Destra di Popolo.net

MELONI LA TEMPOREGGIATRICE: SULL’AUMENTO DEI FONDI ALLA DIFESA, LA TRUMPETTA È IN GRANDE IMBARAZZO, L’ITALIA NON HA UN EURO IN CASSA, E NON SAPREBBE DOVE TROVARE I 30 MILIARDI ALL’ANNO CHE SERVIREBBERO PER ARRIVARE AL 5%, COME CHIEDONO GLI USA E COME SARÀ CERTIFICATO AL VERTICE NATO DI FINE GIUGNO

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

CHE FARE? LA PREMIER CHIEDE DIECI ANNI DI TEMPO PER RAGGIUNGERE IL TARGET, MA DIFFICILMENTE RIUSCIRÀ A SPUNTARLA

L’Italia non è tra i sedici Paesi che hanno chiesto di attivare la
clausola di salvaguardia che consente di scorporare le spese militari dal Patto di Stabilità. Ma è chiaro che l’impegno che verrà sottoscritto al vertice Nato de L’Aia del 24-25 giugno – portare le spese per la Difesa al 3,5% del Pil, più l’1,5% in investimenti per la sicurezza nell’arco dei prossimi sette-dieci anni (la tabella di marcia sarà oggetto di trattative tra i leader) – non potrà essere onorato senza fare ricorso a uno sforamento dai vincoli Ue.
Questo è stato il cuore del colloquio, ieri a Palazzo Chigi, tra Giorgia Meloni e il presidente del Consiglio europeo António Costa. Un confronto utile a prepararsi per il vertice dei Ventisette leader dell’Unione che si terrà a Bruxelles il 26-27 giugno, cioè all’indomani del summit dell’Alleanza Atlantica, il primo da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca.
Il presidente americano sembra ormai deciso a non concedere altri margini agli alleati: vuole un maggiore impegno finanziario dei Paesi membri. E lo chiederà a suo modo: nella forma di un ultimatum. […] il timore è che possa spingersi fino ad accompagnare la richiesta sulle spese Nato all’annuncio di un disimpegno militare americano in Europa. Uno scenario da incubo, in un contesto ad altissima tensione con la Russia, che costringerebbe i leader europei ad accelerare sul rafforzamento della Difesa.
Le strade per trovare una via d’uscita a Bruxelles sono quindi due, percorribili anche contemporaneamente. Da un lato c’è da parte italiana la richiesta di ottenere maggiore flessibilità: l’attuale clausola resterà attiva soltanto per quattro anni, ma per Roma si tratta di un periodo insufficiente perché vorrebbe dire rinviare soltanto il problema.
E quindi c’è la proposta di estendere l’orizzonte temporale: il ministro della Difesa Guido Crosetto, con una battuta, ha detto che servirebbero «20-30 anni» ma a Roma, realisticamente, si discut
della possibilità di allinearlo a quello dell’obiettivo che verrà stabilito in sede Nato, per la nuova soglia di spese militari al 3,5% più 1,5%.
Meloni, Crosetto, e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sperano che si possa fissare quest’ultima deadline al 2035, anche se al momento la proposta del segretario generale Mark Rutte è per il 2032.
La premier può contare sulla sponda del primo ministro britannico Keir Starmer e molto probabilmente anche di Emmanuel Macron, ma sarà Trump ancora una volta a orientare la scelta. Pare, invece, ormai certo che il presidente francese sarà suo alleato al tavolo dei leader Ue.
I meccanismi di finanziamento del riarmo e la discussione sulla maggiore elasticità nella tempistica sono nelle mani della Commissione, ma Meloni punta a ottenere la sponda del Consiglio europeo per dare un indirizzo politico in questo senso a Ursula von der Leyen.
Stesso discorso per l’idea, per il momento ancora in fase embrionale, di un fondo per la Difesa finanziato con debito comune.
Nella maggioranza di centrodestra non si fa più mistero della necessità degli Eurobond, una misura che, spiegano, è stata auspicata anche dal governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta. Lo vorrebbe anche Macron ma la Germania resta contraria e la crisi di governo nei Paesi Bassi non consentirà accelerazioni durante l’estate (si voterà a fine ottobre). Per questo Von der Leyen non intende, per ora, fare passi in avanti.
(da agenzie)

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LA STORIA DI LUCIA: “90 GIORNI DI OSPEDALE, 21 PLACCHE DI TITANIO SUL VOLTO E IL MIO EX E’ LIBERO”

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

“A COSA SERVE IL CODICE ROSSO? PERCHE’ CI DICONO DI DENUNCIARE SE POI QUELLO CHE VIENE DOPO, DA PARTE DELLO STATO, E ‘ UNO SCHIAFFO MORALE CE FA PIU’ MALE DELLE BOTTE?”

