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CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA: ILLEGALE LA LEGGE UNGHERESE SULLE ONG

Giugno 18th, 2020 Riccardo Fucile

AMNESTY: “SENTENZA STORICA, UN DURO COLPO A ORBAN”… LE RESTRIZIONI “DISCRIMINATORIE E INGIUSTIFICATE”

“Non sono conformi al diritto dell’Unione Europea le restrizioni imposte dall’Ungheria al finanziamento delle organizzazioni civili da parte di soggetti stabiliti al di fuori di tale Stato membro”.
Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dopo il ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione sulla legge introdotta dal governo di Viktor Orbà¡n che impone obblighi di registrazione, dichiarazione e pubblicità , con la possibilità  di sanzioni, a alcune ong che beneficiano di sostegno finanziario esterno oltre una certa soglia.
Secondo i giudici di Lussemburgo, la legge ungherese sulle ong ha “introdotto restrizioni discriminatorie e ingiustificate” nei confronti delle organizzazioni non governative, ma anche dei loro finanziatori.
“La storica decisione di oggi infligge un colpo agli sforzi delle autorità  ungheresi di stigmatizzare e minare le organizzazioni della società  civile che criticano le politiche del governo”, ha detto David Vig, direttore di Amnesty International Ungheria. La legge sulle ong è “un palese tentativo di mettere a tacere le voci critiche e di sottrarre sostegno pubblico alle organizzazioni che lottano per i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza”, ha detto Vig: “è di vitale importanza ora che la Corte costituzionale ungherese agisca rapidamente”.
Nel 2017 l’Ungheria aveva adottato una legge presentata come volta a garantire la trasparenza delle ong che ricevono donazioni provenienti dall’estero, in base alla quale tali organizzazioni devono registrarsi presso organi giurisdizionali ungheresi come “organizzazione che riceve sostegno dall’estero” nel momento in cui l’importo delle donazioni ricevute da altri Stati membri dell’Ue o da paesi terzi nell’arco di un anno superi una soglia. All’atto della registrazione, le ong devono anche indicare il nome dei donatori sopra i 1.400 euro e l’importo esatto del sostegno
La Corte di Giustizia dell’Ue ha innanzitutto constatato che la legge sulla ong costituisce una misura restrittiva, di natura discriminatoria, in materia di movimento dei capitali, perchè introduce una differenza di trattamento tra i movimenti nazionali e transfrontalieri.
Questa norma, inoltre, dissuade le persone fisiche o giuridiche stabilite in altri Stati membri o in paesi terzi dal fornire un sostegno finanziario alle organizzazioni interessate. Inoltre – dicono i giudici di Lussemburgo – la legge sulle ong può creare un clima di diffidenza nei confronti delle associazioni e fondazioni.
In secondo luogo, la Corte Ue ha constatato che le misure previste dalla legge sulle ong limitano il diritto alla libertà  di associazione – sancito dall’articolo 12 della Carta sui diritti fondamentali – in quanto rendono significativamente più difficili l’azione e il funzionamento delle associazioni.
Infine, secondo la Corte Ue, gli obblighi di dichiarazione e pubblicità  costituiscono un limite al diritto al rispetto della vita privata e familiare e una violazione del diritto al rispetto della privacy.

(da agenzie)

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A PROCESSO IL SENATORE LEGHISTA PAZZAGLINI PER PECULATO E ABUSO D’UFFICIO

Giugno 17th, 2020 Riccardo Fucile

QUANDO ERA SINDACO DI VISCO, AVREBBE DIROTTATO LE DONAZIONI AI TERREMOTATI A DUE IMPRESE DI SUA PROPRIETA’

Giuliano Pazzaglini, senatore della Lega, dovrà  affrontare un processo a gennaio con l’accusa di peculato e di abuso d’ufficio.
In passato, era stato anche sindaco di Visso, un comune in provincia di Macerata che era stato colpito dal terremoto del Centro Italia del 2016-2017. La prima udienza è stata fissata per il prossimo 25 gennaio 2021.
Pazzaglini è stato eletto in senato con la Lega nel 2018, alle ultime elezioni politiche. Per lui, le accuse sono relative a una storia relativa ad alcune donazioni destinate ai terremotati. Per i magistrati marchigiani, il senatore della Lega avrebbe chiesto a chi effettuava le donazioni di girarle a due imprese di sua proprietà .
Il gup del Tribunale di Macerata Domenico Potetti ha fissato la prima udienza per il 25 gennaio.
A giudizio con Pazzaglini, ma solo per abuso d’ufficio, l’ex presidente della Croce Rossa vissana Giovanni Casoni. Le indagini, condotte dalla Guardia di finanza con il coordinamento del procuratore di Macerata Giovanni Giorgio, riguardano una serie di donazioni per i terremotati, che, secondo l’accusa, sarebbero state dirottate su due società  gestite da Pazzaglini e Casoni.

