NESSUNO PEGGIO DELL’ITALIA: CON IL NUOVO PATTO UE UN’IPOTECA DECENNALE SUI CONTI PUBBLICI
UNA STRETTA FISCALE SENZA PRECEDENTI: IN CAMBIO DEL SI’ MELONI HA OTTENUTO UNO SCONTO SOLO PER IL SUO GOVERNO…. SPESE PER INTERESSI GRAVERANNO SUI GOVERNI FUTURI FINO AL 2027
Con il via libera alla riforma del Patto di Stabilità e Crescita, la premier Giorgia Meloni ha nei fatti ipotecato la politica fiscale dell’Italia negli anni a venire, barattando una flessibilità temporanea che copre pressoché questa legislatura, scaricando il peso maggiore sui Governi futuri. Secondo una proiezione dei saldi di finanza pubblica in base ai termini dell’accordo appena siglato in sede europea, redatta dal think tank europeista con base a Bruxelles, il Bruegel, Roma è chiamata alla maggiore stretta fiscale tra tutti i Paesi dell’Ue.
In questo senso, l’altra grande partita europea che nei giorni precedenti il Natale ha tenuto banco, quella sul Mes, assume tutta un’altra connotazione, dal momento che l’austerità che a parole si vorrebbe scongiurare rafforzando i poteri del Fondo Salva Stati, in particolare nella gestione delle crisi e nella valutazione della sostenibilità dei debiti pubblici, è già stata sottoscritta e firmata dal Governo Meloni cedendo alle posizioni rigoriste della Germania e aderendo alla nuova struttura regolamentare che giocoforza orienterà e limiterà la decisioni di bilancio.
Naturalmente, a causa dell’enorme debito pubblico che grava sulle casse statali, l’Italia non partiva da una posizione di forza nei negoziati a Bruxelles e dintorni, tutt’altro.
Ma la retorica sovranista e antieuropea che ha alimentato la narrazione della maggioranza ha alla fine lasciato il posto a un vocabolario, sebbene già sentito, certamente nuovo per il centrodestra. E caratterizzato da espressioni come “senso di responsabilità”, “difficoltà dell’attuale contesto economico” e altri succedanei di quel “sentiero stretto” coniato dall’ex ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che, all’osso, consiste in vincoli tanto stringenti da rendere la spesa pubblica italiana una gigantesca partita di giro, con spostamenti di risorse da una posta di bilancio all’altra, a saldo zero se non negativo.
Ecco quindi che la finanza statale si avvia a una stretta senza precedenti. I numeri tuttavia potrebbero anche cambiare, in peggio, se si tiene conto del fatto che la nota di aggiornamento dal Documento di economia e finanzia, licenziata ad autunno dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, prevedeva una crescita del 1,2% per il 2024, stima già ampiamente rivista al ribasso: due settimane fa l’Istat ha ipotizzato una crescita dello 0,7%, meno dello 0,9% visto dalla Commissione Europea a novembre.
Addirittura Prometeia ha ipotizzato un più modesto 0,4%. Un bel grattacapo per il governo Meloni, che ha fatto del taglio del cuneo uno dei propri provvedimenti bandiera (anche se in pratica ha rinnovato le misure del Governo di Mario Draghi) al momento però finanziato solo il prossimo anno.
Trovare i soldi sarà un’impresa non da poco, più probabilmente l’esecutivo dovrà ricorrere a tagli alla spesa pubblica e aumenti delle entrate, agendo sulla leva fiscale. Qualcosa si potrà ricavarla dalle privatizzazioni, ammesso che stavolta funzionino, e dalla solita lotta all’evasione fiscale attraverso sanatorie e condoni più o meno camuffati.
I principi cardine del nuovo Patto restano quelli fissati nel Trattato di Maastricht: mantenere il deficit al di sotto del 3% del Pil e il debito al di sotto del 60%. Ma nelle nuove regole sono stati introdotti margini di flessibilità in alcuni casi, e delle restrizioni ancora più forti per i Paesi altamente indebitati come l’Italia.
Sono tre i macrocriteri da seguire, più o meno contemporaneamente, e che se applicati insieme rendono già ora il quadro d’applicazione piuttosto confuso e contorto: una Dsa, ovvero una analisi di sostenibilità del debito, che terrà conto oltre che dei parametri anche di elementi individuali come demografia e investimenti; il taglio del debito e il taglio del deficit.
Quando il disavanzo eccessivo supera il tetto del 3% l’aggiustamento annuo richiesto è dello 0,5% del Pil in termini strutturali. L’accordo prevede però che il ritmo della correzione tenga conto dell’aumento della spesa per interessi al fine di non bloccare gli investimenti più urgenti ma solo fino al 2027, a cavallo del termine della legislatura targata Meloni, in assenza di crisi di governo.