È stata massacrata dal suo ex rimasto libero dopo la sua denuncia. Lui è stato condannato a un anno e mezzo di prigione e quindi non andrà in carcere. Nonostante lei abbia subito maltrattamenti per 17 anni. E alla fine lui le abbia «preso la testa e l’ha sbattuta contro il marmo. Quando ero a terra mi ha spaccato la faccia a calci. Mi sono risvegliata in ospedale. La prognosi era di 90 giorni». Lucia Regna,
44 anni e due figli, ha il volto ricostruito con 21 placche di titanio e il nervo oculare leso in maniera permanente dopo il pestaggio dell’ex avvenuto il 28 luglio 2022. A Elisa Sola su La Stampa racconta che adesso ha paura di morire. «Perché ci dicono di denunciare se poi quello che viene dopo, da parte dello Stato, è uno schiaffo morale che fa più male delle botte? A cosa serve il Codice rosso? A niente. Io mi sono pentita di averlo denunciato. Adesso può continuare a fare del male. A me. O alla prossima».
La storia di Lucia
Lucia dice che la denuncia le ha portato solo «tre anni di sofferenza e di paura, che ho anche adesso, che lui possa tornare da un momento all’altro. O che possa fare quello che ha fatto a me alla prossima. Sapendo che è andata a finire così a me, come possiamo sperare che altre donne, magari più fragili ancora di quello che ero io, denuncino? Non è facile trovare la forza. Queste persone ti sviliscono. Per anni. Ti annientano». Sperava nella galera: «Se stanno fuori, continuano a essere violenti. Un anno e sei mesi è una condanna troppo bassa. Ma se io sapessi che li passerà in carcere, avrei la sensazione che la giustizia è utile. Perché un uomo che sta in carcere, cambia. E il mio ex non è mai stato arrestato».
La denuncia
Ha denunciato l’ex quando era in ospedale: «Ingenuamente ho pensato: se parlo, i miei figli saranno salvi. Andranno a prenderli a casa mentre io sono qui, bloccata su un letto. Invece non è successo niente. E quando sono stata dimessa e sono andata in caserma a formalizzare la denuncia, non mi sono sentita bene». Per un motivo ben preciso: «Ho raccontato tutto. E mi hanno chiesto: “Suo marito quella sera aveva bevuto?”. Ho risposto che non lo sapevo. Non vivevo più con lui da alcune settimane. Hanno proseguito: “Aveva preso droghe?”. Ho risposto che non potevo saperlo. Poi hanno
detto: “Se ha reagito così, avrà avuto i cinque minuti”. Avevo la faccia spaccata. Sono rimasta senza parole».
I 5 minuti
Lei aveva invece bisogno «di sapere di essere al sicuro. Non lo ero allora. E non lo sono adesso. Ci stanno togliendo tutto. Anche il processo è stato pesante. Il mio ex non mi ha solo spaccato la faccia. Mi ha strappato l’anima dal corpo. Eppure, più volte il giudice in aula sembrava spazientito. Diceva: “Su, andiamo avanti”. Come per fare in fretta». Oggi vorrebbe solo «riavere la mia vita. A partire dal lavoro, che per colpa del mio ex non ho più. Ho chiesto di essere inserita nella lista dei collocamenti speciali perché ho una lesione permanente all’occhio. La commissione dell’Asl mi ha dato il 20% di invalidità. Ma serve il 46 per entrare. Eppure, io sono una vittima di violenza. Non un’invalida qualunque».
(da Fanpage)

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“GIU’ LE MANI DALLE NOSTRE NONNE”: LA RIVOLTA SOCIAL SUL DIVIETO SPAGNOLO DI METTERE SEDIE IN STRADA

