Giugno 3rd, 2025 Riccardo Fucile
QUANDO LA MINISTRA GRILLINA LUCIA AZZOLINA FINÌ VITTIMA DEGLI ODIATORI SOCIAL, UNO DEGLI HATER FU SCELTO DAL SOTTOSEGRETARIO LEGHISTA ROSSANO SASSO COME SUO PRINCIPALE CONSIGLIERE
Premesso lo squallore umano che suscita chi al riparo di un pc scelga di spendere la
propria intelligenza per scaricare insulti e minacce verso la figlia della premier, e premesso anche che dire di aver compiuto un gesto maldestro è offensivo per chi fatica a farsele idee vere sul mondo, su uomini e donne, sul futuro che ci aspetta. Premesso tutto questo, stupisce come la maggioranza di governo scopra solo ora l’esistenza di un clima di odio, soprattutto sui social.
Come ha documentato Repubblica, riportando i dati dell’edizione 2024 del “Barometro dell’odio”, Amnesty pubblica la classifica dei cinque messaggi su Facebook che “hanno generato più incitamento all’odio e alla discriminazione”.
I primi quattro sono di Salvini, e sorvoliamo su Bestie e altre latitudini. Vox-Osservatorio Italiano sui Diritti ha pubblicato l’ottava mappa dell’intolleranza. Dall’analisi di oltre un milione di messaggi su X emergono insulti alle donne, a stranieri, ebrei, persone omosessuali e con disabilità.
Roma e Milano le città con le percentuali più alte di hate speech. “È prioritario il tema dell’alfabetizzazione digitale: i ragazzi devono imparare come usare i social”.
Del linguaggio non ci si può ricordare solo quando si è vittime e dimenticarsene tutti gli altri giorni.
Non ebbe alcuna solidarietà dal centrodestra, né da Meloni, né da Salvini, né da Tajani, la ex ministra all’Istruzione Lucia Azzolina, quando uno dei suoi odiatori social fu addirittura scelto dal sottosegretario leghista Rossano Sasso come suo principale consigliere, governo Draghi.
La ex ministra per le minacce subite ha vissuto per anni sotto scorta. Il sottosegretario di Salvini, era il 26 marzo 2021, sulle prime fece quadrato, poi l’allora ministro all’Istruzione, Patrizio Bianchi, valutò la situazione imbarazzante e dopo 48 ore il consigliere scelto, un
professore, fu accompagnato al portone di uscita di viale Trastevere.
La vicenda processuale (processo per diffamazione) si è chiusa con i lavori socialmente utili per il collaboratore suddetto.
Ma quel che conta è il clima . Segnalazioni in tal senso sono state fatte da Maria Elena Boschi che ha accusato Fratelli d’Italia di aver tagliato ad arte un suo video “per suscitare gli istinti più maschilisti”. Il va bene tutto non deve valere mai.
(da Huffingtonpost)
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Giugno 3rd, 2025 Riccardo Fucile
I VERTICI DELL’AGENZIA RIMASTI SENZA PAROLE E IL CASO DIVENTA VIRALE… LA PENOSA DIFESA POSTUMA: “STAVA SCHERZANDO”
I vertici della divisone d’emergenza della Fema, la Protezione civile americana, sono rimasti senza parole quando il nuovo capo, David Richardson, ha detto di non sapere dell’esistenza negli Stati Uniti di una stagione degli uragani. La storia è stata rivelata dall’agenzia Reuters, che ha citato quattro persone a conoscenza dell’episodio.
La stagione degli uragani, molto temuta dagli americani, è cominciata ufficialmente domenica e durerà circa cinque mesi, fino a tutto novembre.
Secondo il National oceanic and atmospheric administration, l’agenzia scientifica che monitora l’impatto delle condizioni meteo sul Paese, sono previsti quest’anno almeno dieci uragani maggiori, cioè quelli considerati devastanti. Non è chiaro se il nuovo capo avesse inteso esprimersi in modo letterale o fosse una battuta. Il portavoce del dipartimento della Sicurezza interna, dopo che la storia è uscita sui media e è diventata virale sui social, ha spiegato che Richardson “stava scherzando” e assicurato che “Fema è pronta ad affrontare la stagione degli uragani”. Fonti interne, però, avrebbero avuto una percezione diversa.