Ancora: il taglio del debito dovrà essere dell’1% annuo per i Paesi che superano la soglia di un rapporto debito-Pil del 90% come l’Italia, e dello 0,5% annuo per chi lo ha tra il 60 e il 90% del Pil. E poi i Paesi con un rapporto debito-Pil superiore al 90% dovranno far scendere il livello del deficit all’1,5%. Per farlo servirà un aggiustamento strutturale annuo dello 0,4% per quattro anni o dello 0,25% in sette anni, calcolato al netto degli interessi sul debito con l’impegno del Paese a fare investimenti e riforme.
Questo perché gli Stati che non rientrano i parametri prefissati dovranno concordare l’uso dei fondi pubblici con la Commissione europea nel rispetto delle traiettorie di aggiustamento del debito. I piani ad hoc sono quadriennali e all’insegna della flessibilità potranno essere estesi a sette anni tenendo conto degli sforzi di investimento e riforma compiuti dai governi per attuare i Pnrr.
Si tratta di una nota delle note positive secondo il Bruegel: la possibilità di concordare piani individuali per ogni singolo Stato, il fulcro della proposta iniziale della Commissione Europea, è stata preservata. Inoltre, è stata riformulata la “salvaguardia del debito” che richiede una velocità minima di riduzione del debito indipendentemente da ciò che dicono i Dsa, ovvero le analisi di sostenibilità dei debiti, il punto di partenza da cui deriveranno i piani di rientro. Il cambiamento più importante, ha rilevato il Bruegel, è che il periodo durante il quale viene valutata la riduzione del debito inizia solo dopo che i Paesi hanno ridotto i loro deficit al di sotto del 3%. Ciò offre ai paesi ad alto deficit la possibilità di rispettare la salvaguardia.
A questo si riducono tuttavia i lati positivi che hanno portato la premier Meloni a definire l’accordo “un buon compromesso”. Poi ci sono quelli negativi: l’Ecofin ha concordato una nuova “salvaguardia per la resilienza del deficit” che richiede ai Paesi di continuare l’aggiustamento fiscale fino a raggiungere “un margine di resilienza comune” dell’1,5% del Pil al di sotto del benchmark del disavanzo del 3%. L’idea di richiedere un margine di sicurezza “non è sbagliata”, ha rilevato il Bruegel, tuttavia “il margine dell’1,5% potrebbe rivelarsi troppo rigido per alcuni paesi. Nel caso dell’Italia, il margine si traduce in un requisito di saldo primario strutturale superiore al 4% del Pil”.
Già dovendo rispettare il criterio della sostenibilità del debito, l’Italia è chiamata a un saldo strutturale – ovvero quel parametro che indica l’indebitamento corretto per il ciclo economico, un risultato che misura il saldo del settore delle pubbliche amministrazioni al netto dell’impatto delle fluttuazioni economiche e di misure una tantum – superiore al 3%, e variabile a seconda che negozi con la Commissione un piano di rientro a 4 o a 7 anni. Si balla perciò su una stretta che in media, ogni anno, balla tra i 13 e i 20 miliardi circa. Considerato che solo per rifinanziare il taglio del cuneo fiscale e il primo step della riforma fiscale che accorpa le aliquote Irpef, previsti solo per l’anno prossimo, servono una quindicina di miliardi, il conto dei soldi da trovare è già lievitato prima ancora che il Patto entri in vigore (ad aprile, si presume, dopo l’ok del Parlamento europeo).
In più, se si tiene conto degli impegni a lungo termine, e quindi di un deficit in zona di sicurezza sotto l’1,5% anche dopo aver concluso il piano di rientro concordato con Bruxelles, condizione voluta e ottenuta dalla Germania, il saldo primario netto richiesto all’Italia va oltre anche il 4%. Problemi che ricadranno sui futuri governi, avendo la premier Meloni riservato per sé e il suo esecutivo un margine di flessibilità – l’esclusione della spesa per interessi da un lato, e degli investimenti previsti dal Pnrr (che scade nel 2026) dall’altro – che quantomeno riduce l’impatto della tagliola sui conti pubblici appena approvata. Perciò anche se all’inizio l’aggiustamento di mezzo punto di Pil vedrà esclusa la spesa per interessi (anche se non è ancora chiara l’entità dello sconto), le misure di aggiustamento dovranno includere il pagamento degli oneri dopo il 2027: “Ciò renderà la vita più facile ai governi che hanno negoziato il compromesso, ma più difficile per i loro successori, senza alcun guadagno”.
In base al criterio utilizzato dalla Commissione a seconda del parametro utilizzato (Dsa, deficit, debito) nel redigere il piano individuale con un Paese, verrà tenuto conto della spesa netta rispetto alla traiettoria concordata. Quando ci si discosta di oltre lo 0,3% del Pil in un anno e dello 0,6% del Pil in modo cumulato, Bruxelles potrà aprire una procedura per deficit eccessivo. Anche se le multe sono state ridotte rispetto all’inizio del dibattito, il processo per applicarle viene reso più spedito rispetto al passato.
(da Huffingtonpost)
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