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MILANO, LA RABBIA E LE LACRIME DEI GIUDICI SOTTO TIRO: “CI HANNO LASCIATI SOLI, MA NON DOBBIAMO AVERE PAURA”

E LA MADRE DI APPIANI COMMUOVE TUTTI: “MIO FIGLIO E’ MORTO PERCHE’ NON ERA UNA MARIONETTA NELLE MANI DEI CLIENTI”

È la Milano migliore, ancora capace di esprimere virtù civiche di fronte alla tragedia, quella che straripa da un’Aula magna del Palazzo di Giustizia affollata come non mai. Magistrati e avvocati per una volta riuniti dalle lacrime ma non solo: avvertono lo scricchiolio pauroso di una giustizia che rischia di andare in frantumi per carenza di mezzi, rancore sociale, l’ostilità  cavalcata dai poteri insofferenti alle regole
Non era mai successo che un giudice venisse ammazzato in questo tempio marmoreo, e insieme a lui un avvocato e un imputato.
La mattina dopo la strage incontro lungo i corridoi infiniti uomini di legge stupefatti per aver raccolto in giro commenti al limite della giustificazione per il triplice assassino: «Lo hanno esasperato, poveraccio… I giudici sono lenti… Quelli hanno le ferie lunghe ».
E non avevano ancora letto quel titolo vergognoso sul sito de “Il Giornale”: “I magistrati fanno le vittime ma non erano loro l’obiettivo”.
Fanno le vittime
Stavolta, allibiti per la morte assurda di un loro collega di 37 anni, alla cerimonia di commemorazione si sono autoconvocati pure centinaia di avvocati milanesi.
I più vecchi tra i giudici morpresidente morano emozionati: «Non eravamo così tanti neanche quando i terroristi rossi ammazzarono Guido Galli, neanche per Giovanni Falcone e Umberto Ambrosoli».
Così, a mezzogiorno in punto, quando tenendo per mano la figlia Francesca, giovane magistrata, sale sul palco Alberta Brambilla Pisoni, la madre dell’avvocato Lorenzo Claris Appiani, l’Aula magna ammutolisce: «È morto perchè non ha voluto ridursi a marionetta nelle mani del suo cliente. Voglio che in questo momento tutti gli avvocati si sentano orgogliosi dell’alta dignità  della nostra professione. Così Lorenzo non sarà  morto per niente. Grazie».
Davvero è la Milano migliore, di cui avvertivamo il declino.
L’avevamo già  udita esprimersi nelle parole di Gianni Canzio, presidente della Corte d’Appello, che riflette sul «rapporto fra la crisi dell’economia e la crisi della ragione che scarica tensioni individuali sulle persone che amministrano la giustizia. Vogliamo mantenere l’apertura all’esterno di questo Palazzo, non ci sentiamo fortezza assediata e non alzeremo ponti levatoi».
I portavoce romani, dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, al presidente dell’Anm, Rodolfo Maria Sabelli, si affannano a ripetere che «i magistrati non possono essere lasciati soli», citando l’avvertimento di Mattarella.
Applausi anche per loro, solo che è proprio la solitudine l’incubo che serpeggia nell’atrio, anch’esso affollato, sotto il bassorilievo di Arturo Martini intitolato alla “Giustizia Corporativa”.
Per evitare la lunga fila dovuta ai controlli che suonava beffarda, davanti all’ingresso principale, sono andato a piazzarmi in via Freguglia di fianco alla guardia privata Securpolice che scrutava telefonini e mazzi di chiavi passati al metal detector su due schermi di computer antiquati, con un santino di San Francesco appiccicato sopra. Non del tutto rassicurante.
È lì che raccolgo lo sfogo di un ispettore del Comune di Milano responsabile di tutta la logistica del Palazzo: «Mi devono ancora spiegare perchè quando arriva Ruby ci sono ottanta carabinieri, e gli altri giorni trenta. Mi devono spiegare perchè gli avvocati, se hanno un processo alle dieci, arrivano due minuti prima e si offendono se gli facciamo perdere tempo per identificarli, estraendo il classico “Lei non sa chi sono io”».
