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LA MAFIA CERCA UN CAPO: L’EREDE DI MESSINA DENARO E’ TRA NOI

UN ANNO DOPO LA CATTURA DEL BOSS, IN TANTI AMBISCONO AL TRONO DI COSA NOSTRA… E C’E’ UN SUPER LATITANTE DALLA STORIA PAZZESCA, GIOVANNI MOTISI

Palermo. C’è un nuovo fantasma che inquieta l’antimafia, si chiama Giovanni Motisi, una primula rossa come lo era stato Matteo Messina Denaro fino al 16 gennaio dell’anno scorso. Ma questa è davvero una storia diversa. Perché Motisi, 64 anni, latitante dal 1988, killer condannato all’ergastolo per l’omicidio del vice questore Ninni Cassarà, sembra uscito del tutto da Cosa nostra. «U pacchiuni, il grasso, come è soprannominato, è il primo capomafia a essersene andato sbattendo la porta, tanti anni fa», sussurra un investigatore che ogni giorno vive nelle viscere della città. «È proprio una strana storia quella del padrino che rinunciò al trono. Chissà poi perché».
Domanda delicata, «perché l’arresto di Messina Denaro è stato certamente un grande successo per lo Stato» non smette di ripetere il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, «ma non ha segnato la fine di Cosa nostra, che anzi dimostra grande resilienza e punta alla riorganizzazione e a un nuovo arricchimento attraverso il traffico degli stupefacenti, oggi l’affare principale per le mafie».
Sono proprio i soldi della droga ad alimentare un’accesa campagna elettorale per la successione di Messina Denaro, che non era il capo di Cosa nostra, perché trapanese, ma era di certo il personaggio più autorevole dell’intera organizzazione. Una gara che da una parte vede i falchi, dall’altra le colombe. Da una parte i Corleonesi, dall’altra quelli di città: ovvero, i vincenti e i perdenti di un tempo, questi ultimi scalpitano di più, perché con la morte di Totò Riina nel 2017 è caduta la fatwa contro di loro e sono tornati a Palermo dopo un lungo esilio.
Il sopravvissuto
Il più intraprendente fra i “perdenti” di un tempo è Michele Micalizzi; ha 74 anni, è il genero dello storico capomafia Rosario Riccobono, che Riina fece uccidere nel 1982 nel corso di una cena tranello. La sera del 30 novembre, furono strangolati anche il fratello di Micalizzi, Salvatore, il cognato Salvatore Lauricella e il padre Giuseppe. Alla stessa ora, Michele Micalizzi scampò miracolosamente a un agguato al bar Singapore Two di via La Marmora. Erano i giorni terribili di Palermo, quando i Corleonesi sterminavano gli infedeli.
Dopo vent’anni di carcere, Micalizzi è riapparso prima a Firenze, poi in Sicilia, impegnato a gestire incontri riservati e lucrosi affari. Il vecchio padrino ha anche un bel tesoro di famiglia da amministrare. Ed è tornato a investire nella sua specialità preferita, il traffico di droga, provando a riattivare la pista mediorientale, fra Iran e Turchia. Proprio come accadeva prima dell’avvento dei Corleonesi; all’epoca, però, a Palermo arrivava soprattutto la morfina base, che veniva lavorata nelle raffinerie siciliane. Ora, invece i mafiosi discutono di partite di cocaina e di hashish.
L’americano
Micalizzi è stato riarrestato, nel luglio scorso, dai carabinieri del Nucleo investigativo. Ma preoccupa la rete che aveva dispiegato prima di tornare in cella. «Conosco una persona a posto ed è buona, ha buone possibilità diciamo a livello europeo», sussurrava il boss, e non sospettava di essere intercettato anche dalla squadra mobile, che teneva sotto controllo un altro padrino un tempo perdente tornato dal passato di Palermo, Tommaso Inzerillo. «Conosco una persona per potere approfittare di questi finanziamenti pure per una quota consistente a fondo perduto», insisteva Micalizzi. «Al momento ci sono dei bandi» spiegava, «e si dovrebbe presentare entro dicembre, al massimo inizio gennaio. Per quanto riguarda l’agricoltura, quindi qualche azienda agricola importante ci vuole». Anche Inzerillo, tornato da New York, possiede un ingente patrimonio mai sequestrato. Micalizzi gli parlava del misterioso professionista a proposito del finanziamento a fondo perduto: «Questo ha l’ufficio a Bruxelles, a Malta, a Londra. È una persona che è una miniera. E ha grosse possibilità in banca». Un dialogo davvero interessante che racconta le mire dei vecchi nuovi boss di Palermo: ancora una volta, Sono i soldi pubblici il bottino da razziare.
