GIORGIA MELONI E I SUOI MILLE GIORNI TIRANDO A CAMPARE
LA CAPA AMMINISTRA IL POTERE MA NON VINCE PIU’, DOPO L’UMBRIA UNA SERIE DI SCONFITTE ININTERROTTE, ANCHE NELLE MARCHE TIRA UNA BRUTTA ARIA
Amministra il potere, distribuisce poltrone, incontra ormai persino Emmanuel Macron provando ad archiviare i loro pessimi rapporti, ma non vince più.
L’epoca dorotea di Giorgia Meloni non è iniziata in un giorno preciso: è una di quelle cose che silenziosamente accadono, tra una furbizia e l’altra, tra un dato Istat e l’altro, tra una mancata riforma e l’altra. A pagina 28 del dossier di Fratelli d’Italia sui due anni di governo campeggiano le tre riforme – premierato, autonomia, giustizia –, ma in pratica non vede l’alba ancora nessuna (sì, il premierato è stato reinserito nei lavori parlamentari per luglio, ma ogni volta che nelle riunioni di coalizione si pronuncia la parola, si alza l’azzurro Francesco Paolo Sisto e fa: «E la separazione delle carriere?»).
Oggi andreottianamente per Meloni «tirare a campare è meglio che tirare le cuoia». Il vero imperativo è a questo punto la durata, autentico assillo di autoassoluzione, la risposta a ogni incrinatura del percorso: il suo governo sfiora i mille giorni, è il quinto più longevo della Repubblica, tra due mesi supererà quello di Matteo Renzi, fra tre mesi supererà il primo di Bettino Craxi, tra undici mesi il quarto di Silvio Berlusconi, tra quindici il più longevo del Cavaliere: a settembre 2026, se sarà ancora là, Meloni avrà superato tutti. O si fa la storia, o (almeno) si fa la statistica.
Scomparsa da un pezzo la donna di popolo, persino la comunicatrice inciampa: il messaggio sul referendum lanciato il 2 giugno è parso incomprensibile persino ai suoi. «Una cosa alla Fazzolari», dicono gli anti-Fazzolari del suo partito, quelli che sopportano poco i modi e il potere del sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Una cosa di sinistra, di quella sinistra radical chic che non si fa capire dalla
gente, avrebbe invece detto la Giorgia di un tempo. Tra i bivacchi del Senato, impegnato nel voto di fiducia sul cosiddetto decreto sicurezza e nell’ennesimo scempio delle procedure parlamentari, a chiunque si chieda dei meloniani, nessuno pensa di fare come suggerito dalla premier, cioè andare al seggio ma non votare: «Non si va proprio, dai, mica possiamo fare davvero queste cose contorte», confessa un senatore.
Il bilancio elettorale è assai più doloroso degli scivoloni comunicativi. Il partito della premier resta alto nei sondaggi, meno nella realtà. «Sono mesi che perdiamo ovunque, tutto: da quando abbiamo perso l’Umbria, abbiamo vinto solo a Sulmona e Carsoli, in provincia dell’Aquila, e a Rozzano, in provincia di Milano», fanno il conto con le dita perplesse in Fratelli d’Italia, citando tre comuni che complessivamente totalizzano 65mila abitanti. Questo turno di amministrative, alla vigilia di ballottaggi che non fanno ben sperare, è andato come è andato: a Genova, oltre alla sconfitta del centrodestra, Fratelli d’Italia ha totalizzato il 12,4 per cento, meno della metà dei sondaggi nazionali (27,3 per cento secondo i dati Ipsos del 31 maggio), peggio pure del 15 per cento delle Regionali di ottobre; a Ravenna il 16,7; a Taranto l’8,6, a Matera il 10,4. E nubi nere si spandono sulle prossime Regionali, quelle d’autunno che sono destinate a essere un possibile punto di svolta della legislatura. Tolte le regioni considerate fuori discussione, dal Veneto alla Puglia, alla Toscana, in Campania la partita è considerata contendibile solo se si verifica la rottura (sempre più improbabile) tra il governatore uscente Vincenzo De Luca e il Pd. Dovesse esserci, «si candiderà Edmondo Cirielli, o anche Matteo Piantedosi, per puntare alla vittoria», spiegava l’altro giorno l’ex presidente campano Stefano Caldoro: «Nel caso opposto? Qualcuno lo troveremo». Non serve in realtà neanche scomodare il tempo futuro: qualcuno c’è, dicono più
fonti che Gennaro Sangiuliano già sgomita, insomma «habemus papa» (sic), come ebbe a dire anche l’ex ministro senza accusativo al momento della fumata bianca a piazza San Pietro.
