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INTERVISTA A GIANCARLO CASELLI: 40 ANNI DI INCHIESTE

DALLA PROCURA DI PALERMO AL PROCESSO ANDREOTTI, DAI RAPPORTI MAFIA-POLITICA AI NO TAV

Procuratore Gian Carlo Caselli, lei fra due giorni andrà  in pensione dopo quarantasei anni in magistratura, cosa si lascia alle spalle?
“Tanto. In tutto questo tempo ho fatto un’infinità  di mestieri molto diversi fra loro. Prima il giudice istruttore a Torino sul versante dell’antiterrorismo, occupandomi di Brigate Rosse e Prima Linea. Poi dal 1986 al ’90 al Csm, affrontando un “caso Palermo” dopo l’altro. È in quegli anni che la Sicilia ha cominciato a entrarmi nel cuore. Ricordo la nomina di Borsellino a procuratore di Marsala, con una maggioranza tutta a suo favore. E la mancata nomina di Falcone a consigliere istruttore, con quella stessa maggioranza che si ribalta privilegiando la pura anzianità  di un altro magistrato e fa soccombere il principio della professionalità  e dell’attitudine. Certo, mi resta l’orgoglio di rivendicare di aver votato sempre nel senso giusto: per Borsellino e Falcone, e per difendere strenuamente il pool di quell’ufficio. Ma anche l’amarezza di non essere riuscito a far prevalere la ragione, nonostante tutti gli sforzi”.
Un po’ la fine che è toccata anche a lei, quando si è trattato di concorrere alla nomina a Procuratore nazionale antimafia.
“Paradossalmente però ne vado fiero. Quella legge contra personam non riguardava solo me, ma tutta la magistratura indipendente. Le cito le parole pronunciate qui a Torino dall’allora Procuratore generale Maddalena all’inaugurazione dell’anno giudiziario, con indosso tanto di toga rossa ed ermellino: l’obiettivo era quello di “colpirne uno per educarne novemila”, disse. Tanti quanti sono i magistrati in Italia. Una legge scandalosa, poi giudicata anche incostituzionale, che colpiva il mio diritto di partecipare al concorso. Un cambio delle regole a partita già  avviata, con tre voti per Grasso e tre voti per me, che è davvero inaccettabile in un paese democratico”.
Chi erano i suoi nemici, Procuratore?
“Giorni fa Nando Dalla Chiesa ha ricordato la sua esperienza in Senato, quando sentiva dire che non ero degno di ricoprire quel ruolo perchè avevo osato fare il processo Andreotti. Quindi, in quell’area certamente miei nemici. Ma anche di tutti i magistrati con la schiena dritta che hanno il coraggio di occuparsi di certi interessi e di certi imputati”.
Torniamo alla fotografia di questi 46 anni.
“Dopo il Csm rientro per pochi mesi a Torino, in Corte d’Assise, poi decido di fare domanda per andare alla Procura di Palermo. E lì comincia un’esperienza lunga sette anni…”.
Tra successi e veleni.
“Un’esperienza intensissima, ricchissima di risultati positivi, che ha potuto contare sull’approvazione all’unanimità  di due leggi fondamentali per il contrasto alla mafia: quella sui pentiti e il 41bis. Due novità  decisive rispetto al passato. Benefici di legge per chi collabora e carcere duro e degno di questo nome e non più l’Ucciardone “ostriche e champagne”, letteralmente, per i mafiosi detenuti. Una svolta che restituisce efficienza ed entusiasmo alle forze dell’ordine e consente alla magistratura riorganizzata in pool, di proseguire nel solco tracciato da Falcone e Borsellino”.
Siamo nella stagione delle stragi di mafia.
“Che aprono un’altra era. Chi fa raffronti tra l’epoca di Falcone e Borsellino e la nostra e dice che non eravamo degni neanche di allacciare le scarpe a quei due giganti magari dice il vero quanto ai nostri limiti, ma non si rende conto che dopo le stragi cambia tutto. Prenda due pentiti storici come Buscetta e Mannoia che avevano parlato anche con Falcone, ma fino a un certo punto. Beh, dopo Capaci e via D’Amelio, sentono il dovere morale di raccontare a noi quello che avevano taciuto. E fanno un clamoroso salto del fosso, affrontando la questione del rapporto tra mafia e politica. Per la lotta alla mafia quella è una mutazione geologica che consente di voltare pagina proprio come aveva indicato Falcone nel maxiprocesso. E noi abbiamo voltato pagina senza più “essere scaltri”, come ha scritto nel suo libro Peppino Di Lello. Senza più teorizzare quel rapporto perverso per poi negarlo nella prassi giudiziaria quotidiana, ma processando a viso aperto i mafiosi di strada esattamente come coloro i quali alla mafia offrivano il loro concorso esterno. Si chiamassero Andreotti o Dell’Utri”.
