Giugno 1st, 2025 Riccardo Fucile
A CASA BUCCI SONO TUTTI NERVOSI? LA “FENOMENA” NON AVREBBE VINTO SE TUO MARITO AVESSE GOVERNATO NELL’INTERESSE DI TUTTI E NON DI POCHI, FATTENE UNA RAGIONE
Troppo cocente la delusione per la sconfitta elettorale, così, anche la pacata signora
Laura Sansebastiano, contitolare di una nota pasticceria a Carignano e soprattutto consorte dell’ex sindaco oggi presidente di Regione Liguria Marco Bucci, sui social ha “sbroccato”.
E’, infatti, intervenuta in un post pubblicato sulla pagina “Genova contro il degrado” in cui veniva criticata una situazione di abbandono in corso Italia: un’area da tempo delimitata con delle transenne all’interno della quale è cresciuta l’erba. “Questo sarebbe il nostro biglietto da visita” si conclude il post.
La first lady regionale, nonostante la predisposizione alla dolcezza derivante dall’attività professionale, non ha potuto contenere l’acidità e se ne è uscita con il commento rivolto alla nuova sindaca di Genova, Silvia Salis: “Ora ci pensa la fenomena!!!”.
Sia chiaro, sui social, da parte di politici di tutti i campi, si legge ben di peggio. Però, insomma, l’aplomb e il distacco che Laura Sansebastiano aveva dimostrato in tutti questi anni “vincenti” per la parte politica del marito sembrano essersi sgretolati come una meringa con la vittoria di Silvia Salis e del centrosinistra.
Ad aggravare il quadro la mai digerita fotografia in cui Salis, incrociando in campagna elettorale il presidente regionale ad un evento, lo “stoppa” con quel braccio disteso e la mano a sfiorare la spalla di Bucci in una immagine ormai simbolo – in particolare quella scattata dal fotografo di Repubblica Andrea Leoni – che segna un vero e proprio cambio di percezione della politica ligure.
(da La Repubblica)
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Giugno 1st, 2025 Riccardo Fucile
GIAMPIERO MASSOLO: “UNA LIBIA DESTABILIZZATA È UN DANNO GRAVE PER LA SICUREZZA NAZIONALE: IL TEMA RIGUARDA IL CONTROLLO DEI FLUSSI MIGRATORI, L’AFFIDABILITÀ DEGLI APPROVVIGIONAMENTI ENERGETICI, LA DETERRENZA VERSO IL TERRORISMO JIHADISTA”
Pericoloso sottovalutare le nuove violenze tra milizie in Libia. Alle porte dell’Italia. Evidenziano la fragilità del primo ministro Dabeibah, offrono spazi alla Russia, con il generale Haftar pronto a marciare su Tripoli e la Turchia che gioca su tutti i tavoli.
Nella crisi libica convivono tre dimensioni: quella locale, di un Paese di fatto spartito in tre, con istituzioni delegittimate; quella regionale, delle rivalità arabe tra fautori e nemici dell’Islam politico, che soffiano sul fuoco delle fazioni libiche; quella degli equilibri globali, con la Russia che si sposta dalla Siria, intenzionata a consolidarsi militarmente sulla costa di Bengasi e nelle basi dell’entroterra meridionale, guardando al Mediterraneo e al Sahel.
E minacciando l’Europa.
È una sfida all’interesse nazionale italiano: riguarda il controllo dei flussi migratori, l’affidabilità degli approvvigionamenti energetici, la deterrenza verso il terrorismo jihadista. Una Libia destabilizzata è un danno grave per la sicurezza nazionale: buona ragione per ritornare sul dossier libico senza contentarsi di appaltarlo a chi tenga a bada gli sbarchi. Il conflitto non contempla soluzioni definitive. Si può tentare di mitigarlo per evitarne gli esiti più estremi: la frammentazione del Paese con una guerra civile conclamata accanto ai nostri confini oppure, all’opposto, l’estensione dell’influenza russa con una vittoria di Haftar
L’Europa è uscita di scena per le rivalità italo-francesi (altro punto da affrontare con Macron). Non resta che affidarsi all’azione dei governi: sfruttare le evidenti cointeressenze a tamponare Mosca e ad evitare la «somalizzazione» della Libia, per formare un gruppo di coordinamento con i Paesi disponibili. Quanto meno Italia, Francia, Egitto, Paesi del Golfo, la stessa Turchia potrebbero trovarvi una convenienza. E forse anche gli Usa, sensibili alle risorse libiche e timorosi del jihadismo. Ci sarebbe spazio per un’iniziativa politico-diplomatica dell’Italia.
(da La Stampa)
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Giugno 1st, 2025 Riccardo Fucile
“RIDURRE LE DIMENSIONI DEL GOVERNO È DIFFICILE, SOPRATTUTTO QUANDO LO SI FA SOTTO L’EFFETTO DI ALLUCINOGENI, KETAMINA E ECSTASY”… “IL MOTTO DI MUSK ERA ‘MUOVITI IN FRETTA E ROMPI TUTTO’, MA LA PRINCIPALE COSA CHE È ANDATA IN FRANTUMI È STATA LA SUA REPUTAZIONE”
Elon Musk è arrivato a Washington con una motosega ed è ripartito con un occhio
nero. Ridurre le dimensioni del governo è difficile, soprattutto quando lo si fa in modo spietato, incurante, e apparentemente sotto l’effetto di allucinogeni. Come nel caso dei dazi di Trump, DOGE ha generato più volatilità che valore.