Il caso emerge in coda a un periodo teso, segnato da drammatici tagli al personale e ai servizi di emergenza, che sono stati smantellati. Alcuni Stati del sud, colpiti nelle scorse settimane da tempeste e inondazioni, non hanno ricevuto aiuti dal governo. La settimana scorsa fonti interne all’agenzia avevano segnalato l’assenza di un piano di intervento in vista degli uragani. Lo stesso presidente, Donald Trump, ha più volte dichiarato che gli Stati dovranno gestire da soli le emergenze e solo in un secondo momento, se sarà
necessario, la Fema interverrà.
Richardson è stato nominato alla guida della protezione civile a maggio. Ex ufficiale dei marine, veterano di guerra in Afghanistan e Iraq, il nuovo capo dell’agenzia ha anche insegnato storia alla George Washington University. Prima di questo incarico, si era occupato di contrasto alle armi di distruzioni di massa per conto del dipartimento della Sicurezza interna.
Dal suo arrivo, l’ex marine ha dichiarato di voler centralizzare la gestione dell’agenzia. “Io – ha detto allo staff – e soltanto io parlerò a nome della Fema”. Qualcuno ha riportato anche ai media una minaccia che Richardson avrebbe fatto ai suoi sottoposti: “Se qualcuno si metterà sulla mia strada, io gli passerò sopra”.
(da agenzie)
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Giugno 3rd, 2025 Riccardo Fucile
LA PRONUNCIA DEL TRIBUNALE DI BUSTO SU UNA CIRCOLARE RAI
È “discriminatoria” una circolare della Direzione generale della Rai che ha “imposto a
una ampia cerchia di dipendenti e a collaboratori”, tra cui cameraman, fonici, tecnici delle luci e non solo, “un obbligo di astensione dal lavoro mediante la fruizione di ferie e di aspettativa non retribuita” nel caso abbiano “presentato candidature ovvero aderiscono a partiti politici”, siano “attivisti sindacali” o “si riconoscono e fanno parte di partiti, movimenti, associazioni non profit, comitati referendari”. Lo ha deciso la sezione lavoro del Tribunale di Busto Arsizio.
Con un provvedimento la giudice Franca Molinari ha confermato un decreto cautelare su quella circolare emesso nei giorni scorsi dal Tribunale per profili discriminatori. Un procedimento nato dal ricorso degli avvocati Matilde Bidetti e Carlo de Marchis per l’Associazione nazionale lotta alle discriminazioni (Anlod) con il sostegno del Sindacato lavoratori della comunicazione della Cgil.
Nella circolare, spiega la giudice, viene “correttamente richiamata l’attenzione di tutti i dipendenti e collaboratori sulla necessità” del rispetto “delle vigenti norme di legge in materia di propaganda e informazione elettorale”. Ma si va anche “ben oltre al suddetto dovuto richiamo, imponendo a una ampia cerchia di dipendenti e ai collaboratori un obbligo di astensione dal lavoro mediante la fruizione di ferie e di aspettativa non retribuita”. Delle disposizioni “sono destinatari moltissimi lavoratori e collaboratori la cui apparizione, in virtù della mansione svolta (ad esempio cameraman, fonici, tecnici delle luci, costumisti, scenografi, direttori della fotografia, ballerini etc.), è limitata all’indicazione del loro nome nei titoli di coda”.
La “comunicazione, infatti – si legge ancora nel provvedimento – estende il divieto a qualunque prestazione audio video resa da lavoratori e collaboratori, anche se non richiedono neppure una loro
messa in onda”. E precisa che i nomi di queste persone non potranno essere indicati “come responsabili, autori o collaboratori” delle trasmissioni. Il giudice richiama, però, il diritto di questi lavoratori “a partecipare attivamente alla vita sociale del Paese durante la campagna referendaria e politica” e “la libertà di esprimere legittimamente le proprie opinioni politico-sindacali”, di “associarsi, manifestare e agire democraticamente senza subire discriminazioni o penalizzazioni”.