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

SARCASMO SOCIAL: “BASTA IMPUNITA’ PER LE NONNE CHE SIEDONO FUORI PRENDENDO UN PO’ DI ARIA FRESCA”

A Santa Fe, un paesino nell’Andalusia, la polizia ha ricordato il divieto di “occupare il suolo pubblico” con sedie e tavoli. A corredo, però, ha pubblicato una foto di sei anziane donne, attirandosi l’ira e l’ironia social
C’è un piccolo paese nel sud della Spagna, a dodici chilometri circa da Granada, dove prendersi una sdraio o una sedia di plastica e combattere la calura prendendo una boccata d’aria in strada non è consentito, anzi è illegale. Insomma, quella cara «occupazione di suolo pubblico» che gli spagnoli chiamano tomar el aire (prendere il fresco) e che qualche anno fa, per mano del sindaco di un altro paesino dell’Andalusia, volevano innalzare a patrimonio culturale immateriale dell’umanità. O almeno, questa è l’interpretazione che una massa di utenti social ha dato – erroneamente o meno – di un provvedimento firmato dal primo cittadino di Santa Fe.
A scatenare il finimondo, a dire il vero, non è tanto l’interpretazione della norma quanto un semplice post sui social media. O meglio una foto che, a corredo di un messaggio della polizia di Santa Fe, ritrae sei anziane signore intente a godersi un po’ di ombra sedute sul marciapiede.
«Sappiamo che portare sedie o tavoli fuori dalla porta è una tradizione in molti paesi, ma la strada pubblica è regolamentata. Se la polizia chiede di rimuoverli, fallo per rispetto e convivenza. Con civismo e buon senso non ci saranno fastidi. Grazie per la collaborazione!».
Inutile dire che le risposte, sotto un post da 6,5 milioni di visualizzazioni su X, si accavallano una sopra l’altra tra insulti, prese in giro e battutine di scherno. «Colleghi, se avete bisogno di rinforzi per una missione così pericolosa, saremo lì… Basta impunità per le nonne che siedono fuori a godersi l’aria fresca», si legge in uno dei più sarcastici. «Tutto il peso della legge dovrebbe ricadere su di
loro…».
A questo punto interviene lo stesso sindaco di Santa Fe, Juan Cabo: «Nessuno impedirà ai nostri anziani di uscire di casa, sedersi e godersi l’aria fresca», ha specificato in un’intervista via radio. L’avviso, ha poi aggiunto, sarebbe rivolto a chi fa «barbecue e feste, cantare e suonare la chitarra» disturbando quindi il riposo e il sonno delle persone vicine. Insomma, per dirla con Cabo, una norma che «protegge chi deve alzarsi per andare al lavoro alle cinque o alle sei del mattino e ha diritto al riposo».
(da agenzie)

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GODZILLA CONTRO KING KONG

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

IL REGOLAMENTO DI CONTI TRA DUE FUORI DI TESTA

Facciamo finta di non essere coinvolti, di essere immuni da qualunque crollo, da qualunque caduta dell’impero, mettiamoci seduti comodi (non con i pop corn, per carità, ma con una cosa
buona e un bicchiere di bianco ghiacciato) e godiamoci lo spettacolo straordinario dei due maschioni fuori di testa che cercano di buttarsi a vicenda giù dal ring. Puro wrestling, quello tra i due monosillabi Trump e Musk, una cosa mai vista a memoria d’uomo.
Non è poi così importante sapere se Musk sia davvero pazzo. Probabilmente lo è, ma la vera pazzia sta nel potere smisurato che questo signore si ritrova tra le mani (potere di controllo e di manipolazione dei dati di mezzo mondo, di mezza umanità) senza che nessuno abbia fatto niente per impedirlo: a partire dalle amministrazioni democratiche che hanno visto crescere smisuratamente ricchezza e potere dei tecno-mostri e invece di mettere dei limiti, e far valere l’interesse pubblico, hanno civettato in t-shirt e maniche di camicia con i nuovi padroni del mondo. Ah quanto era cool, la Silicon Valley…
La pazzia di questo impressionante momento storico non sta nelle persone, sta nelle cose. Nello svanire repentino, apocalittico, di qualunque regola nota, di ogni possibile calmiere, rimedio, medicina contro la megalomania di questi due tizi sbucati dallo sprofondo della democrazia americana. Sembrano Godzilla contro King Kong che nel loro furente corpo a corpo calpestano il mondo. E il mondo, va detto, ha fatto di tutto per farsi calpestare.
(da repubblica.it)