(da agenzie)

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CARMINATI TORNA LIBERO PER UN PRINCIPIO DI CIVILTA’

Giugno 16th, 2020 Riccardo Fucile

“LA LEGGE DICE CHE C’E’ UN LIMITE ALLA CUSTODIA CAUTELARE, OLTRE IL QUALE NON SI PUO’ ANDARE”

Massimo Carminati ha lasciato da poche ore il carcere di Oristano. Uno dei principali imputati del processo Mondo di Mezzo – condannato e in attesa che la corte d’Appello ridefinisca la sua pena – è libero. Libero, non assolto.
Dopo 5 anni e sette mesi in cella. Di cui in tutto quattro al 41 bis. Uno scandalo?
La risposta è fin troppo semplice: no.
“La legge dice che c’è un limite della decenza oltre il quale non si può andare. Si tratta di un basilare principio di civiltà ”, spiega ad HuffPost l’avvocato Cataldo Intrieri, che – nel processo che si è celebrato a Roma e si è concluso con l’esclusione definitiva dell’accusa di mafia per gli imputati, ferma restando la condanna per altri reati – difende Carlo Maria Guarany, vicepresidente della cooperativa 29 giugno.
Carminati, inizialmente accusato di essere a capo di un’associazione mafiosa nell’inchiesta che è salita agli onori della cronaca come Mafia Capitale, era in carcere non perchè condannato ma perchè in custodia cautelare.
Ed è proprio per questo motivo che la richiesta dei suoi avvocati – formulata per la quarta volta dopo tre rigetti – è stata accolta dal tribunale del Riesame di Roma.
“Per quanto si possano estendere i confini della custodia cautelare – spiega ancora Intrieri – la legge impone che a un certo punto non si possa andare oltre”.
Il limite sono i due terzi della pena massima prevista per il reato di cui si è accusati. “Nel caso di Carminati – prosegue l’avvocato – il reato più grave era la corruzione. Ai tempi in cui l’aveva commesso (non era ancora entrata in vigore la legge Spazzacorrotti che ha inasprito le pene, ndr) la pena massima era di otto anni. Questo significa che non poteva stare in carcere più di 5 anni e 4 mesi. Si chiama scadenza dei termini”.
In cella è invece rimasto circa due mesi in più, come ha spiegato ad HuffPost anche il suo avvocato, Francesco Tagliaferri.
Al di là  delle reazioni indignate di parte della politica e della decisione del Guardasigilli di attivare gli ispettori sul tema, è questo l’elemento fondamentale: Carminati non è più in carcere perchè, per la legge, la custodia cautelare a un certo punto – in proporzione alla gravità  del commesso – deve finire. Ed è questo il principio sottolineato dal tribunale delle Libertà .
A pochissime ore dalla scarcerazione dell’ex esponente dei Nar arriva la nota di via Arenula: “Il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, ha delegato l’ispettorato generale del Ministero a svolgere i necessari accertamenti preliminari in merito alla scarcerazione di Massimo Carminati”. Non si precisa oltre. Non è chiara la mission degli ispettori.
Sulla decisione del ministro, l’avvocato Intrieri dice: “Quando si fanno atti di questo genere bisogna stare molto attenti. Il rischio è che possano apparire come un’intimidazione verso la magistratura. In questo caso nei confronti dei più alti giudici dello Stato”.
Il riferimento è ai giudici della Cassazione che hanno deciso di cancellare definitivamente dal processo l’accusa di mafia. Una scelta che l’avvocato condivide. Ripercorrendo le fasi precedenti del lungo iter giudiziario, sostiene: “Il tribunale, nella sentenza di primo grado, aveva assegnato condanne molto pesanti, pur escludendo l’associazione per delinquere di stampo mafioso. Per una scelta di politica giudiziaria la Procura ha ritenuto di fare ricorso, perseguendo la strada del 416 bis. Risultato: mafia riconosciuta in secondo grado, pene più basse (furono riconosciute delle attenuanti generiche, ndr) e tutti a festeggiare. Ma, vede, se non ci si fosse ostinati sulla strada dell’associazione mafiosa, probabilmente ad oggi i condannati sarebbero in carcere a scontare pene molto pesanti”.
Cosa che, invece, ad oggi non può accadere perchè la corte d’Appello dovrà  ridefinire le pene alla luce dell’eliminazione del reato di mafia.
C’è, poi, un altro elemento: il 41 bis. Per molto tempo Carminati è stato recluso al regime carcerario più duro, in funzione dell’accusa più grave, che oggi non esiste più. L’ordinamento italiano non prevede un meccanismo automatico che gli consenta di chiedere un risarcimento. “A tal riguardo valuteremo cosa fare”, dice ancora Tagliaferri.
Per il momento, uno dei condannati più famosi del processo Mondo di Mezzo torna in libertà , ma aspetta di capire quanto carcere dovrà  fare ancora. In quel caso, però, rientrerà  in cella per scontare una pena precisa e una condanna definitiva, non per esigenze cautelari.

