IL DOPO SALVINI È GIÀ INIZIATO, LA VICENDA RUSSA SI È RISOLTA IN UN DOPPIO DISASTRO. ORA SALVINI HA DAVANTI UNA DATA FATALE: IL 12 GIUGNO
IN CASO DI CROLLO ALLE AMMINISTRATIVE, GIORGETTI, ZAIA E FEDRIGA AVRANNO LA FORZA DI RISPEDIRLO AL PAPEETE?
Fino a qualche giorno fa era opinione comune che Matteo Salvini fosse un personaggio politico in declino, sì, ma in grado di arrivare alle elezioni del 2023 e lì giocarsi le sue residue possibilità.
I sondaggi lo fotografavano intorno al 15 per cento, ossia meno della metà dei voti ottenuti nelle Europee del 2019, ma pur sempre più di quel che raccoglieva la Lega prima dell’avvento del cosiddetto “capitano”.
Peraltro il partito nordista è ben strutturato al suo interno, costruito intorno a un’idea gerarchica che riconduce tutti o quasi i fili del potere al leader. In questo non assomiglia ai 5S, l’altro movimento populista a cui viene spesso e in modo improprio accostato, anche per le memorie del governo giallo-verde del ’18. Ora le certezze sembrano sul punto di sgretolarsi.
Come spesso avviene nella Storia, un evento figlio del caso o di un grossolano errore finisce per scoperchiare la pentola in cui l’acqua già stava bollendo, benché si facesse finta di non vedere. L’evento è naturalmente la mancata missione in Russia, su cui è già stato detto tutto. Quel che colpisce è che Salvini abbia preferito imbarcarsi in una simile, imprudente avventura invece di dedicarsi alla campagna per i referendum sulla giustizia del 12 giugno.
È come se il capo leghista, uno dei maggiori promotori della consultazione, non avesse alcuna fiducia nella possibilità di raggiungere il quorum.
Ma allora perché ha lavorato alla raccolta delle firme? Perché ha teorizzato l’urgenza di chiamare gli italiani a pronunciarsi sulle anomalie del sistema giudiziario? Evidentemente non era un impegno strategico per la Lega, ma solo un diversivo. La vicenda russa, su cui era stato fatto un investimento politico esclusivo, si è invece risolta in un doppio disastro.
Da un lato ha danneggiato l’immagine del governo, perché si è visto che un partito importante della maggioranza ha tentato di giocare una sua partita senza raccordarsi con Palazzo Chigi e la Farnesina. Ma soprattutto il danno è per la Lega.
Il dilettantismo è una colpa che in politica non si perdona, benché la maggioranza relativa in Parlamento sia tuttora appannaggio di un movimento, i Cinque Stelle, che quattro anni fa trionfò proprio in nome del dilettantismo e dell’incompetenza.
Poi la realtà si è incaricata di far svanire le illusioni. In ogni caso, oggi la Lega ha il problema del suo segretario. Il quale in condizioni normali sarebbe già stato sostituito.
Qualche tempo fa l’affare della maglietta putiniana in Polonia era suonato come un campanello d’allarme circa la lucidità dell’uomo. Oggi il nuovo incidente è molto più serio e grave.
D’altronde è vero che nella Lega ci sono alcuni buoni amministratori – vedi Fedriga e Zaia – ma poche figure dotate del temperamento politico necessario per mettere in minoranza colui che fino a ieri è stato una sorta di padre-padrone capace di lasciare ai suoi solo il “diritto di mugugno”. Per cui il dilemma sta innervosendo tutti.
Per un verso, la prospettiva di lasciare campo libero a Salvini ancora dieci mesi (e di fargli compilare le liste elettorali), inquieta tutti i maggiorenti leghisti.
Per l’altro, agire dopo l’estate, o comunque prima del voto, richiede il coraggio della disperazione.
E non è detto che basti, se manca una tessitura e soprattutto un’idea di quale debba essere il ruolo della Lega nel dopo Salvini. Tutti camminano su un filo sottile che potrebbe spezzarsi.
(da La Repubblica)
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