DI MAIO INNESTA LA RETROMARCIA SU TRIA
UN SUO ADDIO IN PIENA MANOVRA AVREBBE UN COSTO TROPPO ALTO, GLI INVESTITORI INTERNAZIONALI CI LASCEREBBERO IN BRACHE DI TELA, L’HA CAPITO PERSINO GIGGINO
Dopo essere passati da zero a cento nell’arco di un battito di ciglia, oggi è il giorno della grande retromarcia.
Il Movimento 5 stelle ha gettato in mare una serie di messaggi in bottiglia assai distensivi, sapendo che la corrente tira verso il lido di via XX settembre.
In sostanza: le dimissioni, l’abbandono, la resa di Giovanni Tria non è una variabile del grande gioco della legge di stabilità . E non lo è in nessun caso, sia che i soldi per il reddito di cittadinanza saltino fuori, sia che alla fine i desiderata di Luigi Di Maio non vengano soddisfatti.
La marcia indietro è partita proprio da qui. Da quando ci si è accorti che le parole del capo politico del M5s avevano fatto saltare la frizione di una macchina che rischiava il frontale.
Perchè all’Economia quella dichiarazione (“Un ministro serio dieci miliardi li trova”) non è piaciuta affatto. Soprattutto nell’aggettivazione scelta. Così i pompieri hanno iniziato a gettare acqua sul fuoco, spiegando che il concetto era più ampio, che nessuno ha mai messo in dubbio la serietà del ministro.
Il punto è che quando i toni si sono alzati fino a superare il livello di guardia, Tria ha messo le proprie dimissioni sul piatto.
Un’eventualità che la parte più barricadera dei 5 stelle ha accolto facendo spallucce. Ma Di Maio sa perfettamente che il sentiero che passa per la sostituzione del titolare del portafoglio economico in piena legge di stabilità è strettissimo, e ha strapiombi da ambo i lati.
Si chiamano impennata dello spread, fibrillazioni dei mercati, campagne stampa avverse. E l’operazione immaginata di dare la responsabilità del patatrac al solo Tria non regge.
Così l’opzione della sua sostituzione come misura estrema di fronte a una eventuale ostinazione è tramontata.
L’assedio non viene tolto. Laura Castelli, viceministro dell’Economia, intervistata da Radio Capital dice chiaramente che “con il deficit all’1,6% non si può fare nulla”. L’esponente dei 5 stelle è convinta che non sarà quello il numero magico apposto sulla nota di aggiornamento del Def.
“Non posso parlare di numeri — continua – i mercati ci stanno osservando e questi sono numeri delicati”. Ma la spinta è affinchè si raggiunga un compromesso tra la soglia fissata dall’ex professore di Tor Vergata e il 2,3/2,4% dei desiderata della maggioranza.
Lo stesso vicepremier dall’estremo oriente dice sì che “Non possiamo aspettare 2 o 3 anni per mantenere le promesse. È per questo che si attinge un po’ di deficit”.
Ma torna a battere sul tasto della rassicurazione: “È questa la nostra intenzione, ma tenendo i conti, senza voler fare nessuna manovra distruttiva dell’economia”.
Anche il fronte parlamentare si raffredda. Ieri lo spin era di un’ebollizione del gruppo parlamentare stellato. Primi tasselli della narrazione di un tecnico esecutore di un contratto che prevarica gli eletti dal popolo. Tutto rientrato.
Con il capogruppo Francesco D’Uva che è dovuto rincorrere a smentire l’esistenza di un documento in preparazione da parte del gruppo parlamentare come riportato da alcuni giornali.
E lo stesso Giuseppe Conte sta svolgendo una ricognizione tra tutti i capigruppo dei partiti come segnale per rasserenare gli animi (o prendere tempo finchè Di Maio non torna dalla Cina, suggeriscono i maligni).
Una grande manovra di interruzione dell’inerzia anti-Tria (“Faccia il lavoro per cui è pagato”, dicevano ieri i colonnelli del Movimento), che non smorza l’irritazione nei confronti di un ministro considerato rigido ai limiti del tecnocratismo, ma che semplicemente prende atto che rimuoverlo o costringerlo a un passo indietro avrebbe un prezzo salatissimo da pagare.
Per questo fonti parlamentari spiegano che l’obiettivo è un altro: “Qualora non si trovassero i soldi, dovremmo passare i primi mesi dell’anno prossimo a fare piazza pulita al Mef. Al ministero ci sono una serie di persone che proteggono lo stesso sistema da anni, e non ti fanno capire i termini della questione”.
Un’istanza che al governo non vedono affatto male: “Parliamo di dieci miliardi, non cento. Sono cose che hanno sempre fatto tutti i governi”. Un tema che d’altra parte era stato tra i grandi cavalli di battaglia di Matteo Renzi, che tra i tecnici del ministero, la ragioneria dello stato e i mandarini del Senato aveva costruito un’inafferrabile nemico diffuso ostile alla rottamazione.
Fatto sta che le attenzioni si sono spostate da Tria alla struttura che lo mal supporta, in un’inversione a metà tra la presa di coscienza della situazione e la necessità di individuare il nemico.
In una delle sue formidabili vignette, Giovannino Guareschi scriveva: “La frase pubblicata sull’Unità : ‘Bisogna spiegare il significato delle manacce governative’ contiene un errore di stampa e pertanto va letta: ‘…Il significato delle minacce governative’.
Vale oggi lo stesso per il Movimento 5 stelle: “Contrordine compagni!”.
(da “Huffingtonpost”)
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