(da “Huffingtonpost”)

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RAPALLO, SMALTITI DALLA MAFIA GLI YACHT DISTRUTTI DALLA MAREGGIATA DI DUE ANNI FA: IN MANETTE I VERTICI DEL PORTO TURISTICO

Giugno 16th, 2020 Riccardo Fucile

TRAFFICO RIFIUTI DI LUSSO, 9 ARRESTI E CONFISCHE PER 3,5 MILIONI

Dalle prime luci dell’alba i militari del comando provinciale dei carabinieri di Genova stanno eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare emessa dall’ufficio Gip del Tribunale di Genova nei confronti di nove persone su tutto il territorio nazionale.
Contestualmente i militari stanno dando esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo ai fini della confisca di oltre 3,5 milioni di euro per vari reati anche aggravati da metodo mafioso.
I fatti si riferiscono alla mareggiata del 2018 in cui andarono distrutte più di 400 imbarcazioni fra yacht di lusso e natanti di varie dimensioni ormeggiate nel porto di Rapallo
La direttrice del porto turistico Carlo Riva di Rapallo, Marina Scarpino, e il presidente del consiglio d’amministrazione Andrea Dall’Asta sono da questa mattina agli arresti domiciliari a seguito degli sviluppo dell’inchiesta sullo smaltimento delle imbarcazioni affondate o danneggiate durante la mareggiata dell’ottobre 2018 che colpì Rapallo.
Secondo gli inquirenti, gli indagati si sarebbero avvalsi di aziende collegate alla criminalità  organizzata per smaltire a costo inferiore gli yacht distrutti dalla furia del mare che ostruivano la rada del porto di Rapallo.
Contestualmente i militari hanno dato esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo ai fini della confisca di oltre 3,5 milioni di euro per i vari reati anche aggravati quindi da metodo mafioso.
La misura cautelare è stata emessa a carico di sette uomini e due donne, alcuni gravati da precedenti di polizia, tra cui imprenditori, avvocati e professionisti nel settore della nautica ritenuti a vario titolo coinvolti nel trasporto, stoccaggio, gestione e smaltimento illecito di rifiuti relativi alle imbarcazioni distrutte dalla mareggiata epocale che ha colpito la città  di Rapallo il 29-30 ottobre 2018 allorquando 435 imbarcazioni vennero distrutte o affondate dai marosi.
Gli stessi avevano posto in essere un elaborato sistema di gestione illecita di rifiuti non curante del pericolo ambientale connesso all’inquinamento dello specchio acqueo di Rapallo e di due Siti di Interesse Regionale (S.I.R) nella Provincia di Massa Carrara, con un ricavo di oltre 3 milioni di euro, movimentando e gestendo circa 670 tonnellate di rifiuti non tracciati.
Ruolo determinante nell’attività  illecita era rivestito da soggetto napoletano, pregiudicato, il quale avvalendosi del metodo mafioso e millantando contatti con soggetti appartenenti alla camorra e alla ndrangheta, aveva promosso e gestito l’intera filiera illecita con l’intento di penetrare il tessuto imprenditoriale ligure nel settore della nautica.

(da agenzie)

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DUE INDAGATI PER L’OSPEDALE DI ALZANO, CONTESTATO IL REATO DI EPIDEMIA E OMICIDIO COLPOSO

Giugno 16th, 2020 Riccardo Fucile

IL DUBBIO: PERCHE’ LA REGIONE LOMBARDIA DISSE NO ALLA ZONA ROSSA DI LODI?

