CHI VIVE A CASAPOUND? IANNONE HA MESSO LI’ LA MOGLIE, DI STEFANO SE STESSO E IL FRATELLO: EMERGENZA ABITATIVA RISOLTA, MA PER I PROPRI CARI
L’INQUIETANTE INCHIESTA DE L’ESPRESSO: PARENTI E AMICI VIVONO GRATIS NEL CENTRO DI ROMA… VENTI APPARTAMENTI DI CUI NESSUNO CONOSCE I RESIDENTI
Grand Hotel CasaPound.
Nel cuore della capitale, con vista sulle cupole della basilica di Santa Maria Maggiore, la stazione Termini dietro l’angolo.
Loro, i fascisti del terzo millennio che puntano a portare “guerrieri” in Parlamento, la chiamano «ambasciata d’Italia nel quartiere multietnico della capitale».
§Ma il palazzo sede ufficiale di CasaPound è un edificio pubblico occupato senza titolo dal 27 dicembre 2003. In più di quattordici anni neanche un tentativo di sgombero. E non si tratta di un appartamentino popolare in uno dei quartieri periferici, là dove il partito di Simone Di Stefano punta a raccogliere consensi alle prossime elezioni.
Si tratta invece di sessanta vani, almeno una ventina di appartamenti in una zona dove i prezzi di mercato sono tra i più alti di Roma.
Sei piani, una quarantina di finestre con affaccio sulla centralissima via Napoleone III, una terrazza con vista mozzafiato. Una sala per gli incontri politici all’ultimo piano dove ospitare presentazione di libri, conferenze stampa e confronti in diretta streaming con le star del giornalismo.
Il Grand Hotel non ha prezzi popolari. «Un appartamento normale per una famiglia con due camere da letto in via Napoleone III? Non meno di 1.100 euro al mese», spiega all’Espresso una agenzia immobiliare di piazza Vittorio.
Un valore sul mercato degli affitti di circa 25 mila euro al mese – includendo anche gli spazi per le iniziative politiche – 300 mila all’anno, più di quattro milioni nei 14 anni di occupazione abusiva.
Soldi che ha perso il Demanio, ovvero lo Stato, proprietario dell’immobile.
Il Comune di Roma nel 2007 aveva inserito il palazzo in una lista di occupazioni da parte di famiglie in emergenza abitativa.
Nell’aprile del 2016 il commissario straordinario Francesco Tronca aveva compilato una shortlist di 16 immobili da sgomberare, rispetto ai quasi cento edifici occupati abusivamente nella capitale.
La sede di CasaPound, però, era inclusa in una più ampia lista, non interessata in quel momento da operazioni di sgombero. La decisione su questi altri immobili era rinviata a «successivi provvedimenti». Da allora nulla è accaduto, qui.
Invece gli etiopi e gli eritrei che occupavano via Curtatone – poco distante – sono stati cacciati via manu militari la scorsa estate, lasciando in strada famiglie con bambini e anziani.
Per la felicità di Simone Di Stefano, che lo scorso agosto dichiarò: «Giusto sgomberarli». Per gli abusivi di CasaPound i parametri però sono altri.
Il Comune di Roma non ha fatto nulla: «Non è mai stato realizzato un censimento delle famiglie che abitano in via Napoleone III», spiegano gli uffici capitolini, che aggiungono: «Nessuno ce lo ha richiesto».
Censire le famiglie, individuando le fragilità sociali, è l’atto che normalmente la Prefettura chiede prima di liberare un edificio occupato. Passaggio necessario, soprattutto dopo l’ultima circolare del Ministero dell’Interno che impone ai Comuni di trovare soluzioni abitative per le famiglie obbligate a lasciare uno stabile occupato. Ma nel caso di CasaPound nessuno sa chi vive nell’edificio nel quartiere dell’Esquilino.
E nessuno sa se qui abbiano preso casa famiglie veramente in stato di bisogno. Quell’edificio è un’isola abusiva di fatto sconosciuta, mai censita.
Invisibile, tanto da essere stata curiosamente esclusa, nel 2010, dalla mappatura degli edifici occupati abusivamente compilata dalla Commissione sicurezza di Roma Capitale, all’epoca della giunta guidata da Gianni Alemanno.
Abusivi, ma “per necessità ”, sostengono da sempre i militanti della tartaruga frecciata. È così?
All’Espresso risultano residenti nel palazzo occupato i vertici nazionali dell’organizzazione di estrema destra.
A partire dal candidato premier Simone Di Stefano, che al momento della presentazione delle liste per le politiche del 2013 ha dichiarato come residenza anagrafica proprio via Napoleone III, civico 8.
C’è poi la moglie del presidente Gianluca Iannone, Maria Bambina Crognale, che alla Camera di Commercio nel 2014 aveva dichiarato quello stesso domicilio nelle schede delle società dove ancora oggi ha ruolo di rilievo.
È una delle socie della catena di ristoranti “Angelino dal 1899”, con locali nella capitale, a pochi passi dal Colosseo, vicino alla stazione centrale di Milano, a Malaga e a Lima, in Perù.
Un piccolo impero della ristorazione. E, ancora, tanti altri volti noti dell’estremismo di destra romano, infilati nelle liste elettorali durante le ultime elezioni comunali del 2016.
Tutti in “emergenza abitativa”?
Il Grand Hotel CasaPound è poi la sede amministrativa di cooperative e associazioni, parte integrante di quel network creato dal movimento politico nel corso degli anni. CasaPound è probabilmente la lista elettorale con più metri quadrati a disposizione nella capitale per l’attività politica.
