FOIBE, IL RACCONTO DI NATI ESULI
ROBERTO PREDOLIN E PATRIZIA ZANELLA: “UN’INTERA POPOLAZIONE HA LASCIATO LE PROPRIE CASE, LA MEMORIA E’ UN DOVERE”
Roberto Predolin, nato esule, da bambino guardava Milano attraverso le sbarre del cancello che proteggeva il suo condominio: un piccolo villaggio di giuliani, dalmati e istriani arrivati in Lombardia per fuggire dalla furia dei militari agli ordini del maresciallo Tito.
«Era un mondo a parte — racconta —, c’era un grande giardino e ci trovavamo sempre lì, tra di noi. Quel cancello era un confine, un simbolo: eravamo isolati nel fortino e gli altri erano gli indiani fuori».
Dopo settant’anni dall’inizio del lungo esodo che portò quasi 300mila persone a lasciare le loro case giuliane e dalmate, oggi si commemorano i martiri delle foibe.
Il 10 febbraio del 1947 a Parigi un trattato di pace pose fine al conflitto in quel fazzoletto di terra, ultimo atto della Seconda Guerra Mondiale: dal 2004 questa data è riconosciuta dal Parlamento italiano come la Giornata del Ricordo.
«Non solo le foibe — dice Predolin, dirigente dell’Associazione nazionale Venezia, Giulia e Dalmazia —, l’altra tragedia vera è l’esodo: un’intera popolazione che viveva lì è stata costretta ad andare via».
I genitori di Roberto Predolin erano esuli dal 1944: durante il loro viaggio di nozze decisero di non far ritorno a casa, in Dalmazia, ma di costruire una nuova vita lontano dai paesaggi di sempre.
Dopo un breve vagare in Italia, raggiunsero Milano, città che si prometteva accogliente e nella quale altre vittime dell’esodo avevano trovato il loro rifugio sicuro. «In via Cremosano vivevo insieme a tutti gli esuli: il comune ci aveva donato il terreno e noi avevamo costruito i palazzi; lì vivevano almeno 200 famiglie».
Così, Predolin, ricorda come si viveva in via Cremosano, da esuli.
«Il racconto puntuale di quello che questi uomini e queste donne avevano visto davvero non c’è mai stato; a volte si lasciavano sfuggire qualche memoria degli eccidi, ma emergeva sempre mitigata. I miei genitori si sono sforzati di ricordare solo le cose belle, fino a quando la vera tragedia non è emersa anche per me»: l’odio etnico dei titini, le foibe, l’esodo.
Questa verità , nascosta e negata, spinse la comunità milanese verso l’esterno: con i circoli e le associazioni, chi era sopravvissuto — lasciando la propria terra — mantenne viva la memoria di chi non ce l’aveva fatta.
Nacque così il Circolo Giuliano-Dalmata, che «raccoglieva — ricorda Roberto Predolin — tutti gli esuli milanesi. La sede, in corso di Porta Vittoria, era stata donata dal Conte Borromeo D’Adda che, dopo aver conosciuto queste vicende, decise di ospitarci gratuitamente in un palazzo storico».
Tra feste ed eventi sportivi, la città incominciò a scoprire le crudeltà subite dagli italiani dell’Est, grazie anche a quei giovani esuli che avevano voglia di condividere la loro storia con gli amici di sempre.
Patrizia Zanella non ebbe paura ad invitare, proprio lì, i suoi compagni di classe: «Il circolo — racconta — era diventato un vero e proprio centro d’aggregazione. Organizzavamo cene e feste; per me era naturale invitare i miei amici, al di là che fossero originari o no di Zara».
La comunità giuliano-dalmata è da sempre caratterizzata da allegria e voglia di vivere. «L’aria di festa c’era e c’è ancora — prosegue Patrizia —; bastava che venisse a trovarci un amico istriano per condividere le sue emozioni con gli esuli e con gli altri italiani».«Mio padre era un boxeur — ricorda la Zanella —. Il 7 novembre 1970 ero andata con lui a Roma in occasione della finale mondiale del campionato pesi medi di boxe: sul ring c’erano Benvenuti e Monzon. Mio padre, Nino Zanella, dovette fare una semplice telefonata ad un suo vecchio conoscente di Zara per trovare le porte della sua casa aperte. Dormimmo lì, nel villaggio dell’Eur, nella loro casa. Questo è un esempio per dire come tra noi istriani c’è un legame quasi di sangue»
Un legame reso forte dall’esodo e dalla lotta per la verità che per lunghi decenni fu insabbiata.
Il boxeur Zanella ed i coniugi Predolin furono costretti a lasciare tutto quello che avevano per salvare le loro famiglie dalle foibe.
Nell’Italia che si risollevava dalla Seconda Guerra Mondiale il loro racconto strideva con la narrazione del boom economico e tutto veniva ridotto a una “rappresaglia” anti-fascista.
Oggi i documenti degli storici e le parole dei testimoni ci rivelano che queste sono storie di esuli italiani, vittime di un sopruso che non ebbe, e non può avere, colore politico.
Michele Chicco e Andrea Lucidi
(da “La Stampa”)
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