Ci sono due iscritti nel registro degli indagati dalla procura di Bergamo per la mancata chiusura del nosocomio di Alzano Lombardo mentre stava scoppiando l’emergenza Coronavirus SARS-COV-2 e COVID-19.
L’identità  dei due non è nota ma, scrive oggi il Corriere della Sera, l’ipotesi di reato è quella di epidemia e omicidio colposi.
Nessun dirigente e nessun medico dell’Azienda socio sanitaria territoriale di Seriate, competente su Alzano, avrebbe ricevuto al momento informazioni di garanzia secondo Armando Di Leandro e Desirèe Spreafico che firmano il pezzo.
Come persone informate sui fatti erano stati sentiti, già  prima di metà  maggio, l’ex direttore della Sanità  regionale Luigi Cajazzo, il direttore generale dell’Asst di Seriate Francesco Locati e il direttore sanitario Roberto Cosentina.
Tutti avevano spiegato che il Pronto soccorso era stato riaperto soprattutto per far fronte all’epidemia e non perdere un presidio sul territorio: i magistrati tentano di capire se i pazienti con sintomi sospetti, ricoverati da più giorni prima di quel 23 febbraio, dovessero essere gestiti diversamente e se, a causa della loro presenza, non fosse necessaria una sanificazione più specifica sia del Pronto soccorso sia dei reparti.
L’intervento, secondo le dichiarazioni del dg Locati, era stato eseguito da personale interno, a differenza di quanto avvenuto a Codogno (lì il Pronto soccorso rimase chiuso tre mesi).
E in serata, durante il Consiglio comunale di Bergamo (in streaming) è andata in onda una lite furiosa tra il sindaco Giorgio Gori e la Lega.
Al centro, di nuovo, le accuse dei leghisti a Gori di aver fatto pressioni contro la zona rossa. Un attacco per il quale il sindaco arriva a minacciare querele, mettendo sul tavolo un dettaglio mai prima raccontato: «Il 7 marzo, l’ultimo giorno prima che venisse chiusa tutta la Lombardia – il racconto di Gori –, il presidente Attilio Fontana disse a me e ad altri sindaci che aveva consultato i suoi esperti costituzionalisti, i quali sostenevano che la Regione non avesse potere di istituire la zona rossa. Alla luce di quanto avvenuto in altre regioni ritengo che quella indicazione, ammesso l’abbia ricevuta, non era corretta, come poi ha ammesso l’assessore Giulio Gallera».
Il Corriere della Sera ha scritto domenica che furono il direttore generale del Welfare lombardo Luigi Cajazzo, rimosso la scorsa settimana dal suo incarico, e il direttore generale dell’Azienda socio sanitaria territoriale di Seriate Francesco Locati, con il responsabile sanitario Roberto Cosentina, a stabilire di comune accordo di riaprire il presidio. Lo hanno dichiarato durante l’interrogatorio ai pm.
E lo fecero nonostante uno scontro durissimo con i medici e una comunicazione del direttore di presidio, Giuseppe Marzulli, che diceva: «È evidente che così il pronto soccorso non può restare aperto».
I pubblici ministeri stanno valutando tutte le norme e i protocolli igienici sanitari in materia, cercando di contestualizzare la scelta della riapertura. Hanno anche acquisito informazioni sul ricovero ad Alzano, già  da metà  febbraio, di una decina di pazienti residenti a Nembro che avevano tutt i sintomi sospetti ma non venivano sottoposti al tampone perchè non risultavano – come chiedevano le circolari ministeriali – aver avuto contatti diretti con la Cina o con persone provenienti da quel Paese.
Il Fatto Quotidiano invece ricorda la storia della mancata zona rossa a Lodi, così come annunciava il 22 febbraio una nota del Comune, seguendo le indicazioni di Regione e governo rispetto all’assenza di casi a Lodi solamente un giorno prima la scoperta del paziente 1 a Codogno.
Due settimane, quindi, durante le quali circa 10mila persone ogni giorno hanno preso il treno, l’auto per andare da Lodi a Milano e qui muoversi con metropolitana e autobus
Al 29 febbbraio il 38% dei casi lombardi arrivava dal Lodigiano, oltre uno su tre.
Massimo Vajani è il presidente dell’Ordine dei medici di Lodi. Su questo non ha dubbi: “Più volte ai tavoli con la Regione ai quali ho partecipato ho sottolineato chela città  di Lodi doveva essere considerata zona rossa,o almeno zona arancione, ma non sono stato ascoltato”. In quei giorni di fine febbraio e inizio marzo, il virus correva di più in queste zone. Al 2 marzo i casi erano 384 con la provincia di Bergamo a 243. Oggi, a distanza di quasi quattro mesi, non c’è paragone: la devastazione portata dal Covid nel Bergamasco è evidente. Lodi è molto più indietro.
Il punto qui però è un altro. In quei primi giorni l’obiettivo era contenere, ma lasciando aperto un Comune di quasi 50 mila abitanti al confine con l’epicentro del contagio, è stato difficile.
“Ci sono — prosegue Vajani — ambulatori che stavano a tre chilometri dalla zona rossa ma non vi rientravano, per quale motivo?”.E ancora: “Tutti i pendolari in quei giorni andavano a Milano e lo facevano partendo da Lodi. Molti miei pazienti mi chiedevano giorni di malattia, perchè a Milano, dove lavoravano, venivano considerati untori e rispediti a casa”. Il permesso per malattia non era consentito se non per coloro che rientravano nella zona rossa.
Sempre Vajani, intervenuto a un incontro dell’associazione Lodi liberale, presente anche l’assessore al Welfare Giulio Gallera, ha spiegato: “Nei primi momenti dell’emergenza — riporta il Cittadino— ci siamo trovati a gestire la situazione senza direttive. Non c’è mai stata una voce unica che desse indicazioni. La Regione parla di previsione fin da gennaio, ma allora perchè non è stata procurata una prevenzione sui dispositivi di protezione individuale a fronte di possibile epidemia? Il territorio doveva fare da filtro per evitare che si intasassero gli ospedali”. Nulla di ciò è stato fatto e l’ospedale di Lodi è diventato uno dei più importanti focolai d’Italia, libero di potersi propagare verso Milano.

(da “NextQuotidiano”)

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LA BORSA FIRMATA ERA “PER PORTARE LIBRI” E IL BEAUTY “PER ANDARE DAL PAPA”: LA COMICA RIMBORSOPOLI DEL PIEMONTE