Una circolare del genere, prosegue il tribunale, estesa “a tutti i dipendenti e collaboratori, a prescindere dal fatto che essi abbiano una diretta esposizione in video o in audio oppure che siano impegnati in programmi di informazione, intrattenimento e di altra natura”, va “oltre il limite utile alla tutela della indipendenza e imparzialità del servizio pubblico e non giustifica, pertanto, la compromissione dei diritti dei lavoratori”.
E’ giustificata, chiarisce la giudice, “l’imposizione all’interno dell’ambiente di lavoro di un obbligo di astensione da azioni o comportamenti che esprimano un oggettivo significato politico o anche la mera esternazione di simboli politici”, mentre “non appare altrettanto utile e necessaria l’inibizione dell’attività lavorativa o l’imposizione di un oblio nei confronti di lavoratori o prestatori che in altri ambiti e contesti agiscono coerentemente con il loro legittimo pensiero
(da agenzie)
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Giugno 3rd, 2025 Riccardo Fucile
IL SONDAGGIO YOUGOV: MENO DEL 20% HA UN’OPINIONE FAVOREVOLE
Mentre continua l’offensiva di Tel Aviv nella Striscia di Gaza, crolla il sostegno per Israele nell’opinione pubblica dell’Europa
occidentale, raggiungendo il livello più basso mai registrato. È quanto emerge da un sondaggio di YouGov condotto in sei Stati europei (Gran Bretagna, Francia, Italia, Spagna, Germania e Danimarca), secondo il quale meno di un quinto degli intervistati nei sei Paesi ha un’opinione favorevole su Israele. Tra l’altro, i giudizi più negativi sono quelli dei cittadini italiani.
Tra offensiva militare, bilancio dei morti in continuo aggiornamento e blocco degli aiuti umanitari, l’indagine di YouGov – come riporta il Guardian – evidenzia come il consenso netto nei confronti di Israele in Germania (-44%), Francia (-48%) e Danimarca (-54%) ha toccato il livello più basso dal primo sondaggio sul tema nel 2016, mentre in Italia (-52%) e Spagna (-55%) si è attestato al minimo storico, risalente al 2021. Nel Regno Unito, il consenso netto si è attestato a -46%, leggermente superiore al minimo di -49% registrato alla fine del 2024.
Nel complesso, solo una percentuale compresa tra il 13% e il 21% degli intervistati di tutti i sei Paesi ha un’opinione favorevole su Israele, rispetto al 63%-70% di chi ha un’opinione sfavorevole. Concordano sul fatto che Israele “abbia fatto bene a inviare truppe a Gaza e abbia generalmente risposto in modo proporzionato agli attacchi di Hamas” solo il 6% degli italiani, il 12% di spagnoli e britannici, il 13% dei danesi, il 14% dei tedeschi e il 16% dei francesi.
Reputano che Israele “abbia fatto bene a inviare truppe a Gaza, ma che si sia spinto troppo oltre e abbia causato troppe vittime civili” il 29% degli intervistati italiani, il 30% degli spagnoli, il 31% dei francesi, il 38% dei britannici, il 39% dei danesi e il 40% dei tedeschi.
Pensano invece che Israele “abbia sbagliato a inviare truppe o usare la forza militare contro Hamas” il 24% degli italiani, il 23% degli
spagnoli, il 18% dei francesi, il 16% dei danesi, il 15% dei britannici e il 12% dei tedeschi. Allo stesso tempo, il numero di intervistati che ha dichiarato di ritenere giustificati gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 continua a essere basso in ciascun Paese (tra il 5% e il 9%), sebbene sia aumentato marginalmente nel Regno Unito (dal 5% al 6%) e in Italia (dal 6% all’8%).
Il sondaggio ha anche rilevato che adesso meno persone dichiarano di “schierarsi” con Israele. Tra il 7% e il 18% degli intervistati ha affermato di simpatizzare maggiormente con la parte israeliana, la percentuale più bassa in cinque dei sei Paesi analizzati dopo il 7 ottobre. Al contrario, tra il 18% e il 33% ha dichiarato di simpatizzare con la parte palestinese, percentuali che sono aumentate in tutti e sei i Paesi dal 2023. Solo in Germania le percentuali sono simili: 17% per Israele e 18% per la Palestina
E se questa è la situazione in Europa occidentale, il trend è simile anche dall’altra parte dell’Atlantico: un sondaggio del Pew Research Center di aprile ha rilevato che il 53% degli adulti statunitensi è contrario a Israele, rispetto al 42% di marzo 2022. Un altro sondaggio, condotto il mese scorso da Data for Progress, ha rilevato che il 51% degli elettori Usa è contrario ai piani di Israele di inviare più truppe a Gaza e di sfollare i palestinesi.
