INTERVISTA ALLA FONDATRICE DEL CENTRO ANTI-VIOLENZA KUSTERMANN: “LA LEGGE E’ CAMBIATA, LA CULTURA SULLO STUPRO NO”
LA GINECOLOGA CHE HA FONDATO IL CENTRO ALLA CLINICA MANGIAGALLI DI MILANO
Violenza sessuale, consenso, e il ruolo delle sostanze stupefacenti. Sono i temi che in questi giorni sono tornati al centro del dibattito pubblico, a seguito dello scoppio del caso che vede coinvolto Leonardo Apache, figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa. Il 19enne è indagato per l’accusa di stupro ai danni di una ragazza di 22 anni, che ha denunciato di essersi risvegliata la mattina dello scorso 19 maggio – in stato confusionale – nel letto di Leonardo, suo compagno di liceo. La 22enne, quel giorno, si è rivolta al centro Antiviolenze della Clinica Mangiagalli di Milano. E, stando a quanto appreso in questi giorni, i dottori hanno accertato la presenza di diverse lesioni.
Secondo una fonte delle Procura, «potrebbero essere compatibili con una violenza sessuale». Sugli aspetti giudiziari sarà la giustizia a fare il suo corso.
Ma qual è il percorso che si trova ad affrontare una ragazza (maggiorenne) che denuncia una violenza sessuale? Quali sono le violenze indirette che subisce dopo la denuncia? Come funziona la cosiddetta droga dello stupro?
Alessandra Kustermann, ginecologa che nel 1996 ha creato il centro antiviolenza pubblico SVSeD (Soccorso violenza sessuale e domestica) presso la clinica Mangiagalli e in prima linea per la difesa delle donne risponde assieme a Open agli interrogativi tornati al centro in questi giorni.
Nel 1996 dà vita al centro antiviolenza della Clinica Mangiagalli. A quale esigenza andava incontro all’epoca?
«Tutto è iniziato da un gruppo di ginecologhe che lavoravano nei consultori famigliari nella stessa clinica Mangiagalli. Sono stati fatti una serie di incontri per capire se fosse opportuno aprire un servizio che permettesse a chi aveva subito violenza sessuale di essere accolta nel modo migliore possibile. E così nel maggio del 1996, anno in cui è stato abolito lo stupro come reato contro la moralità pubblica, abbiamo inaugurato prima il centro antiviolenza pubblico e poco dopo il centro antiviolenza del privato sociale che – ancora oggi – dà supporto dal punto di vista economico, abitativo e legale. Il nostro ruolo è prima di tutto accogliere la donna in modo empatico e non giudicante. Si tratta di un servizio con psicologhe, assistenti sociali, ginecologhe, e medici legali. Ma le lesioni che riscontriamo nelle donne e nei bambini vittime di violenza sono molteplici e quindi chiediamo anche consultazioni con psichiatri, pediatri, otorinolaringoiatri e così via».
Cos’è cambiato dal ’96 , quando avete aperto il centro antiviolenza, a oggi?
«Quando abbiamo iniziato pensavamo che la maggioranza delle violenze sessuali avvenisse da parte di sconosciuti, ma poi ci siamo accorte che gli autori di questi reati sono principalmente partner, ex partner, amici, datori di lavoro, compagni di scuola o conoscenti. La percentuale di donne che arrivano da noi violentate da uno sconosciuto è minima. Dato che corrisponde anche alle statistiche nazionali elaborate dall’Istat, che dimostrano come la violenza da parte di uno sconosciuto riguarda il 6% delle violenze. Questo è un elemento fondamentale perché negli anni è cambiata la metodologia di intervento».
Le donne vittima di violenza sessuale che arrivano in clinica a Milano sono soprattutto giovani?
«Sì. La fascia d’età in cui avviene una violenza sessuale riguarda prevalentemente il range 18-34 anni. Va considerato, però, che da noi arrivano anche molti bambini. Ogni anno abbiamo circa un centinaio di abusi sessuali subiti da minori di 14 anni, e questo abbassa la media. Ma ciò non significa che ci sia un limite di età in chi subisce soprusi sessuali. Abbiamo anche donne di 90 anni violentate».
Qual è il percorso sanitario che deve affrontare una donna che denuncia una violenza sessuale?
«C’è da chiarire che in genere le donne arrivano prima in ospedale. È raro che denuncino senza prima essere pazienti. Le procedure sono diverse. Può esserci la necessità di intervenire con alcune pratiche contraccettive, con una terapia antibiotica o in alcuni casi si può arrivare anche a dare una terapia contro il rischio di contrarre l’Hiv. Questa è la parte forse meno faticosa per la donna. Poi iniziano altre pratiche, dove è innanzitutto necessario tenere presente che non si può visitare nell’immediato una persona che è appena stata violentata. Bisogna prima parlare con lei, conoscere le sue angosce e solo quando si è tranquillizzata procedere con la visita. Altrimenti è una seconda violenza. Tutto questo in media ha una tempistica di 3 ore. A questo punto iniziano i controlli sia a livello vaginale che livello generale. Fondamentale è la ricerca di lesioni sul corpo della donna. La letteratura ci dice che solitamente la presenza di una lesione potrebbe essere compatibile con un rapporto consenziente. Laddove ce ne fossero di più potrebbero invece essere frutto di una violenza».
