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LA STRATEGIA DI PUTIN È SEMPRE LA STESSA: DISTRUGGERE TUTTO PER POI MARCIARE SULLE MACERIE

IL MASSACRO DEL CONDOMINIO

Valeriy è appoggiato al muro, le dita ticchettano sui mattoni dietro la sua schiena, gli occhi fissi, umidi, concentrati a guardare dritto di fronte a lui i soccorritori che cercano i corpi tra le macerie.
Alle nove di mattina sono già sei i cadaveri estratti dall’edificio a cinque piani di cui non resta che un mucchio di detriti.
Erano da poco passate le nove, sabato sera, quando il primo missile russo ha colpito gli edifici residenziali di Chasiv Yar, cittadina 40 chilometri a Sud-est di Kramatorsk, nella provincia di Donetsk. Nei venti minuti successivi altri tre schianti, missili Iskander secondo i funzionari ucraini, hanno distrutto due edifici e gravemente danneggiato quelli adiacenti.
Valeriy ieri mattina prima dell’alba ha preso una torcia ed è corso lì, verso la casa dove vivevano sua sorella Iryna e suo nipote Denis di nove anni.
Quando è arrivato, però, la casa non c’era più. Era ancora buio, puntava la torcia verso i piloni di cemento venuti giù, verso le barre di ferro che ne costituivano l’armatura, mentre i mezzi di soccorso arrivavano uno dopo l’altro, sulle strade di campagna che congiungono questa radura alla via principale che porta a Kramatorsk, la città che dovrebbe essere uno dei principali obiettivi delle forze russe mentre si spostano verso ovest.
È in piedi, Valeriy, gli occhi fissi al vuoto lasciato dai missili, quando arriviamo, ieri mattina.
In strada mezzi della polizia e dell’esercito, e poi le gru e le ambulanze.
Sua sorella Iryna aveva chiamato l’anziana madre due giorni fa, voleva sapere se avesse bisogno di cibo, di acqua, di essere evacuata.
Si sarebbe data da fare per trovare un’ambulanza, un mezzo di soccorso per farla andare via. Ora la madre a casa chiede notizie lei e del bambino, e Valeriy dice solo: «Andrà tutto bene».
È di poche parole ma mette in fila le cose, elenca le ultime conversazioni, gli ultimi spostamenti, le ultime parole di sua sorella con la logica di chi cerca di scongiurare la paura della morte ricordando i gesti consuetudinari dei vivi.
È di poche parole ma mentre tutti intorno gridano lamenti e rabbia, dice a bassa voce: «Se la gente non avesse parlato, oggi non saremmo qui a piangere donne e bambini». Una frase, secca, che riassume la natura di questa guerra. Di fronte a lui una donna urla che il sindaco è responsabile dei morti, che non avrebbe dovuto permettere ai soldati di trasferire una base lì, che i soldati devono stare nei campi e non tra la gente.
Valeriy scuote la testa, le dice: «Guardati intorno, qui ci sono solo campi, ci sono basi militari dappertutto, ci proteggono, dall’altra parte ci sono i russi».
Allora la signora grida ancora, e più forte: «Ci sono i russi lì? E allora lasciateli arrivare. Tanto ci diranno che ce lo meritiamo. Separatisti, separatisti, ci lasciano morire mentre ci chiamano separatisti».
Dalle macerie i soccorritori estraggono due corpi e li stendono nei sacchi bianchi prima di trasferirli vicino ai mezzi di soccorso. Uno è un civile, uno è un soldato.
Che ci fossero i soldati lì Valeriy lo sapeva, glielo aveva detto sua sorella pochi giorni prima.
Appena arrivati avevano sistemato i loro mezzi dietro il muro dell’edificio dove viveva. Un’unità arrivata a difendere la zona, gli uomini e i mezzi d’altronde si spostano man mano che si sposta la guerra. I russi puntano a Kramatorsk e le truppe di Kiev si spostano di conseguenza a difesa delle zone sotto attacco. Bakhmut, Siviersk, Sloviansk, e Chasiv Yar.
I soldati arrivati lì avevano cucinato nel cortile venerdì e stavano cucinando anche sabato – dicono i sopravvissuti – quando è arrivato il primo razzo senza che nessun allarme li avvertisse del pericolo. Valeriy non accusa nessuno, non fa domande, quando i soccorritori chiedono silenzio per capire se si sentano suoni da sotto le macerie, si avvicina al cordone facendosi spazio tra i giornalisti e le telecamere e fissa i vigili del fuoco che cominciano a scavare a mano, spostando un mattone dopo l’altro.