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INDURRE ALL’ASTENSIONE DA PARTE DI UN PUBBLICO UFFICIALE E’ REATO

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

LO DICE L’ART. 98 DEL TESTO UNICO DELLE LEGGI ELETTORALI, RECEPITO DALLA NORMATIVA REFERENDARIA… QUALCUNO AL GOVERNO DOVREBBE ESSERE INDAGATO: RISCHIA FINO A TRE ANNI

In un articolo su Repubblica del 17 maggio il professor Michele Ainis richiamava l’articolo 98 del Testo unico delle leggi elettorali, recepito dalla normativa referendaria, che punisce il pubblico ufficiale che, “abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera” a indurre gli elettori all’astensione con la reclusione fino a tre anni e con una congrua multa.
Nonostante queste precise indicazioni, la presidente del Consiglio, che è per definizione un pubblico ufficiale, insiste nel ritenere che il non partecipare alla consultazione referendaria costituirebbe un vero e proprio diritto. La tesi non regge alla stregua di quanto osservato dal professor Ainis nell’articolo citato: se il pubblico ufficiale si macchia di un grave reato quando induce all’astensione, quest’ultima non può certamente essere qualificata come esercizio di un diritto.
Si perverrebbe così all’illogica conseguenza che l’induzione a esercitare un diritto da parte di un pubblico ufficiale integra gli estremi di un delitto! Evidentemente qualcosa non funziona in questa correlazione esplicitamente irragionevole per un ordinamento nel quale l’esercizio dei diritti è prerogativa di legalità e non il contrario.
Per allontanarsi dall’ingorgo d’irragionevolezza occorre ragionare su due dati apparentemente contrastanti: la previsione penalistica dell’articolo 98 da un lato e, dall’altro, l’inesistenza di sanzioni per il cittadino che si astiene dal voto. I due profili convivono perché coerenti a una visione democratica delle istituzioni, nella quale l’esercizio del voto come strumento per dotarsi di un’adeguata rappresentanza politica (elezioni) e per concorrere alla formazione e modificazione dell’ordinamento giuridico (referendum) è valore fondante dell’intero assetto.
L’esercizio della sovranità che appartiene al popolo impone presìdi adeguati a quella massima istanza. In questo senso ogni atto che possa comprimere o inficiare la libera manifestazione del diritto di voto acquisisce notevole disvalore tale da imporre una grave reazione sanzionatoria, come nella previsione dell’articolo 98, preordinato a impedire ogni possibile alterazione della libertà di voto e del risultato elettorale riconducibile a chi, per la posizione ricoperta, possa in concreto incidere su quegli ambiti.
Diversa osservazione riguarda la posizione del cittadino, il quale deve essere primariamente libero di esercitare il diritto di voto in sintonia con il dovere civico d’appartenenza alla comunità. La categoria dei doveri è vasta e comprende situazioni che implicano, in caso di violazione, le più varie reazioni: da quelle penali per le più gravi a quelle civili e infine a quelle solo morali.
Il mancato esercizio del diritto di voto, inteso come violazione di dovere civico, è stato in passato oggetto di pseudo-sanzioni di
nessuna utilità e incidenza. Questo non solo per l’obiettiva difficoltà di irrogare sanzioni nei confronti dei settori della popolazione che non si presentano alle urne (quasi il 40% alle elezioni politiche, cifre ancor superiori alle altre consultazioni), ma anche e soprattutto per non innescare valutazioni sull’esercizio dei doveri civici che pertengono alla sfera di relazione tra singolo e comunità di riferimento.
Per quanti rivestano funzioni pubbliche il discorso è diverso proprio in ragione dell’ufficio che gli stessi ricoprono. Essi rappresentano le istituzioni e non possono esimersi dal parteciparvi secondo i canoni di conformità e di etica, connaturati alla carica. Sono tali canoni riconducibili all’appartenenza alla comunità e al rispetto delle istituzioni che vanno onorati da chi è investito di un pubblico ufficio: essi sono platealmente violati quando si invita all’astensione.
In altre parole: è incoerente esaltare il concetto di nazione e poi invitare i suoi appartenenti a sottrarsi a un dovere che scaturisce proprio da quello, così come è incoerente l’implicito invito a non rispettare le istituzioni, qui espressamente sanzionato dalla normativa penale.
D’altro canto, non ci si può aspettare molto di più da un governo nel quale ministri pluri-indagati vengono mantenuti al loro posto.
(da ilfattoquotidiano.it)

