INTERVISTA A FOLCO QUILICI: “HO VIAGGIATO PER DIMENTICARE IL MIO INCONSCIO”
L’AVVENTURA DI UNA VITA: DAL PADRE FASCISTA DI SINISTRA ALLE IMMERSIONI IN TUTTO IL MONDO
Mentre osservo la placida rotondità del volto mi torna alla mente Robert Byron, viaggiatore inglese che non solo amava viaggiare per non stare fermo, ma trovava nel viaggio la sola consolazione al detestabile incalzare della civiltà .
Anche Folco Quilici rientra nella categoria dei viaggiatori.
Una pedagogia ovattata, a volte cartolinesca, spesso sincera, a tratti avventurosa, ha accompagnato le sue incursioni nel mondo.
Chi è davvero quest’uomo che ha attraversato deserti, addolcito foreste, solcato mari, ammansito squali, reso l’esotico un pràªt à¡ porter per paradisi televisivi capaci di gustare l’intelligenza di un documentario? Gli siedo davanti.
Gli dico: ogni volta che penso a lei non posso fare a meno di immaginarla con bombole e muta mentre si immerge in qualche mare del globo. Ha mai pensato al significato dell’immersione?
Mi guarda come se la domanda non lo riguardasse. Poi capisco che è un problema di comprensione uditiva. Infila l’apparecchietto. Sorride.
Ed è come se la vita dopo un fermo immagine riprendesse a scorrere. Sono affascinato da chi sa scendere nelle profondità , sia del mare che della terra.
«Pensa che sia lì il segreto della vita?»
Penso che la fatica di immergersi, per bipedi abituati all’orizzontalità , sia qualcosa che valga la pena indagare.
«Non mi tirerà fuori la questione dell’inconscio. Tutta la vita ho viaggiato per dimenticare il mio inconscio. Certo, non è la stessa cosa immergersi in una vasca da bagno e in un mare infestato dagli squali. Se l’ho fatto è stato esclusivamente per dare un’emozione a chi quelle cose le ha sempre sognate senza averle mai viste. Parlo degli anni Cinquanta e Sessanta. Oggi ci interessa meno il meraviglioso, l’inedito, l’irraggiungibile. Pretendiamo però di salvare il pianeta. Comodamente seduti in poltrona!»
È mutata la sensibilità . Il messaggio.
«No, guardi, è mutato il “format”. Oggi il leone o l’orso bianco li devi vedere minacciati dalla sparizione per fotografarli. Tra un po’ neppure quello. Abbiamo trasferito le nostre ansie, le nostre paranoie sul mondo animale. Lo abbiamo antropologizzato».
Non è che lei non umanizzasse?
«Ma non fino a questo punto. Si passano intere giornate per filmare due moscerini che fanno sesso. La voce fuoricampo grave o insinuante racconta l’atto. La presa di possesso. L’orgasmo. La morte in agguato. Non sai mai se stai in un film di Hitchkock o alla rappresentazione scollacciata del Bagaglino. Mi dispiace. Tutta la mia attività di documentarista – e ne ho fatte di cose che non mi piacevano – è sempre stata guidata dal sogno di bambino: scoprire, meravigliarsi, fantasticare”.
Dove è nato?
«A Ferrara. Nel 1943 la nostra casa fu distrutta da una bomba. Non esplose. Come un pugno gigantesco l’attraversò tutta. Si salvò, in parte, solo la biblioteca di mio padre».
Letterato?
«No, giornalista. Nello Quilici: direttore del Corriere Padano ».
Un leghista ante litteram?
«Ma no, un fascista di sinistra. Molto legato a Italo Balbo. Lo chiamò per quell’ultimo dannatissimo volo. Accennò a una missione. Si sfracellarono sotto il fuoco amico della contraerea italiana».
Provi a fornire qualche dettaglio.
«Cosa vuole sapere?»
Fu un incidente?
«Non si è mai chiarito. Sorvolavano Tobruk. Il trimotore entrò in un corridoio vietato. Si abbassò, forse sconsideratamente, e alla fine venne colpito. Scese giù, dicono i testimoni, in fiamme. C’era Balbo. E c’era mio padre. Era il 28 giugno 1940. Fu un attentato? Un complotto? Un errore? È difficile da spiegare. Papà teneva un Diario che fu ritrovato. Mancano le ultime quattro pagine. Cosa c’era scritto? Ho tentato di ricostruire tutto questo».
Perchè?
«Perchè è stata la mia ossessione. Ogni volta che ascoltavo qualche testimonianza era come se avvertissi le urla dentro quell’aereo colpito. Voci straziate che ho immaginato e che mi hanno accompagnato per anni nel dolore e nella rabbia. Ricordo quando apprendemmo la notizia».