(da agenzie)
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Giugno 3rd, 2025 Riccardo Fucile
LA PARACULATA PER EVITARE DI TRASFORMARLA IN “MELONI CONTRO IL RESTO DEL MONDO” … IL CAMALEONTISMO DELLA DUCETTA CHE SI SMARCA DALL’APERTO BOICOTTAGGIO DI LA RUSSA
Così fan tutti, chi in modo più ribaldo, chi più grossolano, chi più elegante. Prima o
poi, sono diversi lustri che spunta sempre «l’andate al mare», davanti a una consultazione referendaria. Giorgia Meloni, parlando per la prima volta dell’appuntamento di domenica prossima, ha introdotto la sua variante “furba”: vado, al seggio, forse come segno di rispetto verso l’appuntamento, ma non voto e quind
trasmetto implicitamente l’invito a non farlo, però evito una posizione urticante, vuoi mai che davvero rischio di portare alle urne quelli cui sto antipatica.
Tradotto: mi astengo, senza invitare platealmente alla giornata balneare. Posizione che, giuridicamente, è un po’ funambolica: che ci vai a fare al seggio se non ritiri neanche una scheda? Boh.
Politicamente però, quantomeno nelle intenzioni, è un modo di metterla con più sobrietà rispetto al blu dipinto di blu sbattuto in faccia a chi invece ci crede. L’idea è di sottrarsi al ruolo di bersaglio. Lasciare cioè che la tenzone resti tra Maurizio Landini e Matteo Renzi, tutta interna alla sinistra, evitando di trasformarla in “Meloni contro il resto del mondo”.
Deve aver ricordato, nel pensare all’arzigogolo politico-verbale, il caso di scuola, rimasto negli annali. Fu Bettino Craxi a pronunciare quella frase (sull’andare al mare) con sprezzo del pericolo nel 1991, davanti al quesito sulla “preferenza unica”. Si sentiva rassicurato dai sondaggi che circolavano a via del Corso e pensava che molti fossero d’accordo con lui, a partire dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Ma non fu così, cosa che lo infastidì non poco. Un cronista lo sollecitò a riguardo, durante un pranzo nella calura di Caprera.
Craxi, in un moto di arrogante stizza, girò le spalle alle telecamere chiedendo a un commensale di “passargli l’olio”. Pochi giorni dopo, quel referendum diventò, per gli italiani, l’occasione per voltare le spalle a quel sistema politico. Il più eclatante boomerang della storia elettorale recente. Per carità, Giorgia Meloni non guida mica il pentapartito morente. Però ha l’astuzia di sapere che, in questo genere di appuntamenti, conta il clima più del merito.
E così il cronista registra un aggiustamento di tiro, nella forma più che nella sostanza, anche rispetto alle parole di Ignazio La Russa. La
seconda carica dello Stato si era esposto a favore dell’aperto boicottaggio della consultazione in modo assai più grossier. E, così facendo, aveva scaldato un appuntamento fino a quel momento poco coinvolgente. Il tentativo non è riuscito un granché a Giorgia Meloni, complice la giornata in cui comunque si celebra un referendum, sia pur senza quorum e di tutt’altra portata storica.
Anzi, è diventato un maldestro esempio di eterogenesi dei fini, per cui una posizione nelle intenzioni prudente è diventata il caso politico di giornata. E c’è poco da fare, il dibattito torna eternamente uguale a se stesso, perché l’astensione fa parte del gioco politico, sennò non ci sarebbe il quorum. Soprattutto in un paese dove non si raggiunge dalla metà degli anni Novanta, con l’eccezione di quelli del 2011 su acqua pubblica e nucleare.
Forse questa postura più obliqua di Giorgia Meloni racconta anche altro, di un labile confine tra prudenza e insicurezza: ai vertici internazionali c’è ma spesso è collegata, su Israele prima è timida poi si trova costretta a dare ragione a Mattarella, che timido non è, ora il referendum. Chissà, magari la notizia è proprio questo stato d’animo.