Intanto, anche Tommaso Inzerillo è finito in carcere, e il suo clan di italo-americani, quello di Passo di Rigano, è balzato in testa alle attenzioni dell’antimafia.
Il neomelodico
È invece in libertà Francolino Spadaro, 61 anni; è il figlio di don Masino, il “re” della Kalsa, lo storico padrino del contrabbando e degli stupefacenti, condannato per l’omicidio del maresciallo dei carabinieri Vito Ievolella.
Dopo la scarcerazione, avvenuta qualche anno fa, Francolino è andato a vivere in un attico, nel palazzo che sorge accanto alla casa del giudice Giovanni Falcone, in via Notarbartolo. «Un condomino modello», dice un vicino, davanti all’albero che è ormai meta di un pellegrinaggio continuo in ricordo del magistrato simbolo della lotta alla mafia. «Il signor Spadaro paga sempre puntuale le rate del condominio».
Conduce una vita dimessa Francolino Spadaro, ma non ha disdegnato di fare un selfie con uno dei neomelodici più cliccati del Web, il palermitano Daniele De Martino, suo parente. Nelle foto, rilanciate su Instagram fra centinaia di like, c’è pure il fratello di Francolino, Nino, anche lui uno degli scarcerati eccellenti di Palermo, che va spesso in Brasile. Chissà perché.
Francolino Spadaro è stato davvero un personaggio di primo piano di Cosa nostra. E, di sicuro, è un gran conoscitore dei segreti più profondi dell’organizzazione mafiosa. Suo cognato, il collaboratore di giustizia Pasquale Di Filippo, raccontò una volta di quando lui e Francolino furono arrestati per un camion di scarpe carico di 80 chili di droga: «Un chilo in ogni paio». Era l’eroina raffinata a Palermo, in partenza per gli Stati Uniti. I giorni d’oro della mafia siciliana quando ancora aveva il monopolio del traffico internazionale di droga. Un tempo, Francolino Spadaro accompagnava suo padre Masino alle riunioni con Salvatore Riina e gli altri capimafia. Per questo il padrino dei segreti è apprezzato non solo dai vecchi, ma anche dai giovani di Cosa nostra. Soprattutto quelli della famiglia di Pagliarelli, che in questo momento è lo snodo della riorganizzazione mafiosa.
Faceva parte di Pagliarelli un altro anziano padrino a cui i clan avevano delegato la ricostituzione della Commissione provinciale, la Cupola, che non si riuniva ormai dal 1993: lui si chiamava Settimo Mineo, aveva messo in campo un progetto davvero ambizioso per provare a sanare la frattura fra vincenti e perdenti di un tempo. Alla fine del 2018 è stato arrestato con tutti gli altri padrini. Il successore di Mineo era invece un giovane rampante, un altro che faceva la spola fra Palermo e il Brasile: Giuseppe Calvaruso, il capomafia che un noto ristoratore palermitano osannava al telefono: «Le persone perbene come te mancano». Il boss Calvaruso, «una persona educata, di certi principi». È la mafia di Messina Denaro, che prova a mostrarsi “buona” per superare la stagione delle stragi. Fra qualche tempo, a Pagliarelli, tornerà un altro reuccio; è Gianni Nicchi, il mafioso su cui Cosa nostra puntava già un tempo: legato ai Corleonesi, ma con buone entrature anche fra le famiglie americane.
L’ultimo fuggiasco
Un tempo, Pagliarelli era anche il regno di Giovanni Motisi, il mafioso che adesso detiene il record della latitanza: 25 anni. Soltanto una coincidenza? Dopo essere stato un killer, era diventato capo del mandamento di Pagliarelli, per meriti criminali straordinari conquistati sul campo. Ma alla fine degli anni Novanta fu estromesso da tutti gli incarichi. Per disposizione di uno dei mafiosi più autorevoli del suo clan, Nino Rotolo. Un caso alquanto unico. Perché, come disse Buscetta al giudice Falcone, da Cosa nostra si esce «solo con la morte o collaborando con la giustizia». E Giovanni Motisi non è un pentito. Non sembra neanche che sia morto. Ma cosa fece di tanto irriguardoso nei confronti dei vertici mafiosi da essere espulso? Qualche pentito ha raccontato che aveva una gestione allegra della cassa del mandamento, di sicuro non condivideva con gli altri mafiosi i proventi delle estorsioni. Il pentito Angelo Casano ha aggiunto: «Non si faceva mai vedere, non dava mai risposte». All’inizio degli anni Duemila, Motisi avrebbe lasciato anche la moglie, che poi chiese al vertice del mandamento di potersi rifare una vita. Così, adesso, è un fantasma che aleggia su Palermo.
(da La Repubblica)

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