Un uomo che è fallito sei volte non si preoccupa troppo delle spese. E Trump non voleva certo leggere il titolo: “Trump taglia la previdenza sociale”. Voleva solo vendicarsi della “burocrazia”, incaricando Musk di licenziare un numero massiccio di dipendenti federali, per dare l’impressione di un’operazione drastica contro gli sprechi.
Come sempre con Trump, ex star dei reality, l’impressione conta più della realtà – soprattutto quella dei suoi stessi peccati. La scorsa settimana ha tentato di ridefinire la stessa natura del crimine. Come ha scritto Glenn Thrush sul Times: “Il presidente Trump sta utilizzando il vasto potere della sua carica per ridefinire la criminalità secondo le sue esigenze: grazia ai criminali che gli piacciono, minimizzazione di corruzione e frode, e tentativi di stigmatizzare gli oppositori politici etichettandoli come criminali.”
È ripugnante che il Dipartimento di Giustizia stia valutando di chiudere una causa per omicidio colposo offrendo 5 milioni di dollari alla famiglia di Ashli Babbitt, uccisa il 6 gennaio 2021 da un agente del Campidoglio, dopo aver ignorato gli avvertimenti ed essersi arrampicata attraverso una finestra infranta per entrare nella Lobby del Presidente della Camera.
Se Babbitt cercava di aiutare Trump a ribaltare un’elezione “rubata” irrompendo nel Campidoglio, allora – secondo questa logica – irrompere nel Campidoglio dev’essere stato giusto. E ogni agente che ha provato a fermarla per proteggere i legislatori nascosti sotto le scrivanie dev’essere nel torto.
Per assecondare la realtà alternativa di Trump, i repubblicani codardi della Camera hanno persino rifiutato di apporre una targa in onore degli agenti e di tutti coloro che quel giorno difesero il Campidoglio.
La prendo sul personale: mio padre ha trascorso vent’anni come ispettore della polizia di Washington, responsabile della sicurezza del Senato. Correva alla Camera ogni volta che c’era un’emergenza.
Se il 6 gennaio Mike Dowd avesse impedito agli insorti di aggredire i parlamentari, oggi – agli occhi di Trump – non sarebbe un eroe degno di una targa, ma un mascalzone che ostacolava quei “patrioti”, come Trump chiama i rivoltosi a cui ha concesso la grazia. È un
mondo assurdo e inquietante.
Trump stava riscrivendo la realtà ancora una volta venerdì pomeriggio, mentre una delle amicizie più appariscenti e distruttive della storia del governo si esauriva nello Studio Ovale.
Il culmine era stato raggiunto lo scorso inverno, quando Musk aveva scritto su X: “Amo @realDonaldTrump tanto quanto un uomo eterosessuale può amare un altro uomo” – e di nuovo quando Trump aveva cercato di ricambiare vendendo Tesla nel vialetto della Casa Bianca. Ma venerdì, nemmeno questi due maestri della vendita sono riusciti a convincere che Elon avesse “apportato un cambiamento colossale”.
Musk ha recentemente ammesso che il suo sogno di tagliare 1.000 miliardi di dollari era una fantasia. Ha detto che cambiare Washington è “una battaglia in salita” e si è lamentato del fatto che il “grande e bellissimo” disegno di legge sul bilancio di Trump – che potrebbe aggiungere oltre 3.000 miliardi di dollari di debito – ha compromesso i suoi sforzi di risparmio con DOGE.
Come ha detto Trump, Musk ha ricevuto molte “frecciate e critiche”. Il suo indice di gradimento è crollato e la tensione si è riversata su Tesla, un tempo adorata dai liberal e in Cina, ma oggi in declino.
Musk ha interrotto un giornalista che gli chiedeva conto di un articolo del New York Times secondo cui sarebbe un abituale consumatore di ketamina, ecstasy e funghi allucinogeni – anche dopo che Trump gli aveva concesso un enorme potere sul governo. Forse questo spiega l’uso della motosega, i salti sul palco, i figli a raffica e la sua ossessione per la diffusione dello sperma tra le menti brillanti, oltre agli inquietanti saluti in stile nazista.
Quando un giornalista gli ha chiesto dell’occhio nero, Musk ha scherzato sul video virale in cui Brigitte Macron spinge il volto del marito. Poi ha spiegato che, mentre “giocava” con il figlio di 5 anni,
X, gli ha chiesto di dargli un pugno in faccia. “E lui l’ha fatto.”
Il presidente e il prototipo di Tony Stark hanno cercato di far passare l’idea che resteranno uniti, anche se Musk non avrà più scontri rabbiosi con Scott Bessent fuori dallo Studio Ovale, né dormirà sul pavimento dell’Eisenhower Executive Office Building o frequenterà Mar-a-Lago. (Trump vuole ancora quei 100 milioni di dollari che Musk ha promesso per la sua macchina politica.)