Alessandro De Angelis
per “La Stampa”
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Giugno 3rd, 2025 Riccardo Fucile
LE SPECIALI POLIZZE ASSICURATIVE CHE SERVONO AGLI INVESTITORI PER COPRIRSI DAL RISCHIO DI DEFAULT DEGLI USA, SONO PASSATI IN TRE MESI DA 18 A 54 PUNTI BASE, LIVELLI PARAGONABILI A QUELLI DI PAESI CON RATING MOLTO PIÙ BASSI COME LA GRECIA (57) O L’ITALIA (53)
Gli Stati Uniti «non andranno mai in default». Detta così, sembra una banalità. Un’ovvietà. Perché nessuno pensa che gli Usa possano fare una fine del genere.
Ma quando a pronunciare queste parole è il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, parlando del tetto del debito che ogni anno è uno scoglio importante, sembra quasi suonare come una «excusatio non petita».
Perché è vero che un default degli Stati Uniti è pura fantascienza, ma è anche vero che sui mercati il debito americano è percepito come qualcosa che scotta sempre più.
Lo dimostrano i credit default swap (Cds), speciali polizze assicurative che servono agli investitori per coprirsi proprio dal rischio di crack di qualunque Paese o azienda al mondo: i Cds deg
Stati Uniti costano infatti 54 punti base, livelli cioè paragonabili a quelli di Paesi con rating molto più bassi come la Grecia (57) o l’Italia (53). Roma, anzi, è percepita lievemente meno rischiosa degli Usa.
I Cds funzionano come le polizze assicurative. Se un investitore ha titoli di Stato Usa e vuole assicurarsi contro il rischio di default degli Stati Uniti, paga un premio assicurativo a un altro investitore e qualora gli Usa (ma questo vale per qualunque Paese del mondo) andassero davvero in default, verrebbe risarcito.
Il premio ovviamente varia a seconda della rischiosità percepita dal mercato: per assicurarsi contro il default della Germania bastano 13 punti base (cioè si paga lo 0,13% dell’importo che si vuole assicurare), mentre per assicurarsi contro l’insolvenza dell’Italia si pagano 53 punti base. Cioè lo 0,53%.
E qui viene l’anomalia: per assicurarsi contro il default degli Stati Uniti (che hanno rating altissimi, un gradino sotto il massimo di Tripla A) si paga ormai un premio analogo a quello che serve per coprirsi contro il rischio di insolvenza di Paesi con rating ben più bassi come l’Italia o la Grecia. Sia chiaro: questo non è un allarme. Cinquanta punti base sono comunque pochi.
Paesi davvero a rischio hanno Cds che superano abbondantemente i mille punti base. Ma se si pensa che i Cds della Germania quotano a 13, si capisce l’anomalia. Il mercato prezza un rischio Usa elevato rispetto al rating statunitense.
Rischio che è salito nell’era Trump, dato che i Cds a inizio anno quotavano 18 punti base più bassi. Performance inversa, invece, per l’Italia e per quasi tutti i Paesi europei, che da inizio anno hanno ridotto gli spread dei Cds.
Perché il mercato ha i nervi così scoperti sul debito pubblico Usa? Perché la politica di Trump crea incertezza, perché tanti analist
hanno iniziato a mettere in dubbio il dollaro come valuta di riserva globale, perché deficit e debito Usa sono elevati e in crescita, perché la conferma dei tagli fiscali voluta da Trump e ora al vaglio del Congresso pesa sui conti pubblici, perché tutti pensano che i dazi non potranno da soli finanziare i tagli alle tasse.
E il mercato è teso. È vero che anche i titoli di Stato Usa hanno rendimenti elevati, molto più di quelli italiani. Ma sui titoli di Stato giocano vari fattori, a partire dalle aspettative sull’inflazione e i tassi Fed. Sui Cds no: qui conta solo il rischio Paese percepito dal mercato. E vedere gli Usa percepiti come la Grecia, un certo effetto lo fa.