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GIORGIA MELONI E I SUOI MILLE GIORNI TIRANDO A CAMPARE

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

LA CAPA AMMINISTRA IL POTERE MA NON VINCE PIU’, DOPO L’UMBRIA UNA SERIE DI SCONFITTE ININTERROTTE, ANCHE NELLE MARCHE TIRA UNA BRUTTA ARIA

Amministra il potere, distribuisce poltrone, incontra ormai persino Emmanuel Macron provando ad archiviare i loro pessimi rapporti, ma non vince più.
L’epoca dorotea di Giorgia Meloni non è iniziata in un giorno preciso: è una di quelle cose che silenziosamente accadono, tra una furbizia e l’altra, tra un dato Istat e l’altro, tra una mancata riforma e l’altra. A pagina 28 del dossier di Fratelli d’Italia sui due anni di governo campeggiano le tre riforme – premierato, autonomia, giustizia –, ma in pratica non vede l’alba ancora nessuna (sì, il premierato è stato reinserito nei lavori parlamentari per luglio, ma ogni volta che nelle riunioni di coalizione si pronuncia la parola, si alza l’azzurro Francesco Paolo Sisto e fa: «E la separazione delle carriere?»).
Oggi andreottianamente per Meloni «tirare a campare è meglio che tirare le cuoia». Il vero imperativo è a questo punto la durata, autentico assillo di autoassoluzione, la risposta a ogni incrinatura del percorso: il suo governo sfiora i mille giorni, è il quinto più longevo della Repubblica, tra due mesi supererà quello di Matteo Renzi, fra tre mesi supererà il primo di Bettino Craxi, tra undici mesi il quarto di Silvio Berlusconi, tra quindici il più longevo del Cavaliere: a settembre 2026, se sarà ancora là, Meloni avrà superato tutti. O si fa la storia, o (almeno) si fa la statistica.
Scomparsa da un pezzo la donna di popolo, persino la comunicatrice inciampa: il messaggio sul referendum lanciato il 2 giugno è parso incomprensibile persino ai suoi. «Una cosa alla Fazzolari», dicono gli anti-Fazzolari del suo partito, quelli che sopportano poco i modi e il potere del sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Una cosa di sinistra, di quella sinistra radical chic che non si fa capire dalla
gente, avrebbe invece detto la Giorgia di un tempo. Tra i bivacchi del Senato, impegnato nel voto di fiducia sul cosiddetto decreto sicurezza e nell’ennesimo scempio delle procedure parlamentari, a chiunque si chieda dei meloniani, nessuno pensa di fare come suggerito dalla premier, cioè andare al seggio ma non votare: «Non si va proprio, dai, mica possiamo fare davvero queste cose contorte», confessa un senatore.
Il bilancio elettorale è assai più doloroso degli scivoloni comunicativi. Il partito della premier resta alto nei sondaggi, meno nella realtà. «Sono mesi che perdiamo ovunque, tutto: da quando abbiamo perso l’Umbria, abbiamo vinto solo a Sulmona e Carsoli, in provincia dell’Aquila, e a Rozzano, in provincia di Milano», fanno il conto con le dita perplesse in Fratelli d’Italia, citando tre comuni che complessivamente totalizzano 65mila abitanti. Questo turno di amministrative, alla vigilia di ballottaggi che non fanno ben sperare, è andato come è andato: a Genova, oltre alla sconfitta del centrodestra, Fratelli d’Italia ha totalizzato il 12,4 per cento, meno della metà dei sondaggi nazionali (27,3 per cento secondo i dati Ipsos del 31 maggio), peggio pure del 15 per cento delle Regionali di ottobre; a Ravenna il 16,7; a Taranto l’8,6, a Matera il 10,4. E nubi nere si spandono sulle prossime Regionali, quelle d’autunno che sono destinate a essere un possibile punto di svolta della legislatura. Tolte le regioni considerate fuori discussione, dal Veneto alla Puglia, alla Toscana, in Campania la partita è considerata contendibile solo se si verifica la rottura (sempre più improbabile) tra il governatore uscente Vincenzo De Luca e il Pd. Dovesse esserci, «si candiderà Edmondo Cirielli, o anche Matteo Piantedosi, per puntare alla vittoria», spiegava l’altro giorno l’ex presidente campano Stefano Caldoro: «Nel caso opposto? Qualcuno lo troveremo». Non serve in realtà neanche scomodare il tempo futuro: qualcuno c’è, dicono più
fonti che Gennaro Sangiuliano già sgomita, insomma «habemus papa» (sic), come ebbe a dire anche l’ex ministro senza accusativo al momento della fumata bianca a piazza San Pietro.