«Qualcuno vivo là sotto c’è – dicono le squadre di soccorso -, ma state indietro». Valeriy torna appoggiato al muro. Guarda un altro corpo estratto ma non vivo, e aspetta.
Alle quattro del pomeriggio i cadaveri portati via nei sacchi bianchi sono quindici e mancano all’appello ancora trenta persone. Tra loro il padre di Oleksandra. Il fidanzato la stringe ogni volta che estraggono un cadavere. E a ogni corpo tirato fuori anche Oleksandra grida che è colpa dei soldati che stazionavano in casa loro, che la guerra si combatte lontano dalla gente, che a morire sono sempre i disgraziati. Come si sentono loro, che hanno nei volti la tristezza e il realismo dei reietti. Che non sono andati via perché non possono permettersi nemmeno un destino da sfollati, perché hanno paura dello stigma che sentono macchiare la gente del Donbass, o perché aspettano i russi che, intanto, li bombardano. Come hanno già fatto altrove, alla fine di giugno in un centro commerciale a Kremenchuk – allora le vittime furono 19 – e come avevano fatto nella regione di Odessa uccidendo ventuno persone in un attacco che ha distrutto un condominio e un’area ricreativa.
Nei palazzi che circondano l’edificio dove vivevano la sorella di Valeriy e il padre di Oleksandra, gli uomini caricano elettrodomestici, qualche valigia e buste con le scorte di cibo sulle spalle. Portano via gli anziani mentre dai balconi pericolanti cadono lastre di cemento.
Una donna sistema una sedia nel cortile e si siede a guardare i resti di casa sua. Comincia a piovere ma non si sposta, sistema uno scialle sulla testa e parla senza curarsi che ci sia, intorno, qualcuno ad ascoltarla. «Andate via, andate via, andate via ci dicevano. Adesso andiamo via, ci cacciano via le bombe».
Quando la battaglia si è intensificata nella provincia di Donetsk, il governatore della regione aveva chiesto ai 350 mila cittadini rimasti in zona di andare via. «Dovete salvarvi la vita», sono state le sue parole. Lo stesso ha fatto la vice primo ministro Iryna Vereshchuk pochi giorni fa quando ha esortato i civili nella regione meridionale di Kherson occupata dai russi a evacuare urgentemente per lasciare libere le forze armate ucraine di organizzare il contrattacco: «È chiaro che ci saranno combattimenti, ci saranno bombardamenti, per questo andate via subito e con ogni mezzo possibile».
Servono a questo gli appelli per le evacuazioni a salvare la vita dei civili e consentire all’esercito ucraino di difendere la gente e le città e non trasformarle in cimiteri. Come ieri è diventata Chasiv Yar. Lo scrittore austriaco Martin Pollack in uno dei suoi libri sulla memoria che le guerre hanno lasciato nel Vecchio Continente, descrive lo spazio come «paesaggio contaminato
Contaminato dai carnefici che hanno seminato atrocità e le hanno poi nascoste per togliere ai morti e ai vivi ogni residuo di dignità e giustizia. Scrive Pollack: «Le autorità conoscono le zone, ma si rifiutano di localizzarle con precisione, perché temono la verità più dei fantasmi sanguinosi del passato.
I fantasmi, almeno sperano, si lasciano rabbonire, la verità invece non conosce misericordia». Ieri a Chasiv Yar c’era tutta la verità senza misericordia di questa guerra.
Chi era pronto a tradire l’esercito di Kiev inviando le posizioni dei soldati, chi capiva che senza spostare basi e mezzi ovunque queste zone sono impossibili da difendere.
C’era anche la verità più cinica, quella dell’aggressore, che non si cura delle vittime civili e usa il loro sangue per capitalizzare i rancori di una terra già spaccata.
(da La Stampa)

This entry was posted on lunedì, Luglio 11th, 2022 at 14:25 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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