(da agenzie)
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Giugno 3rd, 2025 Riccardo Fucile
TAGLIATE ANCHE LE PREVISIONI PER L’ITALIA, CHE PASSANO DA UN MISERO +0,7% A UN ANCORA PIÙ MISERO 0,6% … SECONDO L’ORGANIZZAZIONE, IL NOSTRO PAESE RISCHIA UNA DIMINUZIONE DELLE ESPORTAZIONI NEL 2026 A CAUSA DELLE TARIFFE COMMERCIALI IMPOSTE DALLA CASA BIANCA
«Le prospettive globali stanno diventando sempre più complesse. Aumenti sostanziali
delle barriere commerciali, condizioni finanziarie più restrittive, un indebolimento della fiducia di imprese e consumatori e una maggiore incertezza politica avranno effetti negativi significativi sulle prospettive di crescita, qualora dovessero persistere.
L’aumento dei costi del commercio, in particolare nei Paesi che stanno introducendo dazi, spingerà anche al rialzo l’inflazione, sebbene tale effetto sarà parzialmente compensato dal calo dei prezzi
delle materie prime».
È quanto si legge nell’outlook economico dell’Ocse che ha ridotto le stime di crescita per il 2025 e il 2026 al 2,9%, in ribasso rispetto al 3,1% atteso a marzo per l’anno in corso e al 3% previsto il prossimo.
L’Ocse taglia anche le stime sull’Italia, con le prospettive di crescita che passeranno dallo 0,7% del 2024 allo 0,6% nel 2025 e allo 0,7% nel 2026.
Il rallentamento sarà concentrato principalmente negli Stati Uniti, in Canada e in Messico, mentre per la Cina e altre economie si prevede una revisione al ribasso più contenuta.
«La crescita del commercio globale è destinata a rallentare in modo significativo nei prossimi due anni dopo un marcato anticipo delle spedizioni in vista degli aumenti tariffari previsti – rilevano gli esperti dell’Ocse -. L’incertezza dovrebbe continuare a frenare gli investimenti delle imprese».Per quanto riguarda l’inflazione, le nuove stime sono un incremento annuo nelle economie del G20 del 3,6% nel 2025 e del 3,2% nel 2026. A marzo previsto un +3,8% nel 2025 e un +3,2% nel 2026. Per le economie Ocse atteso +4,1% e +,3,2%.
«I rischi per la crescita restano orientati al ribasso, a causa dell’incertezza generata dagli sviluppi delle politiche commerciali globali». È quanto si legge nel nuovo outlook economico dell’Ocse nel capitolo dedicato all’Italia in cui si sottolinea il fatto che «nuove restrizioni commerciali o misure di ritorsione, o una debolezza più prolungata della domanda nell’area euro, potrebbero portare a una contrazione delle esportazioni più marcata del previsto».
L’incertezza «potrebbe indurre le imprese a ridurre più del previsto i propri piani di investimento e assunzione, e le famiglie a limitare i consumi per accrescere i risparmi precauzionali»
In positivo, «una quota maggiore dei progetti di investimento
pubblico finanziati attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza potrebbe essere realizzata nel 2025 e 2026 rispetto alle attese».
«Le nuove restrizioni commerciali a livello globale dovrebbero comportare una lieve contrazione dei volumi di esportazione nel 2026, la prima contrazione dal tempo della crisi finanziaria globale (escludendo la pandemia).
Le esportazioni dovrebbero riprendere a crescere nel 2026 grazie all’aumento degli investimenti e della spesa per la difesa da parte di altri Paesi europei». E’ quanto affermano gli esperti dell’Ocse nel capitolo dedicato all’Italia del nuovo outlook economico pubblicato oggi.
(da agenzie)
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Giugno 3rd, 2025 Riccardo Fucile
L’ESECUTIVO E’ DURATO MENO DI UN ANNO, HA PERSO GLI ALLEATI PER STRADA
Il governo dei Paesi Bassi è caduto. Lo hanno annunciato i leader dei partiti che formavano la coalizione di destra-estrema destra dopo che il Pvv, partito nazionalista e populista guidato da Geert Wilders, ha ritirato il suo sostegno alla maggioranza.
