di una maggioranza che si divide, esercita, sulla vicenda del terzo mandato la sua leadership nel modo che le è più congeniale: all in, “piatto” (si direbbe nel poker), in attesa della mano successiva. Prima l’all in con la sua candidatura – pressoché annunciata – alle Europee, che sottrae voti a Salvini, poi l’all in in Sardegna, che gli sottrae il candidato, poi l’all in sul terzo mandato che gli sottrae il Veneto, in attesa del prossimo.
Si gioca così la sua partita di dominus incontrastato della coalizione con l’obiettivo di trasformare gli altri, in particolare il leader leghista che l’ha sfidata da destra, in una sorta di prigioniero politico. Sapendo che l’alleato-avversario – e non è un dettaglio – non ha altri né luoghi dove andare né la forza di far saltare il tavolo. E infatti ha il sapore della resa, piuttosto incondizionata, la sua dichiarazione dopo l’affossamento del dossier che gli sta più a cuore: “Non ci saranno problemi sulla maggioranza”.
La mossa sul terzo mandato è, nella sua sostanza politica, un attacco feroce al cuore della Lega. Perché, d’un colpo, apre la partita del Nord e mette Luca Zaia sul mercato politico nazionale. Insomma, una doppia Opa ostile. Una sul Nord, lì dove la Lega ha il suo insediamento più profondo e radicato grazie ai governatori che ne incarnano il volto più pragmatico, di governo, ragionevole. Quel “sindacato del Nord” che rappresenta il felice paradosso su cui poggia Salvini. Lui incarna una linea opposta rispetto al partito dei produttori operosi, ma ad esso deve la sua forza, declinante nel resto d’Italia, dove voti e ceto politico intercettati ai tempi d’oro della Lega nazionale sono trasmigrati già verso il partito di Giorgia Meloni.
L’altra Opa lanciata sul medio periodo è in casa leghista, perché proietta Luca Zaia nell’orizzonte di fine mandato (si voterà il prossimo anno in Veneto). E dunque nel suo “dopo” che può aver a che fare con la contendibilità della Lega, argomento finora tabù nonostante l’ampia letteratura su Zaia come anti-Salvini, perché finora non c’erano le condizioni di contesto. L’uno (Zaia) aveva il Veneto e nessuna intenzione di cimentarsi in una sfida interna improba. L’altro aveva una leadership salda. Ora l’uno non ha più il Veneto, l’altro ha di fronte il non banale stress test delle Europee. Si sa come vanno le cose da quelle parti: sembra che non succeda mai nulla, non ci sono avvisaglie e dibattiti democratici in un partito, si diceva una volta, “leninista” nei metodi, poi di fronte a trauma, patatrac, si apre la questione della leadership in due minuti.
Sia come sia, ci sono le basi per innescare un processo politico che porti a nuovi equilibri. Perché di questo si tratta, del “comando”, che prescinde dalle politiche, da questa o quella riforma, dal grande respiro. Qui il merito c’entra poco, se funzionano più due o tre mandati, come questo intreccia la discussione sulla riforma complessiva delle istituzioni. C’entra la tattica per l’obiettivo. Che per quel che ha in testa Giorgia Meloni, è da manuale, il che spiega tanta determinazione: crea le condizioni per una sua espansione a Nord ai danni dell’alleato di cui mina la leadership e a Sud toglie di mezzo due governatori del Pd che vivono di forza propria, l’altro alleato ne trae un vantaggio perché ad Antonio Tajani non dispiace affatto che scada Giovanni Toti in Liguria, ed è contenta anche Elly Schlein che si libera di Vincenzo De Luca. Se poi, a capo della Lega dovesse arrivare Zaia, la premier potrebbe stappare la bottiglia più pregiata: si libera di un alleato che le fa il controcanto da destra e ingrassa al Sud, perché il governatore del Veneto può essere il leader di una sorta di Csu bavarese, ma sotto il Po ha problemi di accento.
È presumibile che le conseguenze non saranno del tutto indolori, con un po’ di guerriglia sulle riforme e col consueto controcanto quotidiano, arte in cui Salvini eccelle, dagli agricoltori a Putin ai balneari. Nel rapporto costi benefici è sostenibile finché la forza resta immutata o cresce, se però una mano di poker di va male chiedere “piatto” a quella successiva diventa più complicato.
(da Huffingtonpost)
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