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LA DESTRA CHE SI SENTE ASSEDIATA E IL COMPLESSO DI CALIMERO

UNA SINDROME CHE DIVENTA ALIBI IDEOLOGICO, UTILE QUANDO SI E’ ALL’OPPOSIZIONE MA NON AL GOVERNO

C’è una convinzione assai diffusa nella destra di governo, ma coltivata a lungo anche nell’era berlusconiana, che in Italia vi siano poteri così forti in grado di contrastare, grazie all’ancoraggio europeo e internazionale, il risultato delle elezioni e vanificare persino la volontà popolare.
Un grumo di nemici di varia natura, tra la finanza, i media, la magistratura, le alte burocrazie — specie annidate a Bruxelles, capitale dell’anti-italianità — refrattari alle regole della democrazia parlamentare. Questa sindrome dell’accerchiamento si è improvvisamente riaccesa nei giorni scorsi per alcune disavventure giudiziarie che hanno riguardato esponenti della maggioranza. Come se i singoli casi — indipendentemente dal dato oggettivo dei fatti che vanno accertati nel pieno rispetto delle garanzie personali — fossero collegati da una percettibile trama oscura. È una delle eredità del berlusconismo (l’offensiva giudiziaria) di cui avremmo fatto volentieri a meno. Del resto, non si è ancora dissolto il sospetto che nel 2011, quando il Cavaliere dovette lasciare palazzo Chigi sotto i colpi della crisi finanziaria, si sia consumato una sorta di golpe europeo. Sotto traccia, il dubbio alberga ancora in buona parte di quella dirigenza politica.
Uno sguardo disincantato e realistico all’Italia di oggi, ci induce a ritenere che l’ombra minacciosa dei cosiddetti poteri forti sia assai meno incombente. Il complesso di Calimero — altra versione dell’underdog meloniano — non ha alcun fondamento sostanziale.
L’Unione europea, per Fratelli d’Italia e Lega, era in campagna elettorale un male da combattere. Oggi non si fa altro che invocarne — dall’immigrazione alla transizione energetica — l’intervento. Si è persa traccia della proposta di legge (Meloni prima firmataria) contro il primato del diritto comunitario su quello nazionale. Per conservare un briciolo di coerenza con la campagna elettorale si è preso in ostaggio il Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Elevato a cavallo di Troia del più oscuro e ingannevole potere europeo. O, meglio, della troika (che peraltro non c’è più). La presidente del Consiglio, che guida i Conservatori e Riformisti europei, ha guadagnato una sua centralità, anche grazie all’inevitabile distacco dai suoi alleati sovranisti. Il fatto che appaia oggi, a dispetto di ciò che pensa il suo riottoso alleato Matteo Salvini, un possibile futuro partner dei Popolari — forza storica di governo dell’Unione europea — smentisce molti dei luoghi comuni della propaganda di destra. La coerenza atlantica in politica estera e il sostegno deciso all’Ucraina sono punti fermi dell’azione di governo. Suscitano apprezzamento tra gli alleati. Non preoccupazione come ai tempi degli esecutivi gialloverde o giallorosso.
I poteri forti italiani si sono così indeboliti da apparire del tutto innocui. E non è sempre una buona notizia. Meglio averli e regolarli nella trasparenza. Non abbiamo più grandi gruppi industriali ed è questa una debolezza che segna il nostro declino. Non abbiamo più esclusivi centri finanziari dai quali dipendono i destini di intere famiglie imprenditoriali. La classe dirigente che osannava Draghi è andata generosamente in soccorso alla vincitrice. L’ultima tornata di nomine ne è una dimostrazione. Alla recente assemblea di Assolombarda la presidente del Consiglio è stata applauditissima. Quasi come se i due programmi — di governo e degli imprenditori — fossero intercambiabili. Accadde anche con Berlusconi premier. Per l’impresa che esporta, e bene, l’Italia è solo una frazione anche piccola del proprio fatturato. Irrilevante chi stia al governo. Le attività che dipendono dai consumi interni, dalle concessioni, seguono una stretta logica corporativa. Sono governativi per definizione pur scoprendo che vi sono categorie, piccole e agguerrite (balneari e tassisti per esempio) che contano più di intere filiere produttive aperte alla concorrenza.
Il governo Meloni non ha nulla da temere, se non la sua stessa maggioranza. E, godendo della collaborazione di fatto di un’opposizione divisa, può dormire sonni tranquilli. Vi sono però due aspetti della narrativa politica ed economica dell’esecutivo, figli del pregiudizio di cui sopra (i presunti poteri forti in agguato contro la democrazia e gli interessi italiani) che sarebbe bene dibattere e sciogliere una volta per tutte. Il primo è stato perfettamente descritto dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, in un intervento a Caorle, in occasione di un incontro di Tempi che ha suscitato già diverse polemiche, soprattutto per le sue critiche, del tutto legittime, al manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Secondo il sottosegretario «c’è un partito antitaliano, che non si presenta alle elezioni, un raggruppamento trasversale con una precisa visione della storia che pensa che l’Italia sia un Paese sbagliato. Il popolo non è in grado di operare le sue scelte, se lo fa è pericoloso e va riorientato, persino il colore dei fiori da piantare nel giardino qui fuori deve essere deciso a Bruxelles. È questa la logica del Pnrr, se non fai come ti dico io ti tolgo i fondi». Mantovano ha aggiunto: «Il governo Meloni è pericoloso perché rompe questa logica. Silvio Berlusconi è stato il bersaglio numero uno. Oggi Meloni è nel mirino per lo stesso peccato originale». Nel mirino di chi? Sarebbe interessante saperlo.
La domanda di fondo, dunque, è se questa sindrome dell’assedio di ipotetici poteri forti non sia soltanto un alibi ideologico, utile quando si è all’opposizione ma non al governo e se alla fine, soprattutto a livello europeo, non si traduca in un danno per il Paese, anzi per la Nazione. Aver esasperato la questione del Mes, per poi doverselo probabilmente trangugiare, va esattamente in questa direzione. Il secondo aspetto è legato a una tendenza in sé del tutto encomiabile, cioè quella di valorizzare, da parte del governo, il ruolo economico del Paese e i primati del made in Italy. Le classifiche internazionali ci penalizzano, spesso ingiustamente. E un po’ per colpa di come noi ci raccontiamo agli altri. Ma un conto è l’orgoglio, un altro l’esaltazione a volte acritica. Il primo è positivamente contagioso, la seconda è suggestivamente pericolosa perché distoglie lo sguardo dai problemi reali. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, ha partecipato recentemente, a Roma, all’assemblea di Union Food, ovvero la nostra industria agroalimentare. Adolfo Urso è convinto che l’Italia sia ormai, grazie al governo Meloni, il Paese più attrattivo al mondo per gli investitori esteri (siamo al ventottesimo posto). L’istituzione del liceo made in Italy sanerà, una volta per tutte, la piaga dei ragazzi che non studiano e non lavorano. La nostra industria poi, essendo legata a prodotti medio alti, è del tutto insensibile agli aumenti dei prezzi. Rivolgendosi poi, con prodotti e servizi, alla persona, pare non abbia alcun problema di posizionamento futuro. Del resto attualmente, siamo quelli che crescono di più tra le potenze occidentali. L’avvenire è roseo, i problemi risibili. Insomma, siamo un competitore così temibile e forte da sollevare ovunque invidie e inimicizie. A questo punto speriamo che tutto ciò sia vero.
(da il Corriere della Sera)

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