Nelle ultime settimane lo scontro interno si era intensificato sul tema delle migrazioni, in particolare sulle norme che regolano l’asilo. Pochi giorni fa Wilders aveva avanzato delle richieste ben più estreme di quelle concordate dalla coalizione alla nascita del governo, dicendo che se non fossero state accolte si sarebbe tirato fuori. Due riunioni straordinarie svoltesi lunedì sera e martedì mattina per tentare di ricucire lo strappo non sono bastate.
È durata meno di un anno, dunque, l’esperienza del governo di destra guidato dall’indipendente Dick Schoof, 67enne ex capo dei servizi segreti: era entrato in carica a luglio 2024. A comporlo erano il Pvv, il partito degli agricoltori Bbb, il partito di centrodestra Nsc (Nuovo contratto sociale) e i liberali del Vvd. Erano serviti oltre sei mesi di tempo per trovare l’accordo di governo. La forza principale era proprio il Pvv di Wilders, che aveva di fatto vinto le elezioni a
novembre 2023, e il partito esprimeva anche la ministra per la Migrazione, Marjolein Faber. Ma questo non è bastato a ottenere le riforme desiderate.
La caduta del governo è arrivata invece a seguito di uno scontro sull’immigrazione. Un progetto di legge del Pvv sul tema era in lavorazione da mesi: l’obiettivo era di ridurre drasticamente il numero di domande d’asilo nel Paese. Un tema che Wilders aveva in parte accantonato durante le trattative per la formazione del governo, solo per tirarlo nuovamente fuori poco dopo la sua nascita.
Ma i lavori procedevano a rilento, e già a febbraio il Consiglio di Stato era intervenuto dicendo che il testo era scritto “in modo approssimativo”. In quell’occasione, Wilders aveva attaccato i giudici definendoli “burocrati non eletti” (un linguaggio non lontano da quello di Donald Trump e della destra di governo italiana) e aveva minacciato di ritirare l’appoggio al governo.
La settimana scorsa il leader del Pvv era tornato all’attacco: “Il governo deve chiudere le frontiere ai richiedenti asilo entro poche settimane, altrimenti ce ne andiamo”, aveva detto in una conferenza stampa. In quell’occasione aveva anche presentato un nuovo piano, in dieci punti, che prevedeva una stretta sull’asilo. E andava ben oltre ciò che i partiti avevano concordato come coalizione.
Uno strappo a tutti gli effetti, insomma. Tra le altre cose si chiedeva di chiudere le frontiere ai richiedenti asilo, usando l’esercito per farlo, e di rimpatriare subito i rifugiati siriani che si trovano nel Paese con un permesso di soggiorno temporaneo. Condizioni sostanzialmente inaccettabili per gli altri partiti, e infatti le riunioni degli ultimi due giorni sono servite a poco. Così Wilders oggi ha fatto l’annuncio: “Nessuna firma per i nostri piani di asilo. Nessuna modifica all’Accordo quadro principale. Il Pvv lascia la coalizione”.
Il governo aveva rischiato di cadere già sei mesi fa per razzismo
La vita del governo di Schoof era stata da subito complicata. A novembre dello scorso anno, quando l’esecutivo era in piedi da pochi mesi, si era dimessa la sottosegretaria alle Finanze Nora Achahbar, del Nsc (centrodestra). Il motivo: le frasi razziste che sarebbero state pronunciate durante una riunione del Consiglio dei ministri, a seguito delle violenze dopo una partita di calcio tra Maccabi Tel Aviv e Ajax.
In quell’occasione il Pvv aveva apertamente accusato “l’immigrazione e l’Islam” di essere responsabili per le violenze. A porte chiuse, evidentemente, il linguaggio era stato anche più forte e in particolare avrebbe colpito i “marocchini”. Achahbar è di origini marocchine, e si era dimessa condannando gli “atteggiamenti polarizzanti” del governo nelle settimane precedenti. Per alcune ore era sembrato che anche tutti i ministri del Nsc si sarebbero tirati indietro. Poi la linea era cambiata e l’esecutivo era rimasto in piedi.