Giugno 14th, 2020 Riccardo Fucile

GLI ARGOMENTI DEI RICORSI IN CASSAZIONE DEI POLITICI CONDANNATI

“Quel rimborso è stato chiesto per sbaglio!”, “La borsa griffata era una borsa portalibri!”, “Offrivo le cene per il rafforzamento con l’elettorato!”. “Mi ero dimenticato il beauty-case e dovevo vedere il Papa!”.
Nel leggere gli argomenti dei ricorsi in Cassazione dei vari protagonisti di “Rimborsopoli” in Piemonte, dopo le condanne in appello, non si può non ridere di gusto. Ma partiamo dall’inizio, perchè tutto cominciò con le ormai famose mutande verdi che divennero il simbolo del caso giudiziario.
“Era un paio di pantaloni corti, trasformati dai giornali in mutande verdi. Uno scontrino inserito per errore nelle spese da rimborsare”, si giustificò all’epoca l’ex governatore leghista del Piemonte, Roberto Cota. La vicenda, iniziata nel 2013, coinvolse ben 52 consiglieri regionali, tutti accusati a vario titolo di aver utilizzato in modo illecito (principalmente rimborsi per spese personali) i fondi destinati ai gruppi consiliari.
L’iter giudiziario è stato travagliato: il Tribunale di primo grado ha assolto Cota e 14 consiglieri e ne ha condannati 10. In secondo grado condanna per 24 consiglieri, tra cui Cota e il sindaco di Borgosesia Paolo Tiramani. La Corte di Cassazione, in seguito ai ricorsi, ha poi deciso un nuovo giudizio di secondo grado per Cota, Tiramani, Alberto Coronassi (quest’ultimo ai tempi consigliere regionale per Forza Italia) e qualche altro consigliere. In pratica, alcuni di loro, rifaranno l’appello.
Nello specifico, delle sette motivazioni di ricorso presentate dai legali di Tiramani solo una è stata accolta, e cioè l’accusa di peculato in concorso con Mario Carossa, all’epoca capogruppo della Lega Nord. “Si torna indietro. Attendo l’appello bis sapendo che non ho commesso alcun reato”, afferma lui.
Il problema è che, leggendo le motivazioni della Cassazione, è evidente che i giudici non mettono in alcun modo in discussione il fatto che i consiglieri si facessero rimborsare indebitamente qualsiasi cosa, ma piuttosto accolgono ricorsi sulle accuse di “concorso” o, in quasi tutti i casi, per altre ragioni di natura tecnica. In pratica, si appropriavano di denaro che non   spettava loro, ma in alcuni casi non è detto che l’uno sapesse quello che faceva l’altro.
La lettura delle motivazioni regala momenti di notevole ilarità , perchè i giudici smontano con eleganza quasi tutte le surreali, creative, acrobatiche argomentazioni del ricorso.
Nel caso del consigliere Massimo Giordano (accusato di aver sottratto 14.000 euro in rimborsi) “le spese di ristorazione e pernottamento potrebbero rientrare fra quelle sostenibili per il consolidamento del gruppo con elettori e simpatizzanti, anche se sostenute per eventi non ufficiali”.
In pratica, se porti a cena 12 persone al pub (come, per esempio, nel suo caso) e ti fai rimborsare la cena, stai consolidando le simpatie a colpi di Menabrea doppio malto, sei autorizzato. Anche le multe che si fece rimborsare, secondo i suoi legali, sono state “un errore di fatto” e gli arredi “sono stati riscattati”.
L’ex consigliere regionale Roberto Alfredo Tentoni, che si fece rimborsare da buffet a cene a telecamere e generatori di corrente, sostiene che fossero “cene istituzionali legate alla promozione del territorio” e che “la Corte avrebbe ignorato il contenuto di alcune testimonianze di chi disse che nell’invitarlo si era presentato in qualità  di consigliere regionale e aveva portato i saluti del Consiglio stesso”.
Quindi per farsi rimborsare un pranzo dalla Regione basta dire “Ti saluta il Consiglio!”. È quella che si dice “insindacabile giustificazione”, dopo “professore, non ho potuto fare i compiti, è morta nonna”.
La storia delle telecamere acquistate poi è meravigliosa. Il consigliere si fa rimborsare 2.000 euro per il loro acquisto. Se le piazza a casa sua, in camera da letto e in cucina. Ma “non si può escludere che le avesse utilizzate anche in Regione”, dice il suo legale.
E a tal proposito, nel ricorso si afferma che ha montato quelle telecamere in cucina e camera perchè temeva qualche conseguenza per la sua incolumità  visto il suo impegno in Consiglio contro il fenomeno delle “mandrie vaganti”. Giuro. C’è scritto.
La difesa del consigliere Alberto Goffi, 11.000 euro di rimborsi soprattutto per spese di ristorazione tra cui 600 per fornitura di pasticcini, ha argomentato: “Le spese dovrebbero essere ricondotte alla battaglia politica”. Cioè, lanciava pasticcini agli avversari?
Il consigliere Andrea Stara (46.970 euro di rimborsi) si faceva rimborsare focacce, spese al supermercato, multe, tagliaerba, soggiorni in Puglia e Basilicata e consumazioni di 32 collaboratori.
Nel suo caso, la scusa più utilizzata — ovvero “mi facevo rimborsare cene che miravano alla valorizzazione del territorio” — non viene utilizzata per un semplice motivo: nella lista rimborsi, giuro, c’è anche la voce “KEBAB”. Del resto, è l’unico esponente del centrosinistra coinvolto nella vicenda, lo si intuisce anche da questo. Si faceva rimborsare le multe per “mera negligenza”.
Il consigliere Michele Formagnana, 27.000 euro rimborsati, prelevava somme e le metteva in cassaforte della propria agenzia assicurativa “per organizzare convegni”.
