LA DITTA D’ALEMA-BERSANI TORNA IN CAMPO E DEMOLISCE RENZI: ORA RIDE DI MENO
ORA PER IL PREMIER E’ RISCHIO SENATO: IL DISSENSO E’ CALCOLATO TRA 5 E 30 SENATORI
Comunque vada, le cose non saranno più come prima.
La direzione del Pd sul Jobs Act non cambia i rapporti di forza nel Pd, ma stressa fino al limite estremo la fibra dei rapporti interni. Tra Matteo Renzi e la vecchia guardia, tra i renziani e gli anti-renziani, tra maggioranza e minoranza.
Nella sala del Nazareno (metaforicamente) scorre il sangue.
La direzione è riunita in grande spolvero, con tutti i big — vecchi e nuovi – presenti per intervenire, da Massimo D’Alema a Pierluigi Bersani, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina. Mancano solo Enrico Letta e Walter Veltroni, che è a Venezia al matrimonio di George Clooney.
Ma chi c’è sputa fuori tutto quello che finora si è tenuto dentro. E così sul tavolo della presidenza, dove Renzi sceglie di indossare l’espressione da “divertito” (dicono i suoi), planano nell’ordine l’attacco di Cuperlo che gli dice: “Io penso che non sei la Thatcher ma nemmeno un dominus nel Pd: la forza di un leader è convincere gli altri delle proprie ragioni, non tirare dritto ma guidare i processi”.
E poi, in crescendo, l’invettiva di D’Alema che gli dice chiaro e tondo: questo “impianto di governo è destinato a produrre scarsissimi effetti. Solo slogan e invece serve riflessione”.
L’affondo di Bersani: “No al metodo Boffo contro chi dice la sua nel Pd”. Sul Jobs Act si rompe la diga dei buoni rapporti di facciata dentro il Pd. E anche per Renzi (e il suo governo) inizia un’altra era.
Si arriva al Nazareno senza una mediazione. Il vicesegretario Lorenzo Guerini continua trattare fino all’ultimo con le minoranze, insieme al presidente dell’assemblea, Matteo Orfini.
Sulle prime, sembra si vada verso un’astensione di tutte le aree critiche sul Jobs Act. Ma poi intervengono D’Alema e Bersani. Il clima in sala cambia. Durissimi. Il primo cita Stiglitz, che “ha vinto il Nobel, di cui i giovani qui non sono mai stati insigniti…”.
Sguardo rivolto con sorriso sprezzante alla presidenza.
E ancora: Stiglitz che dice che “le riforme del lavoro si fanno in periodi di crescita, non di recessione”.
E Bersani gli dà ragione proprio su questo punto: “Citazione pertinente” quella su Stiglitz. D’Alema e Bersani d’accordo: quando mai è successo prima.
Eppure succede. In direzione succede anche che i civatiani applaudono D’Alema, anche questo un inedito.
E succede che il lettiano Francesco Boccia si rivendica un legame politico con il bersaniano Stefano Fassina: due economisti, due scuole di pensiero da sempre diverse, eppure oggi dalla stessa parte della barricata.
Tanto che la linea dell’astensione alla fine non regge. Se la intesta solo il capogruppo alla Camera Roberto Speranza, la sua AreaDem e la lettiana Paola De Micheli: in tutto 11 componenti. In 20 – tra civatiani, bersaniani, dalemiani, cuperliani – votano contro la relazione del segretario, approvata con 130 voti. “Ma non è un voto sul governo”, precisa il bersaniano Alfredo D’Attorre.
Non sarà un voto sul governo, ma è lecito porsi l’interrogativo: cosa faranno i dissidenti al momento del voto sul Jobs Act al Senato?
La domanda si fa largo nella sala del Nazareno, provata da oltre quattro ore di dibattito che, nei toni, ha messo in discussione la linea del segretario-premier, avanzando dubbi espliciti sulle sue capacità di governo.
E’ per questo che, prendendo la parola nella replica finale, Renzi si sente di sottolineare: “Trovo che discussioni come quella di oggi siano discussioni belle, anche quando non siamo d’accordo. Trovo che questo sia per me un partito politico, un luogo in cui si discute. Poi, mi piace pensare che in Parlamento si voti tutti allo stesso modo. È stata questa la stella polare quando ero opposizione nel partito, lo è a maggior ragione oggi”.
Domattina alle 7.30 riunirà la segreteria. Subito dopo, si riunisce il gruppo del Senato: e lì ci sarà una prima ricognizione dei possibili dissidenti.
Ci si aspetta da un minimo di 5 a un massimo di trenta: tutto è drammaticamente possibile.
Per Renzi inizia un’era nuova. Il terreno sotto il governo è friabile.
Non tanto per le turbolenze del Pd, ma perchè ad esse si sommano le turbolenze fuori dal Pd, le critiche sui quotidiani, quelle dei vescovi, quelle di imprenditori ex amici (Della Valle).
Alla fine dell’intervento di apertura in direzione, il suo suona come ultimo avvertimento: “Se non facciamo noi politica buona, la fanno fare ad altri…”.
Prima di avvicinarsi al microfono per la replica, lascia al tavolo della presidenza l’espressione da divertito.
Nella replica è piccato, a dir poco.
il premier è costretto a leggere aperture. Non tanto sull’articolo 18, il cui diritto alla reintegra resta in vigore solo per i licenziamenti discriminatori e disciplinari, che però verranno specificati solo nei decreti attuativi della legge delega.
Piuttosto, Renzi è costretto a dirsi disponibile a “riaprire la sala verde” di Palazzo Chigi, che è la sala usata per le riunioni tra governo e sindacati per quella ‘concertazione’ che finora il premier ha sempre negato.
Non a caso lo fa nella relazione iniziale: è l’estremo tentativo per far rientrare i dissensi.
Non funziona.
Ora pesano gli strascichi della rottura.
Che magari non travolgeranno il Jobs Act, perchè nel Pd anche il dissidente più estremo non cova pensieri di scissione, non per ora almeno.
Però è possibile che il sangue versato oggi macchi la legge di stabilità .
A Renzi lo dice Boccia: “La delega non chiarisce dove verranno trovate le risorse per gli ammortizzatori sociali universali”.
E’ il pensiero più importante che attraversa le minoranze. Insieme ad un altro.
Lo spiega Fassina: “Perchè si fa questa operazione sull’articolo 18? E’ scritto nei documenti della commissione Ue: dobbiamo ridurre le retribuzioni in termini reali. Giochiamo a carte scoperte. Io non voglio essere umiliato con la storia falsa che la precarietà dipende da quelli che hanno qualche residua tutela…”.
Comunque vada, si è aperto il vaso di Pandora.
(da “Huffingtonpost”)
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