Tuttavia c’è ancora chi parla di queste indagini come di un fallimento.
“È il gioco delle tre carte, disinformazione o travisamento della realtà . Prenda le due sentenze. Quella della Cassazione su Andreotti dichiara provate le sue collusioni con la mafia fino al 1980. I suoi incontri col boss Stefano Bontade per discutere di Piersanti Mattarella, un onestissimo democristiano ucciso perchè con la mafia non voleva avere nulla a che fare. Altro che processo alla Dc. Una persona un fatto, anche se la persona si chiama Andreotti. Stessa cosa per Dell’Utri. Quando il 9 marzo 2012 la Cassazione restituisce gli atti alla Corte d’Appello per un nuovo giudizio conclusosi con un’altra condanna, a pagina 129 della sentenza scrive che “il concorso esterno in associazione mafiosa è oggettivamente e soggettivamente configurabile almeno fino al 1978”.
E siamo alla zona grigia dei rapporti tra politica, mafia e imprenditoria.
“Certo. Un pezzo centrale della storia politica nazionale — Andreotti — e un pezzo centrale della storia dell’imprenditoria nazionale che poi si fa politica nazionale — Dell’Utri barra Berlusconi, visto che la Cassazione afferma che agiva di fatto come suo intermediario — hanno avuto rapporti stretti con la criminalità  mafiosa di cui si dovrebbe quanto meno discutere. Invece, niente. Anzi, fulmini contro la Procura di Palermo e legge contra personam per chi ha osato intraprendere quella strada. E travisamenti della realtà  che prendono il nome di assoluzione, persecuzione, innocenza. In questo modo a pagare è solo la qualità  della nostra democrazia”.
Lei arriva a Palermo il 15 gennaio 1993, giorno della cattura di Totò Riina. Che effetto le fa leggere queste sue nuove feroci minacce contro i magistrati del processo sulla trattativa?
“Le rispondo da esterno, anzi ormai da estraneo. Queste frasi impressionano. Non credo che Riina sia uno che parla a vanvera. Che poi voglia intorbidare le acque o muovere qualcosa sul piano di un’azione operativa, questo lo sa lui. Però, guai a sottovalutare le sue parole nei confronti del collega Di Matteo. Ma per fortuna mi sembra che nessuno lo abbia fatto”.
In tanti anni a Palermo non ha mai annusato profumo di trattativa?
“Assolutamente no. Mai nulla di nulla. Avrei cominciato io a indagare”.
È rimasto sempre un grande punto interrogativo sulla mancata perquisizione nell’abitazione di Riina, nonostante il processo e la sentenza.
“Certo, è un dato di fatto che la Procura fosse pronta a perquisire mentre i carabinieri del Ros hanno chiesto di soprassedere. E purtroppo è successo quel che è successo”.
E non le ha mai fatto venire nessun sospetto?
“C’è stato un carteggio tra noi e il Ros. E preferisco non tornarci. È stata una bruttissima pagina”.
Dopo Palermo, il suo ritorno a Torino è un ritorno alle origini.
“Per molti versi, sì. Con colleghi preparatissimi, con gruppi di lavoro specialistici. Penso a Guariniello e alle indagini sulla sicurezza nei posti di lavoro, come quella sull’Eternit. Penso alle indagini sulla corruzione, come quella su Rimborsopoli che è ancora in corso. Alle inchieste sulla ‘Ndrangheta. E sui reati commessi da frange No Tav in Val di Susa, alcuni connotati da una violenza intensa”.
La mafia ormai è stabilmente infiltrata al Nord.
“Ma anche il contrasto che facciamo non scherza. Nei processi denominati Minotauro, Crimine Due, Colpo di coda e Albachiara sono stati inflitti circa 850 anni di carcere per il 416bis. Quindi, certo che la mafia al Nord c’è, e ormai sappiamo riconoscerla nella sua struttura associativa anche se il sangue non scorre per le strade”.