Secondo la difesa, poi l’indagine della Procura lo ha spaventato e non li ha organizzati più, restituendoli. Insomma, la scusa è che quei soldi prelevati e messi in cassaforte fossero “un fondocassa”. In pratica il fondocassa del fondocassa. “Non c’era motivo per cui conservasse quelle somme in un luogo privato”, si legge nelle motivazioni. Tra parentesi, il consigliere aveva acquistato una cappella cimiteriale: probabilmente voleva nasconderci altro fondocassa dentro.
Alberto Cortopassi, (55.000 euro di rimborsi) si era fatto restituire spese per la prima comunione del figlio, vini, regali a collaboratori, abbigliamento, profumi, cd natalizi e gioielli. Dal 20 al 30 ottobre 2010 aveva chiesto il rimborso per 78 consumazioni al ristorante (3.100 euro).
In pratica andava otto volte al giorno a pranzo e cena. Ci si aspettava che i suoi legali utilizzassero la scusa della bulimia nervosa o della tenia nell’intestino, e invece agiva “per visibilità  e consenso personale”.
E “l’imputato aveva trasformato la sede di un noto ristorante in un luogo ordinario di incontri personali”. In pratica aveva spostato l’ufficio al ristorante. Una scusa validissima. Poteva andare peggio per le casse pubbliche: poteva spostare l’ufficio in un rivenditore Lamborghini.
Michele Dell’Utri si fece rimborsare spese di ristorazione, quadri e cornici, l’abbonamento a La Stampa: secondo i legali erano “spese giustificabile per rafforzamento col elettorato e a raccogliere l’orientamento dei simpatizzanti”. Visto che nei rimborsi c’erano anche spese al supermercato sarebbe interessante capire come procurarsi elettori al banco frigo latticini e salumi. “Non sarebbe sindacabile la modalità  di tale attivismo”, si legge.
Roberto De Magistris si fece rimborsare, tra le altre cose, cene al ristorante Galli di Verbania, ma nel ricorso si sostiene che furono “spese attribuite per errore all’imputato”, tanto che il ristoratore testimoniò di non averlo mai visto.
Idem rimborsi per una gara di moto in Liguria con gli amici: la fattura era stata emessa a soggetto terzo, quindi fu un errore. E un errore furono anche i rimborsi per la fiera del tartufo ad Alba. In pratica, De Magistris rimborsava a sua insaputa.
Stasera vado da Cracco, lascio il conto a nome suo. Tra i suoi rimborsi anche 36 t-shirt, fiori, tassa per il passaporto elettronico, 122 euro di frigobar per una visita istituzionale al papa. È già  tanto che non le abbia caricate sul conto di papa Francesco.
Il sindaco di Borgosesia Paolo Tiramani (12.000 euro di rimborsi) si fece rimborsare spese in discoteca, al bowling, da Ikea e poi popcorn, multe, navigatori satellitari, soggiorni, dolciumi, cioccolato, scarpe e confetti.
Le motivazioni del ricorso sono bellissime: “Non c’è prova che abbia ricevuto il rimborso delle spese ritenute illecite visto che il rimborso avveniva tramite contanti”. In pratica chiedeva rimborsi ma poi non si faceva rimborsare, chiaro.
O anche “Il regolamento della Lega Nord non prevede l’indicazione delle specifiche circostanze nelle quali la spesa era sostenuta”, e “Era alla sua prima esperienza e ha commesso errori, “avrebbe sempre ritenuto la materia poco chiara”. Certo, legittimo, alla prima esperienza, avere dubbi sul fatto che l’acquisto dei pocorn rientri nelle spese di rappresentanza.
La consigliera Augusta Montaruli acquistò la borsa di un noto stilista (Borbonese), che secondo la difesa “è un mero contenitore di libri”. Certo, le famose borse porta-libri. Secondo la Montaruli poi, era “un premio per un concorso letterario per sensibilizzare sulla violenza contro le donne”. Certo. Peccato che nella sua nota spese ci sia finito anche l’apparecchio Microtouch per togliere peli dal naso e orecchie. Sarà  stato un premio per un concorso per sensibilizzare sui problemi dell’ irsutismo.
Angelo Emilio Filippo Burzi si fece rimborsare 200 pasti mentre era in vacanza ad agosto 2012, ma “ne approfittò per frequentare autorevoli amici”. In pratica se porti a cena l’imbianchino sei un impostore, se porti a cena 200 architetti sei nell’ambito della legalità 
Roberto Cota giustifica il rimborso di mutande o pantaloncini verdi più tutto il resto comprato in America, affermando che il viaggio a Boston era considerato privato ma lui doveva incontrare un ingegnere. Comodo ed economico, insomma. Tra l’altro non è ben chiaro il perchè, a questo punto, l’ingegnere ricevesse solo interlocutori con pantaloncini o mutande verdi. 47 scontrini, conservati gelosamente chissà  perchè, gli sono stati rimborsati “per errore”. Altri acquisti erano “FUTURI regali di rappresentanza”.
La difesa di Michele Giovine, capogruppo di “Pensionati per Cota”, condannato per appropriazione di 112.000 euro, afferma che l’attività  dei gruppi sarebbe svolta in regime privatistico, dunque l’imputato non è pubblico ufficiale.
Il consigliere Massimo Giordano sostiene che siano spese di rappresentanza anche quelle dal fruttivendolo e l’alloggio di sua moglie a Kiev.
Il consigliere Massimiliano Motta si fa rimborsare un beauty-case ma perchè “avendo un’udienza dal papa, si era reso conto di aver dimenticato il proprio”. Insomma, se vai da Papa Francesco e ti sei dimenticato il dentifricio o il dopobarba, pagano i cittadini.