Salgo al settimo piano, uffici del Gip, dove il aggiunto Claudio Castelli calcola una media di sette riti abbreviati al giorno con i parenti dei detenuti che vengono per incontrarli e conoscerne la sorte.
Le inevitabili reazioni emotive devono essere gestite da quattro carabinieri. Quasi sempre assenti, invece, al terzo piano, dove si svolgono i dibattimenti come quello che vedeva imputato a piede libero (e armato) Claudio Giardiello.
Castelli non vorrebbe rilasciare dichiarazioni, è uno dei magistrati più sensibili agli studi della moderna criminologia, i grandi conflitti sociali che si spezzettano in micro-conflitti individuali sfogati contro il giudice o, sempre più spesso, contro l’avvocato difensore.
Su una questione culturale Castelli non riesce però a trattenersi: «Tutto l’impianto della nuova legislazione sembra concentrarsi su esigenze risarcitorie, assumendo le colpe della giustizia come priorità  e il rispetto della legalità  come fattore secondario. Aggiungeteci il pauperismo dominante, qui dentro resta scoperto il 30% dell’organico, e come se non bastasse dal settembre prossimo la gestione logistica dei Tribunali, sicurezza compresa, passerà  dai Comuni al Ministero, distante e privo di risorse».
Resta lo scandalo di un assassino entrato con la pistola e uscito indisturbato.
Nessuno lo può giustificare. Un altro magistrato, dietro promessa di anonimato, tira fuori un’ipotesi che non so se ironica o seria: «Mi auguro che al killer Giardiello sia stato concesso di uscire da via Manara per un calcolo di prudenza. Dentro avrebbe sparato ancora, avrebbe potuto prendere degli ostaggi».
Una spiegazione benevola che non giustifica la lunga fuga in moto fino a Vimercate.
E allora vado a cercare il Procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, prima dell’inizio della cerimonia.
È un uomo comprensibilmente turbato, anche lui non rilascia dichiarazioni ufficiali perchè l’inchiesta sul triplice omicidio è affidata alla magistratura di Brescia.
Però Bruti Liberati è stato anche il primo a sapere della tragedia, giovedì mattina. Perchè il pm Luigi Orsi, sopravvissuto nell’aula in cui sono stati uccisi prima Lorenzo Claris Appiani e poi Giorgio Erba, non appena rifugiatosi in camera di consiglio ha chiamato sul telefonino il Procuratore, accorso immediatamente sul luogo insanguinato del delitto.
Ci tiene quindi, Bruti Liberati, a elogiare il comportamento successivo delle forze dell’ordine che, armi in pugno, hanno scortato ordinatamente la folla conducendola in luoghi sicuri: «È scattato un piano di evacuazione molto efficiente, senza scene di panico. Gliene va dato merito».
Peccato che nel frattempo Claudio Giardiello è ancora riuscito a gambizzare lungo le scale un commercialista, prima di raggiungere al secondo piano il giudice Fernando Ciampi, freddato con due colpi di pistola.
L’avrà  fatto nel giro di pochi minuti, ma ha potuto uccidere ancora. «È ben comprensibile che nessun uomo disarmato abbia osato inseguire Giardiello, dopo la prima sparatoria».
Come ormai è noto, buona parte dell’organico della vigilanza privata è sprovvisto di pistola. Un uomo armato costa 30 euro all’ora, disarmato costa la metà . E i soldi per la sicurezza non ci sono.
Riferisco a Bruti Liberati la denuncia raccolta in via Freguglia sulle carenze del servizio di vigilanza affidato a ditte private. «Per ragioni di immagine sono sempre stato contrario ad appaltare la sicurezza ai privati», risponde, «ma non enfatizziamo. Si tratta di aziende serie che gestiscono anche la sicurezza negli aeroporti milanesi».
Per certi versi, la morte del giudice Fernando Ciampi resta, se possibile, la più assurda.