A proposito di ulteriori violenze inflitte alla donna, in questi giorni si parla di vittimizzazione secondaria, ovvero la colpevolizzazione della vittima messa in atto da istituzioni e media. Quanto è realmente frequente?
«Basta pensare a quanto siano stati invasivi della privacy delle donne gli ultimi casi di cronaca. È come se la tua vita, quando decidi di denunciare una violenza sessuale, abbia il diritto di essere messa in piazza. È un fenomeno frequentissimo. La vittimizzazione secondaria viene fatta dai media. Ad esempio, quando negli articoli o nelle trasmissioni vengono forniti certi dettagli per descrivere le circostanze dell’aggressione. Sono traumatizzanti per la donna e fanno aumentare il suo senso di colpa. Ma viene svolta anche dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Spesso inconsapevolmente, ma avviene».
Spesso è il tema della droga assunta dalla vittima il centro di questa dinamica. Cosa ne pensa?
«Il fatto che la donna abbia assunto spontaneamente sostanze stupefacenti, anche ad esempio se l’ha accettata dall’uomo violentatore, si tratta di un’aggravante del reato di violenza sessuale. È importante ricordarlo: l’assunzione di droghe e alcol non rende meno grave l’abuso, ma lo aggrava».
Uso della droga dello stupro e violenze sessuali senza memoria: sono aumentati negli anni?
«Gli stupri senza memoria negli anni sono aumentati sempre di più. Se all’inizio degli anni 2000 ne vedevamo in clinica forse 5-6 in un anno, ora il numero si stabilizza tra i 70 e i 90. Succedono quando l’uso di droghe e alcol determinano un’amnesia retrograda, ovvero la ridotta capacità della donna di ricordare. Lo stupro senza memoria è molto più angosciante di quanto si possa credere, perché c’è un buco nero nella propria memoria e i racconti vengono fatti molto spesso da amiche o conoscenti che erano presenti. Quindi ricostruiscono la violenza nel tempo oppure si risvegliano sul pianerottolo di casa, spesso nude, o addirittura nel letto della persona che ha perpetrato la violenza. La cosiddetta “droga dello stupro” ha la peculiarità di essere un liquido incolore, inodore e insapore. Ma soprattutto scompare nel corpo nel giro di massimo 6 o 7 ore».
Quindi cercarne le tracce è quasi impossibile?
«È molto difficile cercare traccia di questo stupefacente nel sangue della donna violentata. Scadute le 6-7 ore non lo si ritrova più nel sangue o nelle urine perché si trasforma in un normale metabolita dell’organismo. E questo cosa significa? Che agli occhi delle analisi diventa parte di ciò che è normale trovare nel sangue di una persona».
Quanto è importante che le donne denuncino?
«Da parte nostra non c’è la volontà che la donna denunci a tutti i costi: è una sua scelta. È il corpo e la mente della donna ad aver subito la violenza, quindi deve decidere lei se vuole denunciare o meno. E soprattutto in quali tempi. A me sono capitate persone che hanno denunciato anche 10-11 mesi dopo la violenza. Solitamente lo fanno quando si sentono abbastanza forti da poter affrontare tutto, compresa la vittimizzazione secondaria».
E per la legge quanto tempo ha?
«Un anno di tempo. Questo è positivo: anche il legislatore ha ben chiaro che la scelta di denunciare non è una decisione semplice per la donna».
La donna che ha subito un abuso deve affrontare da un lato un percorso giudiziario e, dall’altro, il trauma psicologico. I tempi di uno e dell’altro combaciano?
«Negli anni mi si è sempre più confermata l’idea che i tempi della magistratura, delle indagini e dei processi non corrispondono ai tempi della donna. A volte il processo in primo grado dura un anno e mezzo, ma poi c’è il secondo grado e poi la Cassazione, senza contare che tutto può essere rinviato di nuovo all’appello. Sono anni e anni della propria vita in cui non si riesce ad uscire fino in fondo dal trauma della violenza. E ogni processo è un rivivere l’accaduto, anche perché non tutti sono preparati a interagire in modo corretto con una donna che ha subito violenza».
La violenza sulle donne fonda le radici in un grande problema culturale. Sotto questo profilo, a suo avviso, sono stati fatti passi in avanti negli anni?
«Dal punto di vista legislativo sono stati fatti molti passi avanti, prima con la legge contro la violenza sessuale del 1996 e poi con il Codice Rosso nel 2019. Cosa non è cambiato? La cultura degli uomini. Mi riferisco alla possessività di certi uomini in una relazione, ai maltrattamenti psicologici, fisici ed economici che ancora vengono messi in atto, alle donne che vengono continuamente insultate o svalutate nelle proprie capacità. E poi vorrei sia chiaro un elemento: non ci si può mai permettere di dire che una donna «se l’è cercata».
(da Open)
Leave a Reply