(da TPI)

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“ACCUSE INVENTATE”: PROSCIOLTO IL CONSIGLIERE REGIONALE GRAZIANO (PD)

Giugno 13th, 2020 Riccardo Fucile

“CONTRO DI ME MACCHINA DEL FANGO, CON FALSO ACCOUNT FB CON FOTO E MIO NOME”

Avrebbe realizzato un falso profilo Facebook intestato al consigliere regionale del Pd Stefano Graziano, inserendo messaggi da cui emergeva la promessa di un posto di lavoro in cambio di voti fatta nei suoi confronti dal politico, che ha poi denunciato per voto di scambio.
È quanto accertato dal pm della Procura di Napoli Nord Patrizia Dongiacomo, che ha chiesto l’archiviazione per Stefano Graziano e altre due persone che erano state coinvolte nella denuncia presentata da Luigi Comparone, ovvero il consigliere del Comune di Aversa Pasquale Fiorenzano e Nicola Tirozzi.
Comparone rischia ora un’indagine per calunnia. La denuncia riguardava le elezioni comunali tenutesi ad Aversa nel 2019, e vinte dall’attuale sindaco Alfonso Golia. Comparone raccontò ai magistrati della Procura di Napoli Nord di aver avuto contatti, durante la campagna elettorale, con Graziano e Fiorenzano, e di aver ricevuto la promessa di superare il concorso per operatore socio-sanitario nel caso in cui avesse portato voti a Fiorenzano, candidato al consiglio comunale; Comparone tirò in ballo come “intermediario” un altro soggetto, Nicola Tirozzi, e consegnò agli inquirenti dei messaggi che erano nel profilo facebook di tal “stefano.graziano.940″; messaggi dal contenuto esplicito, in cui Comparone ribadiva lo scambio: “Buongiorno, io come ho promesso faccio il mio dovere, però si ricordi che domani mio cognato ha la prova”. Molto chiara anche la risposta: “Sta tranquillo, pensa a fare i voti, per il resto ci penso io, abbiamo chiesto anche per lui il 30″.
La Procura ha delegato la Polizia Postale alle indagini sui messaggi: Facebook ha così fornito l’Ip relativo alla connessione utilizzatrice del profilo, ovvero Windtre, mentre quest’ultima ha fornito i numeri telefonici collegati all’Ip, e tra questi è emerso quello Comparone.
Il cerchio di è così chiuso, e il pm ha chiesto al Gip di archiviare l’indagine. Per Graziano potrebbe trattarsi della seconda archiviazione in altrettanti indagini penali, dopo quella ottenuta per il procedimento per corruzione elettorale. Anche allora uscì indenne e pulito, ricevendo anche il plauso dell’allora premier Matteo Renzi.
“Oggi il mio legale, l’avvocato Vittorio Giaquinto, ha ritirato la richiesta di archiviazione, firmato dal Pubblico Ministero del Tribunale di Napoli Nord, per l’inchiesta su un presunto caso di voto di scambio in occasione delle ultime elezioni comunali ad Aversa”. Lo scrive su Facebook il consigliere regionale del Pd Stefano Graziano.
“Avevo scelto – racconta Graziano – di non divulgare la notizia in attesa che il giudice per le indagini preliminari firmasse il provvedimento rendendolo definitivo. Volevo che anche arrivasse la parola fine su questa brutta vicenda, ma di fronte alla solita macchina del fango che puntualmente si è messa in moto ho cambiato idea. Non c’è stata alcuna richiesta di rinvio a giudizio ma una richiesta di archiviazione. Chi è ossessionato da me se ne faccia una ragione. L’inchiesta di Aversa era basata su un grande falso costruito ad arte per danneggiare la mia figura politica. Un falso account Facebook con la mia fotografia e il mio nome e cognome nella cui chat di Messenger si parlava di impegni non mantenuti circa un concorso nella sanità ”.
“Un falso, fatto male come abbiamo dimostrato anche con l’ausilio di Facebook che ha riscontrato gli indirizzi ip dei soggetti coinvolti. Questi mesi – conclude – sono stato in silenzio perchè ho sempre avuto rispetto e fiducia nella magistratura, rispetto e fiducia che ribadisco anche oggi con l’auspicio che adesso si vada a fondo di questa vicenda attorno cui ci sono tante ombre che non riguardano me e le altre persone vicine a me che erano state coinvolte ingiustamente”.

(da “Huffingtonpost”)

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SE MAI CI SARA’, L’AVVISO DI GARANZIA RIGUARDERA’ TUTTI, COMPRESI FONTANA E GALLERA