Il vero danno possibile però aleggia sulle Marche. Nel 2020 fu l’unica regione a cambiare colore con la vittoria di Francesco Acquaroli, la seconda a guida Fratelli d’Italia dopo l’Abruzzo di Marco Marsilio (2019, confermato nel 2024), contribuì a segnalare l’onda nera in arrivo. A fine mandato, tuttavia, il lavoro di Acquaroli non è considerato a prova di bis, così come latita il suo attivismo: nulla di memorabile da segnalare, una campagna elettorale di recupero che potrebbe aver già preso il largo e che invece tarda a partire. Insomma anche li tira un vento di sconfitta: segnerebbe la fine di quel grumo di regioni centrali governate dal centrodestra (Abruzzo, Umbria, Marche, Lazio) che fino a un anno fa erano considerate un ottimo motore di consensi e operazioni varie.
Tutto questo spiega un umore che ancora non è emerso, ma serpeggia nei corridoi. È chiaro infatti che, con questi risultati, le quotazioni del numero due del partito, Giovanni Donzelli, siano al momento in discesa. Anche se nessuno per ora si sogna di mettere in croce il responsabile organizzazione del partito, che è poi quello chiamato a stringere i vari accordi elettorali sul territorio: tuttavia, come si dice, gli amici si vedono nei momenti difficili.
E così pure i politici: la luna di miele del 2022, il vento delle vittorie, ha soffiato a favore anche per lui; adesso soffia contro. Al punto che persino il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, fino a qualche mese fa in disgrazia, avrebbe riconquistato terreno. Anche se poi, bisogna dire, gli equilibri nei Fratelli d’Italia sono spaventosamente immobili, nonostante il continuo sobbollimento. L’intreccio di militanze, interessi, cordate, conoscenze reciproche, parentele, produce una specie di stasi da ricatto reciproco, stile film
di Tarantino, in cui alla fine nessuno si muove perché altrimenti sarebbe peggio per tutti. Anche l’arrivo ufficiale di Arianna Meloni a via della Scrofa, per dirne una, non ha prodotto quel cambiamento nei rapporti di forza che i favorevoli alla sorellizzazione di FdI immaginavano – nonostante la parata di ministri e altri notabili d’area per la festa del suo cinquantesimo a Colle Oppio, di fronte all’antica sede missina, al “Sanctuary”, tra fusion, piscine blu estoril, palloncini rosa e canne di bambù.
Si vedevano bene, i due poli del partito, al ricevimento del Quirinale per la festa della Repubblica: la sorella d’Italia più a suo agio nell’establishment rispetto all’anno scorso (al punto da indossare lo stesso abito del 2024), Donzelli in perenne simbiosi con il sottosegretario alla Giustizia, potentissimo e inamovibile avvocato Andrea Delmastro delle Vedove; ai due s’era aggiunto Galeazzo Bignami, il neopresidente dei deputati di FdI sorprendentemente in ascesa, a quanto pare anche per i suoi interventi in Aula, quelli che il vicepresidente azzurro Giorgio Mulé durante un battibecco ha memorabilmente definito «i suoi soliloqui che faccio finta di non aver sentito».
C’è da dire in effetti che, nell’umiliazione perenne dei lavori parlamentari, tale per cui ormai gli emendamenti non vengono nemmeno presi in esame (è accaduto in ultimo nelle commissioni di Camera e Senato, con il cosiddetto decreto sicurezza), il dibattito d’Aula è punteggiato di personaggi e parole che guizzano tra le maglie della cronaca, come quelle del senatore Gianni Berrino, che ha parlato l’altro giorno delle «donne che fanno figli per rubare e che non sono degne di farli», o della senatrice Tubetti che si è detta «stanca» dei parlamentari che vanno nei Centri di permanenza per i rimpatri: «Sarebbe meglio non disturbare con tutte queste visite nei Cpr la gente che lavora» (in effetti, specie in Albania, le forze
dell’ordine hanno visto più parlamentari di Pd e sinistra che migranti). Insomma i soliloqui vanno forte. Uno spettacolo che è destinato ad andare avanti, persino – dicono negli ambienti meloniani – nel caso di un turno di Regionali deludente. Dovessero invece essere i sondaggi di FdI, a scendere, allora sì che cambierà tutto.
(da lespresso.it)