Parliamo delle inchieste sui No Tav. Lei è stato molto criticato per le decisioni prese dalla Procura.
“Nella grande maggioranza, il movimento è fatto di persone molto per bene. Ma ha un difetto, quello di accettare che ci siano frange, schegge, persone estranee alla valle che praticano sistematicamente comportamenti violenti e illegali anche in forme gravi. E la parte perbene non si dissocia, se non balbettando qualcosa, anzi molte volte arriva a giustificare persino i sabotaggi ai cantieri. La frase “siamo tutti black bloc” ne è una costante dimostrazione. Un comportamento gravemente equivoco. Ma c’è anche un’area della stampa, della classe politica e intellettuale del paese che fatica a riconoscere che la violenza in democrazia…”.
Si riferisce allo scrittore Erri De Luca?
“Per carità , Erri de Luca è uno dei tanti. Ma quando sui muri di Torino compaiono scritte infami, oltraggiose, minacciose contro di me e contro i colleghi della mia procura e questi intellettuali non dicono una parola di condanna, c’è qualcosa che non funziona perchè penso che lo squadrismo, anche se si trasferisce nelle scritte sui muri, andrebbe sempre e comunque condannato”.
Cosa vuole dire Procuratore, che stiamo entrando in una stagione simile a quella che precedette gli anni di piombo?
“No, non lo dico e non lo penso. Sono stagioni diverse, per fortuna. Sono convinto che siamo stellarmente lontani da quel periodo. Ma nessuno può negare che gli attacchi al cantiere siano diventati una specie di laboratorio per la sperimentazione di forme di violenza. Come nessuno può dire che non ci sia anche una potenzialità  espansiva. E non si può nemmeno chiedere alla magistratura di essere cieca o indulgente. Penso all’attacco al cantiere della notte dello scorso 13 maggio. Lì c’è stata una vera propria azione paramilitare di venti persone divise in gruppi coordinati da un comando unificato che hanno preso di mira dei lavoratori, operai e forze dell’ordine lanciando di tutto, dalle pietre alle bombe carta. Un’azione che secondo il Gip aveva in fatto e in diritto una finalità  di terrorismo. Mentre nei siti web si continua a parlare di passeggiate e di criminalizzazione del dissenso da parte della magistratura”.
Il movimento contesta l’impatto ambientale dell’opera e il suo costo spropositato.
“Hanno tutto il diritto di farlo, avranno tutte le buone ragioni del mondo. Ma non lo so perchè non spetta a me questa valutazione. Quello che mi preme dire è che il movimento non può tollerare e giustificare alcun tipo di di violenza. Dare fuoco a un compressore, prendere a sassate gli operai che escono dalla galleria per spegnerlo, costringerli a ripararsi di nuovo nel tunnel col rischio di farli asfissiare, questo sarebbe opera degli eredi della Resistenza? Attaccare dei lavoratori che stanno lì per guadagnarsi il salario, questo sarebbe democratico? Non diciamo bestemmie. Il problema è che la politica continua a delegare alla magistratura compiti e responsabilità  che non le spettano in via esclusiva”.
La politica contesta l’invasione di campo dei magistrati.
“Ma mentre delega ma fissa un’asticella. Prendiamo la mafia. Fin quando ti occupi della mafia di strada, va bene. Quando entri nella zona grigia, non va più bene. Per i No Tav, non basta l’intervento investigativo-giudiziario, va bene. Sono necessari interventi diversi da parte della politica, della finanza, della cultura, dell’informazione. Beh, io non li vedo. Leggo che dieci milioni di euro che dovevano servire in compensazioni per la valle sono finiti chissà  dove. Questo significa gettare benzina sul fuoco. È inaccettabile”.
Si sente tranquillo sul caso della concessione dei domiciliari a Giulia Ligresti e sul coinvolgimento del ministro della Giustizia Cancellieri?
“C’è un procedimento in corso e non ne parlo. Comunque, personalmente sì. Mi sento più che tranquillo”.
Adesso si occuperà  di agromafie?
“Credo proprio che farò questo”.
Niente politica?
“Non ci penso nemmeno. Non è il mio lavoro”.

Andrea Purgatori
(da “HuffingtonPost“)

This entry was posted on mercoledì, Dicembre 25th, 2013 at 23:11 and is filed under Giustizia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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