Musk, con un cappellino nero con la scritta “DOGE” e una t-shirt con scritto “Dogefather”, si è guardato attorno nello Studio Ovale, che Trump ha arredato come un negozio di souvenir di Las Vegas, ed ha esclamato: “Ora ha finalmente la maestosità che merita, grazie al presidente.”
Trump gli ha consegnato una chiave cerimoniale d’oro della Casa Bianca – il tipo di oggetto che di solito regalano i sindaci delle cittadine – e ha dichiarato: “Elon non se ne andrà davvero. Tornerà spesso, credo.” Ha aggiunto che il padre di (almeno) 14 figli non abbandonerà mai del tutto DOGE, perché “è il suo bambino.” Musk ha portato a Washington il mantra della Silicon Valley: “Muoviti in fretta e rompi tutto.” Ma la principale cosa che ha rotto è stata la sua reputazione.
(da agenzie)
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Giugno 1st, 2025 Riccardo Fucile
IL GIOVANE E’ IN CARCERE, INDAGATO PER RAPINA AGGRAVATA E TENTATA ESTORSIONE. UNA DELLE VITTIME DICEVA DI LUI: “NON HA PAURA DI NESSUNO, IN QUANTO IL PADRE AVREBBE SISTEMATO OGNI COSA”
Un complice che, alla fine, racconta di rapine e violenze, l’omertà che condiziona vittime e complici, una mamma terrorizzata e, sullo sfondo, auto di lusso, locali esclusivi tra pistole e cocaina. La nuova pagina della Suburra romana è stata scritta a Roma nord e ha come protagonista un figlio di: Tancredi Antoniozzi. Suo padre si chiama Alfredo, deputato di Fratelli d’Italia, componente della commissione d’inchiesta sulle mafie, e numero due alla Camera dei deputati del partito di Giorgia Meloni.
Dalla scorso aprile il rampollo è in carcere, ma Domani può rivelare la rete di amici, gli affari e particolari inediti sulle sue avventure criminali. Proprio nei giorni scorsi, a metà maggio, il tribunale del Riesame ha confermato l’arresto in carcere per Antoniozzi. Siamo nel cuore della Roma bene e non c’è uno che spontaneamente si sia presentato in procura per denunciare, già nella misura cautelare di fine marzo si leggeva di una «strisciante omertà»
Il giovane è indagato per rapina aggravata e tentata estorsione. Era il regista della “banda dei Rolex”, monitorava sui social le vittime prima di organizzare gli assalti e, successivamente, offriva la refurtiva in cambio di soldi, il cosiddetto “cavallo di ritorno”. Il banco è saltato quando uno dei suoi complici, Manuel Fiorani, ha denunciato. Si è deciso a farlo dopo le insistenti minacce di Antoniozzi, che voleva impedirgli di uscire dal gruppo.
Citofonate, colpi alla porta di casa, un balcone danneggiato e messaggi scritti tipo: «Sto andando ad ammazzare di botte tua madre, la uccido io oggi, io ti uccido. Te ce stai a fa beve tutti». Da qui è partita l’indagine del commissariato di Ponte Milvio, coordinata dalla procura di Roma.
Antoniozzi si sentiva e diceva onnipotente. «Non ha paura di nessuno, né della polizia, che gli avrebbe “fatto un bocchino”, né del pubblico ministero che, a suo dire, si stava disinteressando della vicenda, in quanto il padre avrebbe sistemato ogni cosa», ha raccontato una delle vittime.
I guai con la giustizia di Antoniozzi sono iniziati nel 2020, lo scorso anno ha aggredito due carabinieri in divisa fuori da una discoteca, urlando frasi minacciose contro i militari e «facendo pesare la carica ricoperta dal padre». Nel 2023 era entrato anche in una società, ma la carriera imprenditoriale, l’azienda risulta inattiva, è durata poco. Serviva a gestire un immobile di famiglia in Sicilia. Tutto faceva ben sperare considerando anche il socio, il noto imprenditore calabrese Vincenzo Grisia, titolare di società nel settore alberghiero. Ma Antoniozzi ha scelto un’altra strada.
A fine gennaio ha acquistato un’arma a piombini, molto simile a una pistola vera, priva di tappo rosso e con canna forata. La violenza è la prima caratteristica della banda. Gli inquirenti ricostruiscono affari e rapporti, ma anche frequentazioni con soggetti «gravitanti a vario
titolo nella criminalità romana», un gruppo che aveva proprio in Antoniozzi l’organizzatore di un particolare tipo di illecito, quello di rapinare gli incoscienti giovani della Roma bene dopo monitoraggio sui social.
Proprio i social offrono uno spaccato della vita del rampollo: auto di lusso, locali alla moda tra Roma, Milano, Cortina e Dubai. Ha i follower che contano: i Casamonica e picchiatori albanesi della banda di Piscitelli. Ma oltre l’amicizia social, ci sono rapporti stretti con criminali romani. A partire dal complice, David Cesarini, esecutore materiale di una rapina, organizzata da Antoniozzi, che per realizzare il colpo si è reso irreperibile visto che era ai domiciliari per spaccio.
