DENTRO LONDRA, LA WUHAN SUL TAMIGI
NELL’INTRECCIO INFERNALE TRA BREXIT E COVID
Ho capito di essere a Wuhan-sul-Tamigi quando il mio cellulare ha iniziato a saltellare di messaggi premurosi di amici impensieriti, del tono di quelli che si mandano dopo un terremoto o un attentato.
Mi ero appena svegliata e sono corsa alla finestra per controllare la piccola porzione di mondo che da dieci mesi a questa parte chiamo Londra: un giardino pubblico su una piazza vittoriana da un lato e dall’altra la City, lucente e troppo distante per capire se sia viva o no. Ho visto un papà far camminare il suo bimbo in tuta azzurra su un muretto e il nostro filosofo di quartiere, seduto su una panchina con una birra, continuare ad alta voce la sua guerra di parole, mentre due ragazze senza mascherina gli passeggiavano accanto. La normalità spenta di questi tempi, nè più nè meno.
“Ma cosa sta succedendo lì da voi?”, mi scrive un’amica con cento punti interrogativi. “Meno di quello che pensi”, vorrei rispondere, ma non è vero neppure questo: siamo nel pieno di una crisi di proporzioni bibliche, ma non è nulla che un titolo di giornale o un messaggino possa riassumere. E questa variante inglese che aleggia sulla città , con tutto il rispetto per la verità scientifica che onoro e riverisco sopra ogni altra cosa, sembra l’opera dell’angelo vendicatore dei deliri isolazionisti dei tempi recenti.
Io e mio marito nell’ultimo anno siamo diventati due sassi: nulla o quasi ci scalfisce. Abbiamo imparato a entrare e uscire dai lockdown con la grazia di due pattinatori, prendiamo alla lettera l’andare “a cena fuori” – giacconi e sciarpa a 5 gradi, pregando che il fungo accanto al tavolo all’aperto funzioni — e al Natale avevamo già rinunciato da tempo, stringendo piccoli patti cauti con altre famiglie, e sono tante, che come noi hanno deciso di non tornare in Italia in questo periodo. Troppi rischi, troppe quarantene, troppe inversioni di marcia da parte di un premier in stato confusionale, uno che non ha ancora capito che le promesse fatte con l’aria da ex simpatico a cui non funzionano più i vecchi trucchi non le ascolta più nessuno.
Con quei numeri e quella variante già in giro, definire “francamente disumano” cancellare il Natale è stata una ennesima mossa scriteriata, seguita da un inevitabile cambio di rotta che ha fatto sentire presi in giro tutti, da noi stranieri agli amici inglesi in isolamento da giorni per prepararsi a vedere i parenti. Ogni paese ha la sua variante di incompetenza: in questo caso c’è una classe politica che evidentemente non crede in quello che dice e che, a furia di inversioni di rotta, è riuscita a combinare un disastro anche con la popolazione più pragmatica e disciplinata del mondo.
Poi, in un crescendo faticoso anche per noi sassi, è arrivata la notizia del blocco aereo. Isolani di un’isola isolata. Un brutto pensiero, ennesimo ridimensionamento del nostro perimetro di libertà , della nostra idea di ottimismo, dei nostri diritti (a cui, stando da un anno in salotto, pensiamo sempre meno spesso). E soprattutto un incubo pratico per migliaia di persone, soprattutto giovanissimi, che non hanno una domesticità rodata come la nostra a cui tornare per improvvisare un Natale mutante. Bastava comunicare prima, comunicare meglio? O avrebbe portato troppi rischi di contagio, troppi errori come quelli fatti con Wuhan all’inizio?
Ripenso all’amico che per andare dalla famiglia in Romania dovette passare due settimane in un albergo circondato dai lupi in Transilvania a mangiare quello che gli mettevano davanti alla porta chiusa dall’esterno: sarebbe stata una soluzione accettabile per noi? Intanto una mail mi informa che secondo uno studio un italiano su dieci sta pensando di tornarsene in patria in via definitiva. Inevitabile, vista l’incertezza monumentale di questi tempi in cui l’organizzazione è tutto. I cieli si riapriranno, speriamo presto, ma che ne è di quella «divina vitalità » di Londra di cui parla Virginia Woolf? Basteranno gli aerei per riaccenderla?
Al supermercato lo scaffale della carta igienica questa volta è pieno, la gente si arraffa ‘mince pies’ e altre prelibatezze natalizie, ma alcuni cartelli spiegano che forse ci saranno difficoltà nei rifornimenti di cavolfiori e cavoletti di Bruxelles nei prossimi giorni di intreccio infernale tra Brexit e Covid, una sciagura fatta in casa e l’altra caduta dal cielo, in combutta per sentenziare l’enorme fallimento di una politica piaciona e cinica. Nella tempesta perfetta della Londra del dicembre 2020 sembrano essersi dati appuntamento i peggiori spiriti degli anni passati: populisti, opportunisti, hacker, manipolatori da social, riformisti mosci, scettici vari, stampa trash, roba che Ebenezer Scrooge farebbe una smorfia di orrore.
Mentre la ministra dell’Interno Priti Patel invita a fare la spia sui vicini che infrangono le regole, i cieli sono vuoti e le autostrade del Kent sono intasate di camion i cui conducenti stanno vivendo un dramma parallelo a quello dei viaggiatori bloccati negli aeroporti, senza cibo nè servizi e con un carico da difendere dal deperimento. In Francia accade lo stesso, ma in un giro di vite nella disperazione, i britannici sono anche angosciati all’idea che tutti quei camion fermi vengano usati come cavalli di Troia da migranti desiderosi di entrare nel loro territorio.
Qualche anno fa per Natale regalammo ai miei suoceri una bellissima coperta con la Union Jack. La lana era pregiata, i colori scuri evitavano sia l’effetto “nostalgia dell’impero”, sia quello “bikini di Geri Halliwell”. Prima della Brexit il Regno Unito era anche questo, tre colori in croce che parlavano di avanguardia e libertà , scienza e arte e di una città che aveva come unico problema il suo enorme successo. Con tutta la comprensione per certi processi che hanno portato alla Brexit, ma chi, in quel 52% di elettori che ha voluto uscire dall’Europa, può essere soddisfatto davanti a una tale situazione, mi chiedo guardandomi intorno per le strade svuotate, ma tranquille del mio quartiere. Quando gli aerei riprenderanno a volare, i britannici scopriranno che il loro posto nel mondo è cambiato e che il loro futuro è stato deciso così, a colpi di braccio di ferro e di annunci a effetto nella settimana dell’apocalisse, quella in cui tutti i nodi vennero a galla.
Cristina Marconi
(da “Huffingtonpost”)
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