Il vero danno possibile però aleggia sulle Marche. Nel 2020 fu l’unica regione a cambiare colore con la vittoria di Francesco Acquaroli, la seconda a guida Fratelli d’Italia dopo l’Abruzzo di Marco Marsilio (2019, confermato nel 2024), contribuì a segnalare l’onda nera in arrivo. A fine mandato, tuttavia, il lavoro di Acquaroli non è considerato a prova di bis, così come latita il suo attivismo: nulla di memorabile da segnalare, una campagna elettorale di recupero che potrebbe aver già preso il largo e che invece tarda a partire. Insomma anche li tira un vento di sconfitta: segnerebbe la fine di quel grumo di regioni centrali governate dal centrodestra (Abruzzo, Umbria, Marche, Lazio) che fino a un anno fa erano considerate un ottimo motore di consensi e operazioni varie.
Tutto questo spiega un umore che ancora non è emerso, ma serpeggia nei corridoi. È chiaro infatti che, con questi risultati, le quotazioni del numero due del partito, Giovanni Donzelli, siano al momento in discesa. Anche se nessuno per ora si sogna di mettere in croce il responsabile organizzazione del partito, che è poi quello chiamato a stringere i vari accordi elettorali sul territorio: tuttavia, come si dice, gli amici si vedono nei momenti difficili.
E così pure i politici: la luna di miele del 2022, il vento delle vittorie, ha soffiato a favore anche per lui; adesso soffia contro. Al punto che persino il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, fino a qualche mese fa in disgrazia, avrebbe riconquistato terreno. Anche se poi, bisogna dire, gli equilibri nei Fratelli d’Italia sono spaventosamente immobili, nonostante il continuo sobbollimento. L’intreccio di militanze, interessi, cordate, conoscenze reciproche, parentele, produce una specie di stasi da ricatto reciproco, stile film
di Tarantino, in cui alla fine nessuno si muove perché altrimenti sarebbe peggio per tutti. Anche l’arrivo ufficiale di Arianna Meloni a via della Scrofa, per dirne una, non ha prodotto quel cambiamento nei rapporti di forza che i favorevoli alla sorellizzazione di FdI immaginavano – nonostante la parata di ministri e altri notabili d’area per la festa del suo cinquantesimo a Colle Oppio, di fronte all’antica sede missina, al “Sanctuary”, tra fusion, piscine blu estoril, palloncini rosa e canne di bambù.
Si vedevano bene, i due poli del partito, al ricevimento del Quirinale per la festa della Repubblica: la sorella d’Italia più a suo agio nell’establishment rispetto all’anno scorso (al punto da indossare lo stesso abito del 2024), Donzelli in perenne simbiosi con il sottosegretario alla Giustizia, potentissimo e inamovibile avvocato Andrea Delmastro delle Vedove; ai due s’era aggiunto Galeazzo Bignami, il neopresidente dei deputati di FdI sorprendentemente in ascesa, a quanto pare anche per i suoi interventi in Aula, quelli che il vicepresidente azzurro Giorgio Mulé durante un battibecco ha memorabilmente definito «i suoi soliloqui che faccio finta di non aver sentito».
C’è da dire in effetti che, nell’umiliazione perenne dei lavori parlamentari, tale per cui ormai gli emendamenti non vengono nemmeno presi in esame (è accaduto in ultimo nelle commissioni di Camera e Senato, con il cosiddetto decreto sicurezza), il dibattito d’Aula è punteggiato di personaggi e parole che guizzano tra le maglie della cronaca, come quelle del senatore Gianni Berrino, che ha parlato l’altro giorno delle «donne che fanno figli per rubare e che non sono degne di farli», o della senatrice Tubetti che si è detta «stanca» dei parlamentari che vanno nei Centri di permanenza per i rimpatri: «Sarebbe meglio non disturbare con tutte queste visite nei Cpr la gente che lavora» (in effetti, specie in Albania, le forze
dell’ordine hanno visto più parlamentari di Pd e sinistra che migranti). Insomma i soliloqui vanno forte. Uno spettacolo che è destinato ad andare avanti, persino – dicono negli ambienti meloniani – nel caso di un turno di Regionali deludente. Dovessero invece essere i sondaggi di FdI, a scendere, allora sì che cambierà tutto.
(da lespresso.it)
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