Così come impegnato nella vendita di droga era un altro complice. Tra le sue frequentazioni anche Patrizio Romano e Moreno Patrizio, fanno parte della famiglia Romano-Bevilacqua, parentele vantate con i Casamonica. Le contestazioni ad Antoniozzi riguardano unicamente le rapine e la tentata estorsione.
Le parole del complice, Manuel Fiorani, che ha raccontato tutto agli inquirenti, aprono un altro spaccato. Il loro rapporto sarebbe iniziato con proposte di cessione di droga, il giovane sarebbe andato a casa del figlio dell’onorevole dove avrebbe visto dosi di cocaina.
Questo è un filone rimasto privo di riscontri anche perché, a differenza degli altri indagati, la casa del giovane non è stata perquisita, il padre è onorevole e per i deputati c’è bisogno dell’autorizzazione della camera di appartenenza. «Le prime due volte che me lo ha chiesto ho rifiutato, alla terza volta mi disse se potevo fare solo una consegna ed io ho accettato. Eravamo in palestra ed Antoniozzi mi ha consegnato un grammo di cocaina che teneva in macchina, io l’ho portata vicino le Mura Vaticane (…) Questa consegna l’ho effettuata con il Range Rover di Antoniozzi».
(da agenzie)
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Giugno 1st, 2025 Riccardo Fucile
LA CRISI DEL CLIMA RICHIEDE POLITICHE MIGRATORIE AGGIORNATE
Ci sono espressioni percepite come nuove, ma che raccontano storie antiche come il
mondo. “Migranti climatici” è una di queste. È una definizione che si sta facendo spazio nel dibattito pubblico, ma che spesso arriva a noi in silenzio, senza immagini o titoli in prima pagina. Eppure, riguarda milioni di persone, e forse, tra non molto, anche intere comunità europee. Ma chi sono davvero i migranti climatici? Non è facile dare una risposta univoca. Non c’è – almeno per ora – una definizione ufficiale in ambito giuridico internazionale. I trattati che regolano lo status di rifugiato, come la Convenzione di
Ginevra del 1951, parlano di chi fugge da persecuzioni per motivi politici, religiosi, etnici. Ma non dicono nulla – ancora – su chi fugge perché la terra su cui viveva è diventata arida, o la propria casa è stata distrutta da un ciclone. Così, in assenza di una cornice legale, usiamo un termine ampio: “migranti climatici”.
Secondo i dati dell’UNHCR, nel 2023 oltre 33 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni a causa di disastri legati al clima. Frane, alluvioni, siccità prolungate, incendi. Tutti eventi naturali, certo, ma sempre meno “naturali” in un mondo in cui l’impronta umana sul clima è evidente e crescente. E questi sono solo gli sfollati interni, cioè coloro che si sono spostati all’interno del proprio Paese. Ma cosa succede quando questi fenomeni diventano ricorrenti? Quando si perde la casa, il lavoro, il futuro? Quando il clima diventa invivibile, spesso l’unica scelta possibile è partire. Ma dietro a ogni numero – per quanto utile a delineare la portata del fenomeno – ci sono storie, volti, famiglie. Motivo per cui, è importante soffermarsi anche sul linguaggio che usiamo. Chiamarli “migranti” può suggerire una decisione ponderata, una scelta volontaria. Ma la realtà è spesso diversa. Si tratta di spostamenti forzati, progressivi, che avvengono quando vivere, dove si è nati, non è più sostenibile. In molti casi, queste persone si avvicinano di più alla condizione di “rifugiati climatici”, sebbene questa categoria, per ora, non sia riconosciuta dal diritto internazionale. Una lacuna normativa che lascia milioni di individui in una zona grigia, senza lo status né la protezione che servirebbero a garantirne i diritti fondamentali.
Eppure, il fenomeno esiste e cresce. La Banca Mondiale stima che, entro il 2050, potrebbero esserci fino a 216 milioni di sfollati climatici interni nei Paesi più vulnerabili. Ma la questione non riguarda solo aree lontane: il Mediterraneo, e quindi l’Italia, saranno
sempre più coinvolti. Le crisi idriche, l’aumento del livello del mare, l’inaridimento dei suoli sono già oggi realtà nel nostro sud. Allora, cosa possiamo (e dobbiamo) fare? Anzitutto, bisogna partire da una nuova consapevolezza: il cambiamento climatico non è solo una questione ambientale, ma umana. Richiede politiche migratorie aggiornate, nuovi strumenti giuridici, ma anche uno sforzo culturale. Riconoscere che la persona che bussa oggi ai nostri confini potrebbe essere – domani – qualcuno che ci somiglia più di quanto pensiamo. Perché quando parliamo di migranti climatici, in fondo, parliamo di un’umanità che si muove. Non perché vuole, ma perché deve. E sta a noi, oggi, decidere se ignorare questa realtà o trasformarla in un’occasione di giustizia e coesione. Serve uno sguardo più lungo e più giusto, capace di leggere le migrazioni non solo come emergenze ma come processi strutturali legati a trasformazioni climatiche, economiche e sociali.