(da agenzie)
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Giugno 3rd, 2025 Riccardo Fucile
I DRONI ERANO NASCOSTI IN ALCUNI TIR CHE TRASPORTAVANO CASETTE PREFABBRICATE DAL KAZAKISTAN. OGNI CAMION AVEVA LA SUA “CONSEGNA”: UNA VOLTA CHE SI AVVICINAVANO GLI OBIETTIVI, IL TETTUCCIO SI APRIVA E I VELIVOLI PARTIVANO … IL SUPPORTO DI UNA RETE DI SPIE ATTIVE IN RUSSIA PER CONTO DI KIEV
L’uomo che ha tessuto gli ultimi fili della tela del ragno si chiamerebbe Artyom
Timofeyev, nato il 7 dicembre dell’87 a Zhytomyr, Ucraina. Fonti russe lo hanno indicato come il proprietario dei camion trasformati in piattaforma di lancio per i droni coinvolti negli attacchi contro le basi.
I media scrivono che Artyom ha gestito la spedizione di componenti per case prefabbricate dando le disposizioni agli autisti.
Ecco il tracciato, i tempi e poi un’area di parcheggio dove fermarsi ad un’ora prestabilita e dopo aver ricevuto una telefonata dal committente.
I guidatori hanno caricato la «merce» non sapendo che all’interno erano stati nascosti dei piccoli droni kamikaze, come non sapevano di un particolare dispositivo che ha permesso di scoperchiare i veicoli e favorire l’uscita dei velivoli. Un’altra versione sostiene invece che siano stati aperti manualmente.
Ogni Tir aveva la sua «consegna» di casette, mete in corrispondenza delle basi dell’aeronautica a Belaya (Irkutsk), Olenya (Murmansk), Diaghilev (Ryazan) e Ivanovo. E una volta in prossimità dei siti è partita la manovra finale.
Kiev sostiene di aver impiegato 117 droni, pare con un raggio d’azione di una ventina di chilometri e con una rotta pre-programmata. Un breve balzo che ha permesso alle armi di sorprendere le difese: gli ucraini rivendicano la distruzione di 41 velivoli, i russi minimizzano e scendono a 13, di cui 12 bombardieri strategici.
Nella lista sono citati i Tu 95 e i Tu 22, velivoli che l’Armata utilizza per gli strike contro la città nemiche, parte della componente strategica del Cremlino. Danni avrebbe riportato anche un A 50, prezioso radar volante.
Cavalcando l’effetto sorpresa e la soddisfazione per aver condotto un’incursione spettacolare a migliaia di chilometri di distanza
l’Ucraina ha sferrato una «seconda ondata» fatta di dettagli sul «come» sia stato possibile.
Un tentativo di amplificare la manovra, andando oltre i risultati effettivi. Il presidente Zelensky ha affermato che un centro operativo avanzato sarebbe stato creato nelle vicinanze di una sede dell’intelligence avversaria.
Poi ha insistito su un piano elaborato da oltre un anno, una descrizione che fa il paio con quella del Mossad a proposito dell’attacco con i cercapersone contro l’Hezbollah libanese. Altri particolari sono emersi sui droni: contrabbandati in territorio russo, tenuti nascosti e poi infilati all’interno dei camion.
Mente dell’assalto il capo dell’Sbu, Vasyl Malyuk, immortalato in una foto dove studia le mappe degli obiettivi e sono ben visibili due Tupolev 95.
Infine, gli esecutori dell’ultimo atto che, stando alla versione di Kiev, sono tornati a casa sani e salvi.
A completare il quadro indicazioni sul passato (presunto) di Artyom Timofeyev, il «gestore dei camionisti». Dopo aver studiato arte in Ucraina si sarebbe trasferito nel 2018 in Russia stabilendosi a Miass, regione di Chelyabinsk, dove è entrato in una società agro-alimentare.
Nella sua esistenza anche un lavoro da dj e una ditta d’abbigliamento mentre la moglie avrebbe scritto romanzi erotici. Una coppia molto presente sui social, senza farsi troppi problemi. Da capire se Artyom abbia operato per interesse o perché, invece, era un agente «in sonno».
Una seconda domanda riguarda l’eventuale supporto occidentale all’incursione. Poiché siamo nel campo delle azioni «coperte» mai dire mai anche se spesso ci si dimentica che l’Ucraina ha una propria tradizione di intelligence, conosce le «vie clandestine», ha sua
tecnologia. Ciò non esclude che siano arrivate dritte sugli obiettivi da una ricognizione satellitare amica.
(da agenzie)
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