Probabilmente l’“aggiunta” criminale last minute di un uomo che ormai aveva già  commesso l’irreparabile. E che ha stroncato la vita di un anziano magistrato che, nell’Aula magna, la sua collega Marina Talassi ha ricordato con devozione: «Rigoroso, severo, ma poi sempre disposto a accogliere i buoni argomenti degli altri. Le camere di consiglio con Ciampi erano una scuola per tutti noi. Dietro l’apparenza impassibile, nutriva la concezione più alta del diritto come servizio». Marina Talassi voleva concludere assicurando che questo servizio continuerà  già  da domani senza lasciarsi influenzare dalla paura.
Esita. Prima dice «no, noi non abbiamo paura». Ma si ferma, si corregge: «Forse abbiamo paura, ma dobbiamo vincerla».
È proprio questo il sentimento che aleggia sull’assemblea della Milano migliore. Colpita, spaesata. Perchè non si tratta solo della paura del pazzo isolato che può colpire all’improvviso, quando invece si avverte il logoramento provocato dalle lotte di potere interne – avvocati contro magistrati, politici contro magistrati, a Milano anche magistrati contro magistrati – e dai veleni di un’opinione pubblica incapace di provare solidarietà  per gli amministratori della giustizia neppure in una giornata come questa.
Ora tutti vorrebbero che le parole di quella madre che ha avuto la forza di parlare all’indomani dell’uccisione del figlio – «Così Lorenzo non sarà  morto per niente» – non rimangano solo un tentativo di consolazione. Tanti giovani avvocati piangevano ascoltandola, quando raccontava le cene in cui Lorenzo Claris Appiani esaltava la nobiltà  del giuramento pronunciato da chi accede alla professione forense.
«Attraverso la testimonianza dei miei figli, un avvocato e una magistrata, io vi chiedo che questi due mondi restino uniti»
Sarà  per quel presentimento di una giustizia che sta davvero rischiando di infrangersi dentro una società  incattivita e insofferente alle regole, ma oggi Milano davvero si è stretta intorno a Alberta Brambilla Pisoni.
Finita la cerimonia, è rimasta lì seduta in prima fila. Disponibile perfino quando si è fatta avanti la selva delle telecamere. Ma soprattutto capace di sorridere a chi le si avvicinava per un abbraccio o una stretta di mano.
All’uscita, sottovoce, l’un l’altro si riferivano sbigottiti certi giudizi sprezzanti pubblicati sui social network.
Dove Claudio Giardiello viene umanizzato alla stregua di un balordo che aveva ben motivo di perdere la testa di fronte a una giustizia che, solo per il fatto di processare le sue truffe, viene trasfigurata in moloch disumano.
È questo scivolamento nel far west metropolitano a inquietare forse più ancora dei buchi neri rivelati dagli apparati di sicurezza.
Un fenomeno studiato da Adolfo Ceretti, forse il più innovativo fra i criminologi italiani, un docente universitario che ha dato vita a vari esperimenti di incontro con persone in difficoltà , spesso in collaborazione con la magistratura.
Non è certo sconosciuta a Ceretti una figura come Giardiello: «La sofferenza urbana non si manifesta solo in patologie psichiatriche vere e proprie. La città  si è riempita di persone fluttuanti che si muovono come monadi, totalmente incapaci di gestirsi, per le quali se salta il piccolo progetto individuale salta il mondo. I Cps, Centri di psichiatria sociale, sono porte girevoli prive della strumentazione necessaria, dove tanti disperati delle classi medie e basse vanno, ricevono un farmaco, la pillolina, poi spariscono e magari commettono reati. Il carcere ormai è pieno di detenuti psichiatrici».
Anche Claudio Giardiello ha vissuto questo inutile passaggio dai servizi. Convincendosi che a lui servivano prima i soldi, poi la vendetta, piuttosto che la cura. Schegge di rancore che infieriscono su una giustizia malandata e, a sua volta, colpevolizzata da opinion leader pronti a irridere i magistrati che «fanno le vittime».
È in questo clima che alla Milano perbene, ieri, è toccato piangere degli uomini di giustizia inseguiti e uccisi fin dentro al luogo in cui il crimine dovrebbe essere sanzionato.
E dove invece è stato perpetrato come terribile sfregio.

Gad Lerner
(da La Repubblica”)

This entry was posted on sabato, Aprile 11th, 2015 at 14:52 and is filed under Giustizia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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