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“LE MARCHE SFIDA NAZIONALE”, FDI SCHIERA ITALO BOCCHINO AL FIANCO DI ACQUAROLI

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

COSI’ E’ GARANTITO IL COLPO DI GRAZIA AL GOVERNATORE USCENTE

Arriva il polemista da Roma, ecco il rinforzo nelle Marche: da un paio di giorni Italo Bocchino è stato incaricato da vertici di Fratelli d’Italia di consigliare Francesco Acquaroli, governatore uscente meloniano a caccia del bis nelle Marche, primo appuntamento elettorale in programma a settembre. I due sono legati da una ultra
decennale consuetudine, fatta di amicizia, e il partito di Giorgia Meloni ha pensato bene di schierare il direttore editoriale del Secolo, nonché volto tv nei salotti di La7, al fianco del presidente di regione uscente. La battaglia con il dem Matteo Ricci è destinata ad avere una rilevanza nazionale: Elly Schlein si è fatta vedere in Ancona l’altro giorno, i sondaggi oscillano e dunque serve una scossa.
O meglio un’iniezione di politica pura, al di là della contesa locale. E Bocchino, cresciuto all’ombra di Pinuccio Tatarella con parentesi scissionista finiana e rientrato poi nella casa madre della Fiamma, ha detto sì. Se Ricci ha scelto il tridente della comunicazione che ha vinto in Umbria (Alivernini-Agnoletti-Nicodemo), Fratelli d’Italia ha deciso di passare al contrattacco. Di Acquaroli si stanno occupando i comunicatori nazionali di FdI e da pochi giorni giorni ecco l’investitura di Bocchino.
Il centrodestra aprirà la campagna elettorale per Acquaroli il 13 giugno al Palazzetto di Civitanova Marche con le segreterie regionali. Il governo nel frattempo schiererà i ministri. E’ atteso Alessandro Giuli. Per vedere Giorgia Meloni occorrerà aspettare la chiusura.
(da agenzie)

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REFERENDUM, IL VALORE DI UN VOTO