Dov’era?
«A Ferrara. Venne a trovarci Michelangelo Antonioni. Giovane. Elegante. Silenzioso. Mi abbracciò. Strinse me e miei fratelli. Scriveva per il Corriere Padano . Mio padre gli aveva dato una rubrica di cinema. Ferrara pareva una città irreale. Nel caldo incombente di quei giorni Michelangelo scrisse che udì la voce di una contadina pronunciare in dialetto: “I dis ch’è mort Balbo”. È probabile che morì per i contrasti con il Duce».
Restaste a Ferrara?
«No, dopo un po’ sfollammo in un paesino sopra Bergamo. In una casa di campagna dove mio padre ogni tanto andava. E lì per la prima volta lessi un lungo racconto sul mare. Venti mesi a caccia di balene , si intitolava. Non era ancora il tempo di Melville. Ma quel libro – impolverato e seminascosto – mi aprì un mondo sconosciuto e affascinante. Anche se non ne sei consapevole c’è sempre un momento in cui le cose iniziano. Il mio rapporto col mare fu lì che ebbe origine. Poi giunse la liberazione».
Cosa fece?
«Ci trasferimmo a Roma. Era il 1945, avevo 15 anni. Feci in tempo per iscrivermi al Tasso. Non so se Roma mi piacesse. Era disperatamente frenetica. Un’estate andammo da uno zio a Levanto. Giornate quiete davanti a un mare bellissimo. Lo zio era un uomo curioso. Un sognatore passivo. Non chiese nulla solo che la sera gli raccontassi ogni volta un film diverso. Alla fine il repertorio si esaurì. Cominciai a inventare storie marine, popolate di pesci enormi e di onde gigantesche».
Era il mare che tornava.
«Tornò davvero quando vidi un ufficiale americano con pinne e maschera scendere in acqua. Mi avvicinai e dopo un po’ gli chiesi se poteva prestarmele. Fu così che tentai la mia prima immersione. E da allora ho dovuto attendere la vecchiaia per smettere».
È stato tra i primi, forse il primo, a raccontare cosa accadeva in quei mari vicini e lontani.
«Tutto cominciò con delle foto subacquee che piacquero a Ulrico Hoepli. Poi venne il primo film: Sesto continente .Era la prima volta che la gente vedeva i fondali marini. Gli squali. Impiegai un anno a girarlo. Sul Mar Rosso. Il film andò a Venezia. Avevo 24 anni e mi sembrava che la fortuna avesse cominciato a prendermi sul serio».
Dopo c’è stata una lunga e onorevole carriera.
«Lunga sì, con alti e bassi».
C’è qualcosa di cui si pente?
«Il mio lavoro ha tenuto conto di qualche compromesso. Sotto ricatto di un produttore girai per esempio Dagli Appennini alle Ande . Fu un viaggio bellissimo. Ma realizzai un brutto film».
Ricatto perchè?
«Chi ha i soldi spesso vuole metter bocca. Ma non tutti i produttori erano così. Goffredo Lombardo, che finì protestato, è quello con cui ho lavorato meglio. Tra le tante cose girai con lui Tikoyo e il suo pescecane ».
Fu un film di grande successo.
«Goffredo, che aveva ereditato la Titanus, mi disse: ho letto un libro che parla di un’amicizia tra uno squalo e un ragazzo. Potrebbe diventare un film? Goffredo amava il mare e mi propose di girarlo alle Antille. Gli dissi guarda che la storia funziona se l’ambientiamo in Polinesia. Facemmo un sopralluogo e alla fine partimmo. Il problema era lo squalo e chi avrebbe sceneggiato la storia».
Lo squalo perchè?
«Dovevamo addomesticarlo. Decidemmo di usare uno squalo finto. Fu Amilcare Rambaldi a realizzarlo. La prova generale avvenne nel mare di Ponza. Un disastro. Andava a fondo e per poco non morirono affogati i tecnici che dovevano assisterlo. Rambaldi era imperturbabile. Noi disperati. Disse semplicemente: non vi preoccupate ve lo spedisco a Tahiti. E così fece».
E a quel punto?
«Lo esibimmo sulla piazza principale nella curiosità degli isolani. Intanto la sceneggiatura era completata ».
Chi la scrisse?
«Italo Calvino. Gliela chiesi e dopo qualche insistenza riuscii a vincere la sua ritrosia. Gli piaceva quell’atmosfera fantastica da favola oceanica. Mi disse soltanto che lo squalo avrebbe dovuto strizzare l’occhio. Quello di Rambaldi a momenti neanche apriva la bocca. Decidemmo di usare un piccolo squalo vero. In quei posti è abbastanza normale che i bambini giocassero con questi animali. Buttammo in una piscina uno squalo tigre. Lo filmammo. Era totalmente disinteressato a noi».