Gli spostamenti di interi popoli al momento in corso (come nell’arcipelago delle Tuvalu o in Sudan) non sono mai improvvisi, ma sono migrazioni lente, spesso invisibili, che si sommano anno dopo anno e si trasformano in flussi più ampi. Il punto è che, se non impariamo a leggere il clima come moltiplicatore di minacce, capace di esasperare tensioni latenti e amplificare crisi già in atto, continueremo a interpretare le sue conseguenze come anomalie isolate. Oggi abbiamo tutti gli strumenti per riconoscere la correlazione tra degrado ambientale e instabilità sociale, tra siccità e conflitti, tra perdita di biodiversità e movimenti umani. Quello che manca, spesso, è il coraggio politico di dirlo con chiarezza.E forse anche il linguaggio. Perché dare un nome a qualcosa significa riconoscerla. E riconoscere i migranti climatici non vuol dire solo registrare un fenomeno: vuol dire assumerci la responsabilità di un cambiamento di rotta.
(da Repubblica)
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Giugno 1st, 2025 Riccardo Fucile
ANCHE IL NONNO DEL FUTURO PAPA LEONE XIV, NATO A MILAZZO NEL 1826 E SBARCATO NEL 1903 A NEW YORK COME SALVATORE GIOVANNI RIGGITANO, SI DICHIARÒ UFFICIALMENTE JOHN RIGGITANO PREVOST” … “I NOSTRI NONNI CAMBIARONO NOME PER ARGINARE PESANTI PREGIUDIZI ANTI-ITALIANI. BASTI RICORDARE IL CASO DI EDITH LABUE CHE NEL 1922 FU AL CENTRO D’UN PROCESSO IN ALABAMA CON UN NERO DI NOME JIM ROLLINS, ACCUSATO DEL REATO DI “MESCOLANZA DI RAZZE”: “NON ERA BIANCA: ERA ITALIANA”, DISSE LA DIFESA. E LA CORTE GLI DIEDE RAGIONE”
Molti italiani hanno un certo pudore direi quasi vergogna a confessare la loro nazionalità; traducono perfino il cognome (ad esempio: Verdi diventa Green, Bianchi diventa White) e questo sentimento, per quanto poco lodevole, è l’indice non dubbio di un desiderio di entrare a far parte della massa locale dei cittadini, come hanno fatto gli olandesi o gli svedesi e soprattutto i tedeschi». Lo scrive un secolo fa l’economista Torquato Carlo Giannini sul «Corriere delle assicurazioni marittimo e di emigrazione», ripreso dall’editrice MnM in Italiani agli Stati Uniti .
È il 1925. E anche il nonno del futuro papa Leone XIV, nato a Milazzo nel 1826 come Salvatore Giovanni Riggitano, sta lasciando il vecchio nome per il nuovo. Sbarcato nel 1903 a New York e raggiunta la cittadina di Quincy, Illinois, iscritto subito al St.
Francis Solanus College, molto intraprendente, nel 1917 è già così noto come docente di lingue da finire sul giornale locale, il «Quincy Daily Herald», col titolo Riggitano in triangle (il triangolo di Riggitano) perché Daisy Hughes, la moglie sposata nel 1914, l’ha denunciato per adulterio con una certa Suzanne Louise Marie Fontaine.
Il figlio della nuova coppia, che sarà padre del futuro Papa, è registrato all’anagrafe come Louis Marius Prevost (cognome della famiglia materna di Suzanne, pare). Cognome che verrà usato poi per cambiare intestazione nel 1934 alla scuola privata di lingue aperta a Chicago (Riggitano Prevost School of Languages) e infine nell’Alien Registration Form del 1940 dove il nostro messinese si dichiara ufficialmente «John Riggitano Prevost, entrato negli Usa come Salvatore Giovanni Riggitano Alioto», cognome della madre.
Un caso tra decine o forse centinaia di migliaia. La trascrizione dei dati anagrafici in troppe lingue diverse nella bolgia di Ellis Island era così disastrosa che, raccontano in Italiani d’America Mario Avagliano e Marco Palmieri, i tre figli del calabrese Rocco Muzzopapa, che da analfabeta «non può confermare l’esatta trascrizione», diventano americani con tre cognomi diversi: Frank Monsipapa, Joseph Munzipapa e Rosario Muzzipapa. Figurarsi se le autorità americane potevano badare a dettagli tipo la storpiatura di Paolo «Scozzese» (il nonno di Martin «Scorsese») o tantissimi casi simili. Il caos.
In larga maggioranza però i nostri nonni cambiarono nome per arginare pesanti pregiudizi anti-italiani. Basti ricordare il caso di Edith Labue (chissà qual era il vero cognome: Lo Bue? ) che nel 1922 fu al centro d’un processo in Alabama con un nero di nome Jim Rollins, accusato di miscegenation (mescolanza di razze), un reato cancellato in più Stati solo nel ’67 «Non era bianca: era italiana»,
disse la difesa. E la Corte, spiega un saggio di Bénédicte Deschamps, gli diede ragione: essendo la donna siciliana, «non si poteva dedurre assolutamente che ella fosse bianca, né che fosse lei stessa negra o discendente da un negro».
