“DUE ANNI FA CI ALLENAVAMO SU CAMPETTI ALLAGATI CON LE AQUILE CHE CI VOLAVANO SOPRA LA TESTA”: IL MIRACOLO DELLA NAZIONALE DI BASKET DEL SUD SUDAN
MERITO DELL’EX STELLA DELLA NBA LUOL DENG, PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE LOCALE, CHE HA DECISO DI CHIAMARE I CAMPIONI CRESCIUTI ALL’ESTERO: “SIAMO UNA SQUADRA DI RIFUGIATI”… AL MATCH D’ESORDIO AI GIOCHI HA BATTUTO IL PORTORICO
Nato il 9 luglio 2011: quando il tassametro dei punti messi insieme in Nba dai mammasantissima LeBron James, Kevin Durant, Steph Curry, Jrue Holiday segnava già 29.994 punti e il più giovane dei suoi dodici cestisti a cinque cerchi – Khaman Maluach, il gigante (219 centimetri) non ancora maggiorenne che maturerà alla Duke University – aveva più di cinque anni.
Il Sud Sudan, quel giorno, neanche poteva fantasticare di giocarsela nel basket punto a punto con gli Stati Uniti, evento successo realmente una settimana fa (101-100 deciso sulla sirena da LeBron James) in amichevole a Londra e che potrebbe riproporsi mercoledì in gara ufficiale a Lille, o di sbarcare alle Olimpiadi, unica rappresentante dell’Africa tra i canestri.
L’utopia non circolava ancora nella mente illuminata del pigmalione cestistico Luol Deng, allora pezzo grosso sul parquet dei Chicago Bulls e in procinto di preparare la sua prima e ultima Olimpiade da giocatore sotto la bandiera adottiva della Gran Bretagna, dove trovò riparo nella sua gioventù itinerante da rifugiato e più giovane di nove fratelli.
E l’illuminazione, agevolata dal riconoscimento del Cio nel 2015 nel bel mezzo della guerra civile tra le etnie dinka e nuer, arrivò. «Organizzando camp di basket, ogni estate, vedevo che c’erano tanti ragazzi talentuosi di origine sud sudanese. E molti di loro, purtroppo, sceglievano di giocare con altre Nazionali», la scintilla che ha fatto scoccare nella testa di Deng la pazza idea di rimettere insieme i cocci (non solo) cestistici della diaspora del suo paese d’origine e di candidarsi a presidente della federazione locale, elezione avvenuta il 25 novembre 2019.
«Nel nostro Paese non abbiamo campi di basket al chiuso. Di fatto siamo un gruppo di rifugiati che sta facendo qualcosa di grande: mostrare che possiamo competere contro squadre di campioni e che anche il basket può rivelarsi fondamentale per lo sviluppo dell’Africa», il pensiero di Wenyen Gabriel, un altro dei figli del Sud Sudan sbocciati altrove (con un transito pure in Nba ai Lakers) riportati a casa da Luol Deng.
«Due anni fa ci allenavamo su campetti allagati con le aquile che ci volavano sopra la testa», ricorda il coach americano Royal Ivey, voluto da Luol Deng per i trascorsi comuni liceali (e il prestito delle scarpe da basket) alla Blair Academy, confrontando le strutture del Sud Sudan con quelle Nba degli Houston Rockets (dove è uno degli allenatori in seconda).
Anche il paese più povero del mondo, secondo uno studio commissionato nel 2023 dal Fondo Monetario Internazionale, può avere una spedizione olimpica di 14 rappresentanti: nel basket con 12 ragazzi acciuffati in giro per il mondo e nell’atletica leggera con Lucia Moris nei 100 metri femminili e Abraham Guen negli 800 maschili.
(da la Stampa)
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