E strizzò l’occhio?
«Be’ sì. Chiuse l’iride e poi la palpebra. Sono tra i pochi pesci dotati di palpebra».
Con Calvino ha lavorato ancora?
«Per il mio programma L’Italia vista dal cielo gli chiesi di scrivere il testo sulla Liguria. Arrivarono poche pagine intense, chiare, bellissime. Parlavano di una regione complicata, cresciuta in altezza e in lunghezza. E di mille paesini inserrati l’uno nell’altro per proteggersi dal pericolo che arrivava dal mare. Oggi le acque sono un pericolo ben diverso. Ma Italo aveva capito tutto».
Lo dice con una certa ammirazione.
«Ho amato sia lui che Sciascia. Due forme di introversione e di genialità . Ma Sciascia era certamente più generoso ».
Nel senso?
«Rassegnato alla natura umana. I suoi silenzi non nascevano dal sospetto verso l’altro. Ma da una condizione tragica. Perciò se ne fregava. Chiedi e ti sarà dato. Italo, del quale divenni un po’ amico, era esasperato dai rapporti con le persone. Un giorno gli dissi che mi sarebbe piaciuto portare sullo schermo Il barone rampante o Il visconte dimezzato. Mi guardò come se lo avessi insultato. Non devi chiedermelo mai più. Sono storie che devono restare sulla carta, disse con una voce rabbiosa che non ammetteva repliche».
Difendeva il suo lavoro.
«Ma sì, lo capisco. E poi, come seppi, prima di me decine di registi avevano chiesto la stessa cosa. Comunque ci rimasi male. Sono stato anche molto amico di Fernand Braudel che ha collaborato al mio lavoro sul Mediterraneo. Era una persona eccezionale. Generosa. Ironica. Disponibile a valutare le idee degli altri. Ho imparato molto dal suo lavoro di storico. Chi invece era insopportabile per tutta la sua prosopopea, era Jacques Cousteau. Lo conobbi e per tutto il tempo lo sentii sparlare di tutti e ribadire che lui era il migliore».
Forse nell’esplorazione dei mari lo era.
«Era bravo. Ma grazie ai mezzi illimitati che gli forniva la marina francese. Quello che io ho realizzato è sempre stato frutto di sforzi economici pazzeschi. Oggi se mi guardo indietro mi vedo come uno che ha interpretato un certo modo di viaggiare. Non c’era ancora il turismo di massa. Ma c’era già l’immaginario di massa. Sono stato in mezzo a queste due esigenze».
C’è stato in che modo?
«Mi mettevo nella condizione del bambino. Per capire gli altri. Per dir loro: ecco, guardate cosa c’è lontano dalle vostre case. Li invitavo a sognare. Ma per sognare devi educare la curiosità . Una volta a Roma conobbi un cacciatore di savana. Vidi che sparava su delle fotografie della fidanzata. Poi si calmò.A quel tempo volevo girare un film sui popoli primitivi dell’Africa. E la conversazione finì su questo. Lui mi disse che aveva conosciuto una popolazione di pigmei che cacciava il bufalo e l’elefante con l’arco e le frecce. E poi mi disse: c’è una donna che vive in Somalia. Una bianca che può aiutarti nelle tue ricerche. Quella donna divenne mia moglie ».
E il film?
«Fu girato: L’alba dell’uomo . Raccontai un continente straordinario che oggi non c’è più. Anna, mia moglie, aveva il padre che viveva in Somalia. Fu ucciso in una delle ricorrenti stragi a Mogadiscio. Penso che quelle terre siano incapaci di prendere sonno. Non dormono più. Ma non vivono neanche più. Mi piacerebbe oggi raccontare tutto questo».
Perchè non lo fa?
«Perchè tranne qualche gloriosa prefazione nessuno più mi dice: Folco raccontaci una nuova storia. Non sono patetico. Ho un grande archivio. In parte donato ad Alinari. Dei figli che stanno avendo successo. E intatto è restato l’amore per Anna. Presto ci trasferiremo in campagna. Venderemo la casa romana. Non ho più molte cose che mi legano a questa città . Dove potrei immergermi, in quale acqua che non sia quella stantia del tempo che passa?»
Cosa vorrebbe dalla vecchiaia?
«Accidenti, cosa vorrei? Ho finito di scrivere un romanzo. Uscirà in ottobre. Ho ancora fame di volti e di luoghi. È la fame che sogno. Che continuo a vedere come lo squalo con le cinque fila di denti e la pupilla dilatata. Mi strizza l’occhio. Mi dice: non temermi. È la prima cosa che ricordo quando mi sveglio al mattino».
Antonio Gnoli
(da “il Corriere della Sera”)
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