Un caso limite? Forse. Ma rende l’idea dell’aria che tirava quando il settimanale «Judge» sparava vignette con lo Zio Sam corrucciato in riva al mare alla vista di topi di fogna in arrivo «dai bassifondi dell’Europa» (testuale) coi berrettini che dicevano: «anarchist», «socialist», «mafia».
C’è poi da stupirsi se, come dice il dossier Please call me John (per favore chiamami John) di Pedro Carneiro, Sokbae Lee e Hugo Reis, «tra il 1900 e il 1930 circa il 77% degli immigrati maschi negli Stati Uniti si era dato un nome americano» contro il bassissimo «1%» di italiani al loro arrivo a Ellis Island? Se tutti ma proprio tutti erano convinti che un nome «americano» (tre su tutti: John, William e George) aiutava sul posto di lavoro?
Se Concetta Franconero scelse il nome di Connie Francis col quale avrebbe venduto oltre 100 milioni di dischi? Se Ermes Borgnino si presentò a Hollywood come Ernest Borgnine? Se Francesco Borzaga vinse il primissimo Oscar alla regia con il nome di Frank Borzage? Se l’immensa Anna Maria Italiano, che portava come marchio quell’identità nostrana, sfondò nel cinema ribattezzandosi Anne Bancroft? E così decine di altri divi dal comico Don Ameche (Dominic Amici) al cantante Dean Martin, pseudonimo di Dino Crocetti?
Certo, c’era chi poteva prendersi il lusso di tenersi il nome originale. Come Lorenzo Da Ponte: perché americanizzarsi se sei il librettista di Wolfgang Amadeus Mozart? O se sei un conte eroe di guerra sia italico sia statunitense e primo direttore del Metropolitan Museum come Luigi Palma di Cesnola? O il più ricco banchiere americano
come Amadeo Giannini? Ma darsi un american name, prima che Fiorello La Guardia e Angelo Rossi diventassero sindaci a New York e San Francisco, era una formidabile scorciatoia di integrazione.
Lo spiegò meglio di tutti proprio una grande italo-americana, Amy Bernardy: «L’italiano emigra in America. Lo volete italiano? Sarà infelice. Lo volete felice? Sarà americano. Cioè l’Italia dovrebbe donare all’America il suo cittadino, il suo lavoratore, il suo emigrante, in dono assoluto e senza restrizione, tutto intero, qualità e difetti, energie e problemi, attività e speranze, in modo che non si volti più indietro a guardare l’Italia»
Gian Antonio Stella
per il “Corriere della Sera”
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Giugno 1st, 2025 Riccardo Fucile
COLPITO ANCHE UN TRENO MERCI MILITARE RUSSO CARICO DI CARBURANTE DESTINATO ALLE TRUPPE NELLA REGIONE DI ZAPORIZHZHIA E NELLA CRIMEA OCCUPATA
Fino a 40 bombardieri strategici russi sono in fiamme, distrutti o danneggiati, in
Russia in attacchi di droni ucraini: un’operazione «su larga scala» ancora in corso, condotta dall’Sbu: lo affermano fonti dello stesso servizio di spionaggio militare ucraino citate dall’agenzia Ukrinform. Attualmente, si sa che più di 40 velivoli sono stati colpiti, inclusi modelli come un A-50, un Tu-95 e un Tu-22 M3.
Sarebbero state esplosioni a provocare i crolli dei ponti nelle regioni russe di Bryansk e Kursk, al confine con l’Ucraina. Lo hanno confermato gli inquirenti russi. Un viadotto autostradale di Bryansk è collassato al passaggio di un treno passeggeri; almeno 7 i morti. A Zheleznogorsk, nel Kursk, è stato invece preso di mira un ponte ferroviario e una locomotiva di un treno merci è precipitata sulla strada sottostante. Intanto Mosca continua ad avanzare nella regione ucraina di Sumy, dove ha conquistato altri due villaggi e costretto all’evacuazione undici insediamenti.
Il servizio d’intelligence militare ucraino (Gur) ha rivendicato oggi un attentato contro un treno merci militare russo carico di carburante destinato alle truppe nella regione di Zaporizhzhia e nella Crimea occupata: lo riporta Rbc-Ucraina, che cita funzionari del Gur. Il treno è deragliato in seguito a un’esplosione quando si trovava vicino a Melitopol, nella regione di Zaporizhzhia. “La notte del 31 maggio si è verificata un’esplosione su un tratto ferroviario nei pressi dell’insediamento temporaneamente occupato di Yakymivka, nel distretto di Melitopol, nella regione di Zaporizhzhia: un treno militare di invasori russi è saltato in aria”, hanno affermato i funzionari, aggiungendo che il treno si stava dirigendo verso la Crimea occupata. “L’arteria logistica chiave dei moscoviti nei territori occupati della regione di Zaporizhzhia e della Crimea è stata interrotta”, hanno sottolineato.