Giugno 13th, 2020 Riccardo Fucile

PER IL “CORRIERE” CONTE E’ STATO CONVINCENTE… LE OPZIONI DELLA PROCURA DI BERGAMO

Fabio Martini sulla Stampa di oggi parla della possibilità  di un avviso di garanzia a Giuseppe Conte per la zona rossa ad Alzano e Nembro. Secondo il quotidiano si tratta di una possibilità  remota che porterebbe con sè un’ulteriore eventualità : l’iscrizione nel registro degli indagati   coinvolgerà  non soltanto il presidente del Consiglio ma anche il ministro della Salute Roberto Speranza e le due figure apicali della sanità  lombarda, il Presidente della Regione Attilio Fontana e l’assessore Giulio Gallera.
Il presidente del Consiglio è convinto di aver scongiurato la “grana” della quale nessuno parla, ma che per lui sarebbe anche la più fastidiosa: l’iscrizione nel registro degli indagati.
Certo, un’eventualissima iscrizione si configurerebbe come un atto dovuto, tanto più per chi — come Conte — conosce il combinato disposto tra l’articolo 40 del Codice penale («Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo») e il 438 che individua il reato di epidemia.
L’ipotesi di reato sulla quale si muove la Procura di Bergamo è quella di epidemia colposa, reato assai meno incisivo di quello di procurata epidemia che prevede una pena massima eloquente: l’ergastolo.
Conte è convinto di aver allontanato da sè un passaggio fastidioso più dal punto di vista dell’immagine che da quello giudiziario. Anche perchè se davvero la Procura di Bergamo dovesse accertare i prodromi di un’indagine che veda coinvolta rappresentanti di governo, sarebbe costretta a passare immediatamente la mano, trasmettendo le carte al Tribunale dei ministri.
A quel punto l’apposita sezione, formata dal Tribunale di Bergamo, dovrebbe svolgere una vera e propria indagine e, là  dove dovesse individuare ipotesi di reato, dovrebbe chiedere l’autorizzazione a procedere alle Camere e nel caso di Conte (che non è parlamentare) ad essere competente sarebbe il Senato.
Anche il Fatto Quotidiano spiega oggi che la situazione è per tutti simul stabunt, simul cadent:
Il fascicolo è incardinato a modello 44 cioè con il reato di epidemia colposa ma contro ignoti. Tre i filoni: la zona rossa, i morti nelle Rsa e la mancata chiusura dell’ospedale di Alzano. Sul tavolo il procuratore ha un’opzione. Se iscriverà  lo farà  per tutti, rappresentanti del governo e della Regione.
Dopodichè però bisognerà  capire la competenza territoriale: Bergamo, Milano, Roma e come spiegare il nesso di causalità  tra il numero di morti e la mancata zona rossa. Insomma non è facile.
Secondo il Corriere della Sera invece l’audizione di Conte è stata convincente.

(da “NextQuotidiano”)

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COSA HA DETTO CONTE SULLA ZONA ROSSA IN VAL SERIANA ALLA PROCURATRICE DI BERGAMO MARIA CRISTINA ROTA

Giugno 13th, 2020 Riccardo Fucile

AGLI ATTI NON RISULTANO RICHIESTE DELLA REGIONE LOMBARDIA PER L’ISTITUZIONE DI ZONE ROSSE… PROPRIO IN QUEL PERIODO CONTE AVEVA RICEVUTO LA RICHIESTA DELLA REGIONE DI PROROGARE QUELLA DI CODOGNO, MA MAI GLI FU CHIESTO DI INCLUDERE QUELLA DI ALZANO E NEMBRO

Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera oggi racconta cosa ha detto Conte sulla zona rossa in Val Seriana alla procuratrice di Bergamo Maria Cristina Rota nell’audizione in cui il presidente del Consiglio è stato ascoltato in qualità  di testimone:
Ricostruisce quanto accadde tra il 3 e l’8 marzo e spiega che in quel momento «i contagi erano ormai estesi a numerosi paesi, quindi sarebbe stato inutile limitarsi a due sole aree». E assicura che il governatore Attilio Fontana e l’assessore Giulio Gallera «furono costantemente informati di ogni mossa». Saranno i magistrati a dover stabilire se questo ritardo di cinque giorni abbia provocato un aumento dei contagi da coronavirus, ma la sensazione che si ricava al termine di una giornata segnata anche dagli interrogatori dei ministri dell’Interno Luciana Lamorgese e della Salute Roberto Speranza — tutti come persone informate dei fatti — è che la difesa del governo sia stata convincente. […]
Nel corso dell’interrogatorio viene affrontato anche il rapporto tra scienziati e politici e Conte ribadisce quanto è ormai stato acclarato dalle verifiche svolte nei giorni scorsi ascoltando la versione del professor Brusaferro e quella del consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi: il parere del Comitato è consultivo ma non vincolante. Convocati dai magistrati anche i due scienziati hanno infatti ribadito che le loro «valutazioni servono a dare un indirizzo, ma alla fine l’ultima parola deve essere del decisore politico».
Del resto, come Conte ha detto più volte, «i virologi hanno come obiettivo soltanto l’effetto contenitivo, dunque giustamente dal loro punto di vista sollecitano un lockdown, noi dobbiamo affrontare le vicende nel loro complesso».
Agli atti dell’indagine non risultano richieste formali presentate dalla Lombardia per l’istituzione di “zone rosse”. Quando i pm ne chiedono conferma a Conte il premier dichiara: «Proprio in quel periodo avevo ricevuto dalla Lombardia la richiesta di prorogare la “zona rossa”a Codogno, ma mai mi fu chiesto di includere nell’area interdetta anche Alzano e Nembro. In ogni caso quando abbiamo fatto le nostra valutazioni le abbiamo condivise con la Regione».
Una linea confermata da Speranza quando ha spiegato che «i contatti con le Regioni e in particolare con la Lombardia sono stati costanti e continui nell’affrontare l’emergenza».
Ecco perchè, quando i pm chiedono al presidente di ricostruire quanto avvenne la notte fra il 7 e l’8 marzo, lui non ha esitazione a sottolineare che «anche in quell’occasione ci fu condivisione prima di arrivare alla decisione.

(da agenzie)

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