«CasaPound? È un’isola, non interagiscono con il quartiere», spiega un commerciante, che lavora all’Esquilino dal 1988.
«Escono solo quando serve politicamente», aggiunge. Come a metà febbraio, quando in una trentina hanno organizzato una delle tante “passeggiate per la sicurezza”: una sfilata a uso e consumo di fotografi e operatori, con spintoni e insulti verso una ragazza che aveva provato a contestare il taglio xenofobo del sit-in.
Una trentina di militanti, foto di rito nel centro dei giardinetti, un giro di piazza Vittorio e poi di nuovo chiusi nell’edificio di via Napoleone III.
Poco prima, accanto ai rituali slogan anti migrazione, Davide Di Stefano – fratello del candidato premier che nel 2011 rivendicava con orgoglio: «Io abito qui». Gratis, in un edificio pubblico
Il palazzo di via Napoleone III non è solo un ottimo alloggio a costo zero per militanti e vertici del movimento. È diventato il vero simbolo di CasaPound, un avamposto nel cuore della capitale.
Quando, a fine gennaio, girò la voce di un possibile sgombero, Gianluca Iannone spiegò senza mezzi termini: «Sarebbe un atto di guerra. Ma se non altro vorrà dire che, in un’epoca ignobile come questa, anche noi avremo la possibilità di morire per un’idea».
La scelta di mettere l’avamposto nazionale nel cuore del quartiere più multietnico di Roma ha sempre avuto un significato altamente politico per il movimento ultradestra. Il problema però è un altro: in questi quattordici anni nessuno ha affrontato seriamente la questione.
Gli abusivi di CasaPound hanno potuto vivere e agire politicamente nel cuore della capitale senza mai pagare neanche un euro per gli spazi e senza che nessuno bussasse alla loro porta per chiedere il conto.
Dopo l’occupazione del 27 dicembre 2003 il Miur – il dicastero che ha in carico l’edificio – ha presentato una denuncia informando il Prefetto e l’avvocatura dello Stato, chiedendo lo sgombero.
Pochi mesi dopo, però, nel maggio del 2004, viale Trastevere ha comunicato all’Agenzia del Demanio di voler riconsegnare il palazzo “per cessate esigenze istituzionali”: richiesta respinta proprio per via dell’occupazione abusiva di CasaPound.
Da allora, spiegano all’Espresso gli uffici del Miur, «il ministero non ha intrapreso azioni per rientrare in possesso dell’immobile», salvo sollecitare nel 2008 «le autorità competenti in merito alla denuncia, richiedendo ancora una volta lo sgombero».
Atti che – a quanto sembra – non hanno avuto conseguenze, tanto che oggi la Prefettura di Roma segnala che «non ci sono provvedimenti dell’autorità giudiziaria» sull’immobile.
Nel frattempo i militanti di destra sono diventati padroni incontrastati dello stabile. Gli ex uffici si sono trasformati in appartamenti, con l’installazione di telecamere di videosorveglianza all’ingresso.
Sulla facciata del palazzo è comparsa l’enorme scritta in pietra – abusiva anche quella – in stile ventennio: “CasaPound”. Demanio e Ministero dell’Istruzione oggi si rimpallano le responsabilità : l’agenzia che gestisce gli immobili dello Stato sottolinea di aver chiesto al Miur di adoperarsi contro l’occupazione abusiva. Il Miur, dal canto suo, sostiene di non avere più in carico il bene e che il palazzo è «rientrato nella sfera di competenza dell’Agenzia del Demanio».
La situazione sembrava potersi sbloccare nel 2009, ma non nella direzione sperata. Un anno dopo l’elezione a sindaco di Gianni Alemanno, il Demanio accetta di inserire il bene in un protocollo d’intesa col Comune di Roma, con l’intenzione di cederlo al Campidoglio per 11 milioni e 800 mila euro. L’operazione viene inserita con discrezione in un pacchetto di permute di immobili, ex caserme e terreni demaniali. Ma non passa inosservata.
L’opposizione di sinistra già vede il palazzo, una volta acquistato da Alemanno, concesso in comodato d’uso ai neofascisti.
Così l’accordo salta tra le polemiche e tutto resta come prima. Intanto i solleciti inviati dal ministero in Prefettura e ai carabinieri sono sempre rimasti lettera morta.
Ma l’aura di intoccabilità della sede di CasaPound non finisce qui. Le utenze di acqua e luce, ad esempio, sono attive nonostante il decreto Lupi del 2014 richieda l’esistenza di un titolo abitativo valido per l’allaccio delle utenze.
Nel 2004 vi fu un primo distacco, per disattivare le vecchie utenze Acea e Telecom intestate al ministero. Il 10 febbraio del 2016 la Polizia di Stato ha fornito il supporto per il taglio delle forniture, poi però misteriosamente riallacciate. Acea – società partecipata al 51 per cento dal Comune di Roma – non vuole commentare la questione trincerandosi dietro alla privacy: «Alla luce dei vincoli di riservatezza gravanti sull’Azienda non è consentito fornire informazioni circa la titolarità e lo stato di specifiche posizioni», è la burocratica risposta.
Impossibile, dunque, sapere a chi siano intestate oggi le utenze. E chi le paga, se qualcuno le paga.
Nessun soggetto istituzionale ha mai predisposto una stima del danno erariale causato dall’occupazione del palazzo di via Napoleone III. E tra gli sgomberi che le autorità hanno in programma nella capitale, su quello di CasaPound resta sempre il timbro “non prioritario”.
(da “L’Espresso”)
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