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Giugno 1st, 2025 Riccardo Fucile
“LA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA HA DICHIARATO ILLEGITTIMA L’OCCUPAZIONE ISRAELIANA E CHIESTO L’IMMEDIATA CESSAZIONE DEGLI INSEDIAMENTI. ISRAELE HA RISPOSTO ESPANDENDOLI”
Mentre a Gaza si discute una tregua e in Cisgiordania si legalizza l’espansione degli insediamenti, Israele consolida una strategia che non mira più a risolvere il conflitto, ma ad amministrarlo stabilmente.
Resta da vedere se la proposta americana di tregua tra Israele e Hamas supererà il nodo centrale: Israele si riserva di poter riprendere i combattimenti se Hamas non si arrende e non si disarma. Hamas pretende garanzie che una tregua porti a cessazione permanente delle ostilità e ritiro israeliano da Gaza.
Questa doppia ambiguità è priva di prospettiva politica e, su queste basi, una tregua diventa solo pausa tattica per tutti. Serve agli Stati Uniti per mostrare iniziativa diplomatica senza intaccare l’alleanza con Israele. Serve a Netanyahu per allentare la pressione internazionale senza rinunciare all’obiettivo militare di logorare Hamas fino al collasso. Serve ad Hamas per confermare la sua scelta spietata e cinica: trasformare il dolore degli abitanti di Gaza in strategia e gli ostaggi israeliani in garanzia di sopravvivenza politica.
Ma il vero punto di rottura non è Gaza. È la Cisgiordania. Siamo di fronte a un nuovo paradigma che muta la natura geopolitica della questione israelo-palestinese. La decisione del governo israeliano di
approvare 22 nuovi insediamenti – tra cui la legalizzazione di avamposti fino a ieri illegali – segna il passaggio da un’occupazione negoziabile a un’annessione de facto. È la più ampia espansione dai tempi di Oslo, ma oggi non viene più giustificata in nome della sicurezza: viene rivendicata in nome della sovranità. I ministri Katz e Smotrich lo hanno dichiarato esplicitamente.
Il messaggio è chiaro: la soluzione dei due Stati è morta. E non per errore o inazione, ma per una scelta politica deliberata. In Cisgiordania, l’annessione non è più minacciata o camuffata. È realizzata per gradi e legittimata con atti di governo. La Cisgiordania viene trasformata in uno spazio a sovranità asimmetrica: oltre mezzo milione di coloni israeliani con protezione statale, milioni di palestinesi sotto un regime giuridico separato, con diritti sospesi e nessuna prospettiva statuale.
E la comunità internazionale, pur criticando, tollera nella pratica questa trasformazione che ha implicazioni geopolitiche profonde. Mentre Israele amplia gli insediamenti e congela il negoziato, attori chiave come Arabia Saudita, Egitto e Giordania si trovano in difficoltà crescente. Come può Riad, divenuta il vero interlocutore globale degli Stati Uniti, firmare un’intesa con Israele mentre questo cancella ogni prospettiva per i palestinesi? Come può l’Egitto gestire Rafah con l’aumento dei profughi?
L’instabilità generata dall’unilateralismo israeliano si riverbera sullo spazio arabo-sunnita, alimentando sfiducia, polarizzazione, radicalizzazione ed erodendo anche il sostegno occidentale. Ma il segnale più grave è rivolto al sistema internazionale: il diritto vale solo per chi è troppo debole per violarlo.
La Corte internazionale di giustizia ha dichiarato illegittima l’occupazione israeliana e chiesto l’immediata cessazione degli insediamenti. Israele ha risposto espandendoli. Il caso israelo
palestinese rischia di diventare un precedente: in Ucraina, nel Caucaso, in Asia orientale, in Africa. A ciò si aggiunge una frizione strategica tra Israele e Stati Uniti sull’Iran.
Il risultato è la normalizzazione di una guerra intermittente: tregue brevi e difficili da negoziare, pause umanitarie, poi nuove offensive. Una gestione temporanea, priva di orizzonte politico, che congela il conflitto senza risolverlo e impone costi umanitari insostenibili. Il rischio è che questa diventi la nuova stabilità: un conflitto amministrato, ma permanente.
Israele ha compiuto la sua scelta, pur mossa dalla ricerca di sicurezza: guerra gestita a Gaza, annessione progressiva della Cisgiordania. Se la comunità internazionale continuerà a reagire con ambiguità, non sarà solo la Palestina a sparire come soggetto politico. Si consoliderà l’idea che l’occupazione generi legittimità, che il diritto non valga per tutti, che l’autodeterminazione sia negoziabile. Così ogni tregua sarà solo un intervallo tra due crisi.
