GIUSTIZIA, UNA RIFORMA PUNITIVA
IL PARERE DEL COSTITUZIONALISTA AINIS
Tre grandi riforme illuminavano i cieli della legislatura. Una soltanto splende ancora all’orizzonte. La prima — quella più grande, maiuscola, possente — vorrebbe ribaltare la nostra forma di governo, consegnando il bastone del comando al premier, senza contrappesi né contropoteri. Ma se n’è persa traccia, nessuno sa più dove sia finita. Per quale ragione? Ipotesi: perché dopo il voto degli eletti voteranno con un referendum gli elettori, e una bocciatura popolare manderebbe il governo gambe all’aria (Renzi docet). Dunque meglio traccheggiare, rinviando il valzer all’ultima curva della legislatura, per abbinare il referendum alle prossime elezioni.
Quanto alla seconda — l’autonomia differenziata — ha subito la mannaia della Consulta, che ne ha amputato le norme principali. Sicché la legge Calderoli è ormai uno zombie, né morta né viva; magari potrà resuscitare, ma occorre il miracolo di Lazzaro.
E allora resta in piedi solamente la terza riforma: una giustizia tutta nuova. Nuovi giudici, nuovo Csm, nuovi reati, nuovi pacchetti sicurezza. Su questo fronte, infatti, l’esecutivo sfodera l’energia d’un boxeur. Coniugando il giustizialismo di Meloni con il garantismo di Tajani, insieme agli impulsi manettari di Salvini.
Togli un reato per chi indossa una cravatta (l’abuso d’ufficio), ne aggiungi una dozzina per chi calza i jeans (vietando i rave o i blocchi stradali di Ultima generazione), t’incattivisci contro gli immigrati (niente cellulare a chi non ha un permesso di soggiorno), punisci due volte i detenuti (lasciando in carcere la mamma e il suo neonato, o aggiungendo anni di galera per chi s’azzardi a protestare dentro un penitenziario).
Infine punti il dito sulle regole del gioco, cambiando la Costituzione. E tiri dritto, nonostante l’aspro parere di dissenso votato dal Consiglio superiore della magistratura a larga maggioranza (24 consiglieri), nonostante le proteste dell’Associazione nazionale magistrati, che minaccia già lo sciopero. Il disegno di legge costituzionale firmato dal ministro Nordio è approdato l’8 gennaio nell’aula della Camera; in pochi giorni è giunto già a destinazione. Procedendo spedito come un treno, l’unico treno puntuale delle ferrovie italiane.
Ma che merce viaggia su quel treno? La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, in primo luogo: una norma bandiera, dato che oggi soltanto l’1 per cento dei magistrati trasmigra da una funzione all’altra. Effetto d’una legge del 2022, che consente questo passaggio una sola volta nel corso della carriera, e con l’obbligo di cambiare sede.
Il rischio, tuttavia, è che la riforma favorisca il controllo dei pm da parte dell’esecutivo: le garanzie formali circa la loro indipendenza restano in piedi, quelle sostanziali sono tutte da verificare.
E c’è poi il Csm — l’organo di autogoverno della magistratura — che dopo la riforma si fa in due: uno per i pubblici ministeri, l’altro per i giudici. Anzi in tre, dato che vi s’affianca un’Alta Corte competente per le sanzioni disciplinari. E tutti i loro componenti vengono estratti a sorte, tirando in aria i dadi. Una cura da cavallo contro la deriva correntizia, che ha minato l’autorità e il prestigio della magistratura. Nonché un metodo — il sorteggio — già sperimentato nell’Atene del V secolo, quando la democrazia emise i suoi primi vagiti, e tutt’oggi applicato con profitto in varie circostanze.
Ma perché espropriare interamente i magistrati del diritto di voto? Perché infliggere un’umiliazione al potere giudiziario? Se lo scopo è di tagliare le unghie alle correnti, meglio una soluzione equilibrata: sui 20 membri togati del Csm, 10 eletti, 10 sorteggiati.
È qui infatti il male oscuro di questa riforma, al pari delle altre brevettate dal governo: la loro radicalità, le soluzioni estreme che prospettano.
Il presidenzialismo non è il diavolo, ma lo diventa se i superpoteri del presidente eletto non vengono bilanciati da una rete di contropoteri. L’autonomia differenziata talvolta si giustifica, ma l’unità nazionale va in mille pezzi se ciascuna Regione può pretendere tutte le 23 materie in ballo. E la riforma della giustizia può rivelarsi profondamente ingiusta, quando è sorretta da scopi punitivi sul terzo potere dello Stato.
(da agenzie)
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