D’ALEMA E I (FINTI) VETI SUL CANDIDATO: MA LA PARTITA VERA SI GIOCA A OTTOBRE
L’SMS DELL’EX PREMIER A EPIFANI: “QUALSIASI COSA DECIDERAI, AVRAI IL MIO SOSTEGNO”
È tutto rinviato. Ma non a data da destinarsi. A ottobre.
Lì si decideranno le sorti del Partito democratico. E anche quelle del governo.
Non sotterrano l’ascia di guerra, i maggiorenti del Pd, ma la depongono per un po’.
Per quel che basta per arrivare al redde rationem, che ormai è inevitabile.
Le parole che accompagnano il Pd in questi giorni complicati non sono esattamente beneauguranti: «Epifani? È come far tornare Mazzone sulla panchina della Roma», dice qualche dirigente di fede giallorossa.
Ma anche il più importante dei tifosi del Pd, ossia Massimo D’Alema, non storce un baffo e non alza un sopracciglio.
Benchè sia arrabbiato perchè dall’entourage di Franceschini lo hanno dipinto come vinto e sfatto.
Hanno addirittura detto che aveva posto un veto su Epifani, che si è dovuto rimangiare. La storia è un po’ diversa.
Quel veto c’era quando per la prima volta si parlò dell’ex leader sindacale come segretario. Era un escamotage di Bersani e dei suoi per evitare il congresso, la resa dei conti interna, e, soprattutto, per scongiurare la prospettiva di dover ridare indietro tutte le poltrone importanti.
Ma quando si è capito che l’ex segretario aveva mollato l’osso e il piano, D’Alema non ha avuto problemi a mandare il suo sms a Epifani: «So che stanno inventando storie che riguardano miei veti su di te, sappi che non è vero e sappi che qualsiasi cosa tu deciderai di fare avrai il mio sostegno».
L’ex presidente del Consiglio attribuisce a Franceschini la colpa di queste indiscrezioni messe ad arte in giro.
Già , perchè il giochetto sarebbe questo: dipingere l’esito dell’affanno Pd come la nascita di un asse Letta-Bersani-Franceschini a cui, ovviamente, soccomberebbero sia D’Alema che Renzi.
E non importa che i due la pensino molto diversamente: quel che conta è dimostrare che c’è chi ha vinto e chi ha perso, e che nella seconda categoria ci sono quelli che, per un motivo o per l’altro, potrebbero far traballare il governo.
È così? Non è così? Difficile sapere la verità in questo Pd dove ognuno gioca contro l’altro. Ma una traccia c’è.
Non di verità : una traccia di come il Pd sta vivendo questo connubio complicato con il governo.
È di nuovo Franceschini il protagonista, suo malgrado. Ma è a lui che gli ex Ds imputano questa versione light della conventio ad excludendum, che taglia le unghie a Gianni Cuperlo, mette in difficoltà D’Alema e lascia tutta la sinistra in affanno e in difficoltà .
Questa volta il protagonista – involontario – è Veltroni. Il suo «uomo», Marco Minniti, dovrebbe prendere la delega per i Servizi.
Anzi, sarebbe più corretto scrivere che avrebbe dovuto prendere, perchè la storia becca una curva e non riesce a tenere il passo.
Enrico Letta chiama Minniti e gli promette: «Aspetta qualche giorno e ti darò la delega ai Servizi».
Di giorni ne passano tanti e non si sa più niente. Gianni Letta ha chiesto per conto di Silvio Berlusconi che quella delega vada a Gianni De Gennaro.
Letta – Enrico – non si fa più sentire con Minniti.
Franceschini invece fa sapere che il governo non ha gradito l’intervista di Veltroni al Corriere e che quindi il veltroniano Minniti potrebbe aver perso la sua buona occasione.
Sarà anche questo un conto da regolare al Congresso prossimo venturo.
Chi sembra che non abbia nessuna voglia di chiedere o trattare in vista di quell’appuntamento è Matteo Renzi: «In teoria ora dovrei fare l’incazzato, chiedere, pretendere e accusare, ma non voglio fare il Pierino, quello che dice sempre di no, per me non c’è nessun problema, facessero quello che vogliono».
I renziani, o almeno la maggior parte di loro, ossia quelli che non rispondono al rito fiorentino stretto, non sono d’accordo.
Pensano che il capo non debba trascurare il partito.
Lui, per ora, da quell’orecchio non ci sente, ma chissà che di qui a ottobre non cambi idea.
Maria Teresa Meli
(da “il Corriere della Sera“)
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