Ettore Sequi
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Giugno 1st, 2025 Riccardo Fucile
S’È DIMENTICATO DI DICHIARARE UN POTENZIALE CONFLITTO D’INTERESSI VISTO CHE HA QUOTE NON DICHIARATE SUL SITO DEL GOVERNO DI DUE SOCIETÀ CHE OPERANO NEL SETTORE DEGLI NPL (CREDITI DETERIORATI)… UNA DELLE DUE È ENTRATA IN UN FONDO DI ILLIMITY BANK, CHE IN PASSATO AVEVA ACQUISTATO 1,5 MILIARDI DI NPL DA MPS, DI CUI IL TESORO È IL PRIMO AZIONISTA CON L’11%
Ogni giorno si scoprono nuovi particolari su quella che il Fatto, parafrasando una
vecchia battuta, ha definito “l’unica merchant bank in cui si parla romano”: le intricate vicende del cosiddetto risiko bancario – in cui Palazzo Chigi fa contemporaneamente l’arbitro, il giocatore e il vigilante – sono descritte da una lunga inchiesta di Report, firmata da Giorgio Mottola e in onda stasera su Raitre,
da cui si scopre, tra le altre cose, che il capo di gabinetto di Giorgia Meloni, Gaetano Caputi, l’uomo che per conto della premier gestisce anche la partita bancaria, s’è dimenticato di dichiarare un potenziale
conflitto d’interessi.
Partiamo proprio da Caputi. Classe 1965, ex magistrato con una lunga carriera nei ministeri e nelle istituzioni (è stato dg della Consob), è oggi uno degli uomini forti di Palazzo Chigi anche per le grandi operazioni economiche: col sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, ad esempio, è stato al centro della vendita della rete Tim al fondo Kkr.
Lo stesso ruolo riveste nel risiko finanziario in corso: è stato lui nelle settimane scorse a incontrare a Palazzo Chigi i principali manager bancari italiani. Report ha però scoperto che Caputi ha partecipazioni in due società che operano nel settore bancario: il 2% di ISCC Fintech e il 22% di Lawyers STA, di cui era presidente fino all’arrivo al governo.
La prima compra crediti deteriorati (Npl) dalle banche e ne gestisce il recupero non giudiziale, la seconda quello giudiziale. ISCC, peraltro, l’anno scorso è entrata in un fondo di Illimity Bank, che in passato aveva acquistato 1,5 miliardi di Npl da Mps, di cui il Tesoro è il primo azionista con l’11%.
Ciliegina sulla torta: ora Banca Ifis vuol comprarsi Illimity e il relativo dossier è a Palazzo Chigi. Come che sia, queste partecipazioni non compaiono nelle dichiarazioni patrimoniali e sui conflitti di interesse che Caputi ha pubblicato, come vuole la legge, sul sito della presidenza del Consiglio:
“Il problema sta a monte, doveva liberarsene: è evidentemente inopportuno nel momento in cui c’è un interesse del governo a entrare nell’economia bancaria”, dice a Report Gian Gaetano Bellavia, commercialista ed esperto di diritto penale dell’economia.
E che quell’interesse del governo ci sia è sotto gli occhi di tutti. Com’è noto Meloni e soci immaginavano una fusione tra Mps e Banco Bpm per creare un terzo polo bancario con una forte presenza
nel Centro Nord: per questo a novembre hanno fatto entrare nel capitale del Monte – vendendogli un 15% del Tesoro – la stessa Bpm con la sua controllata Anima Sgr insieme ai soci privati Caltagirone e Delfin (la holding dei Del Vecchio guidata da Francesco Milleri), creando così un nocciolo di azionisti forti. Il loro ingresso in Mps però, spiega l’inchiesta di Raitre, è avvenuto con modalità inusuali.
Intanto il Tesoro ha scelto per gestire l’asta un operatore diverso rispetto alle prime due, la piccola Banca Akros.
Anche il risultato è stato diverso: non la vendita a decine di soggetti come in passato, ma solo 4 compratori. Infine il prezzo: il leggero premio del 2% sul valore di Borsa è probabilmente assai minore di quello che i nuovi azionisti avrebbero dovuto pagare per comprarsi un pacchetto di controllo della banca senese sul mercato.
Mps ha poi deciso di lanciare una sua ops – azioni in cambio di azioni – su Mediobanca, della quale i suoi soci Caltagirone e Delfin provano da tempo a prendere il controllo (ne possiedono insieme il 27%) per arrivare a mettere le mani sulle Generali (Mediobanca è il primo azionista col 13%, seguono Delfin col 10 e Calta col 6,9%). In questo caso sono i tempi della scalata di Mps a non tornare. L’ad del Monte Luigi Lovaglio ha detto in assemblea dei soci che “l’operazione è partita, ideata a novembre, dopo l’annuncio di Unicredit dell’operazione su Bpm”.
Il riferimento è all’improvvisa scelta di Andrea Orcel di scalare Pop Milano, a cui il governo ha reagito mettendo paletti assai stretti a Unicredit via golden power. In realtà, dice a Report un ex manager Ubs, banca che fa da consulente al Monte nella scalata, l’operazione Mediobanca era iniziata prima di novembre: “I dettagli della scalata di Mps si iniziano a definire a settembre del 2024, quando uomini della nostra banca partecipano a una riunione organizzativa a
Palazzo Chigi”. Chi la presiede? Caputi e Fazzolari.
(da agenzie)
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