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

QUORUM O MENO, LA CONSULTAZIONE POPOLARE E’ ANCHE UNA SFIDA SOCIALE

C’è un solo modo per dimostrare ai tre “untorelli” delle destre al comando che il virus dell’ignavia democratica non ha ancora sopraffatto il corpo sociale di questo Paese: andare alle urne, in massa. Votare questi cinque referendum, comunque la si pensi. Esercitare un imprescindibile diritto costituzionale e adempiere a un irrinunciabile dovere civico.
Per farlo non è necessario condividere l’appello dei Comitati promotori, a partire dalla Cgil. Basta molto meno, o molto di più: cioè ascoltare le parole di Sergio Mattarella che il 25 aprile, per l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, a Genova ha esaltato il valore del voto libero e democratico: «Non possiamo arrenderci all’astensionismo, non possiamo abituarci a una democrazia a bassa intensità».
Alla vigilia di questa tornata referendaria non c’è risposta migliore di quella del presidente della Repubblica al velenoso canto della sirena di palazzo Chigi. Dal comodo pulpito organizzato da una gazzetta di regime Giorgia Meloni rilancia la sua corriva messinscena: andrò alle urne, ma non ritirerò la scheda.
Mediocri tartufismi, utili a incassare una photo-opportunity al seggio senza contribuire al quorum. L’ennesima fuga dai problemi, ormai vero e proprio “metodo di sgoverno” della cosa pubblica. Parafrasando l’acronimo anti-Trump: gli americani hanno il Taco, noi abbiamo il Maco. Meloni always chickens out.
A convincere gli indecisi a votare sarebbe già sufficiente l’invereconda “campagna per la diserzione” orchestrata da questi Jep Gambardella delle istituzioni che, non sapendo maneggiare la democrazia, si prodigano per farla fallire. Perché questa, innanzitutto, è la posta in gioco dei referendum: partecipare, prendere parte, contare. Non c’è altro modo per ridare senso a quella che fior di politologi definiscono “la democrazia stanca”, un patrimonio da salvare ridando voce ai cittadini come protagonisti di una vita pubblica condivisa.
Dall’“andate al mare” di Craxi nel 1991 tutti i segretari di tutti i partiti hanno cavalcato l’onda astensionista, secondo convenienza: Ds, Margherita e Cofferati contro il quesito sull’articolo 18 del 2003, Berlusconi e Casa delle Libertà contro quello sull’acqua pubblica del
2011, Renzi contro quello sulle trivelle nel 2016, i due poli contro quelli sulla giustizia nel 2022. Chi è senza quorum scagli la prima scheda. Tutto legittimo. Ma tutto sbagliato. Predicando disimpegno e disincanto, le élite ingannano popoli e incubano autocrazie.
Cambiare schema, cioè andare ai seggi, è oggi ancora più importante. C’è in ballo una sfida politica. Quorum o non quorum, la consultazione popolare servirà a misurare i rapporti di forza tra maggioranza e opposizione. Con almeno 12 milioni di votanti, la seconda non manderà alla prima alcun “avviso di sfratto”, ma potrà dimostrarle che c’è un’altra Italia, non rassegnata al comando meloniano e pronta a scommettere sull’alternativa.
È il primo tempo della partita: il secondo tempo, in autunno, richiamerà al voto 17 milioni di italiani, in Veneto, Toscana, Marche, Campania, Puglia. Una spallata non fa una crisi: due in rapida sequenza, chissà. I referendum serviranno anche a regolare qualche conto nel Partito democratico: un successo di affluenza e di sì consoliderebbe l’asse Schlein-Landini, a spese delle ultime anime perse del tardo-renzismo. Ma il mondo è in fiamme, di che parliamo? Piccoli suicidi tra amici, direbbe il vecchio Arto Paasilinna.
In ballo c’è anche una sfida sociale. Qual è l’impatto concreto dei quesiti sul mercato del lavoro e sulla cittadinanza? Al di là delle geremiadi dei soliti benaltristi e panciafichisti — sempre pronti a tacciare di passatismo qualunque iniziativa che disturbi i padroni del vapore — l’abrogazione del Jobs act non riaprirebbe le verdi vallate della piena e giusta occupazione. Il risarcimento economico al posto della reintegra è una pseudo-riforma sbagliata del governo Renzi (se non altro perché ha creato assurde disparità tra gli assunti prima e dopo il 2015).
Ma a dieci anni di distanza lo possiamo dire: non ci ha portato le
sette piaghe d’Egitto. Ha ridotto appena del 20% le cause davanti ai giudici, non ha favorito i “milioni di licenziamenti” che si temevano, ma neanche il “boom delle assunzioni” che aveva promesso. Nel 2024 i licenziamenti sono stati 191 mila in meno rispetto al 2014, ma solo il 5% dei nuovi assunti ha beneficiato del contratto a tutele crescenti.
Avere abbattuto ieri il totem dell’articolo 18 è stata una scelta molto ideologica: rimetterlo in piedi oggi è una svolta poco più che simbolica. Ma i simboli contano, anche se non bastano. Vale per l’abolizione del Jobs act come per gli altri quattro quesiti, sulla cancellazione delle soglie ai fini del calcolo delle indennità di licenziamento, la reintroduzione delle causali nei contratti a termine, la responsabilità degli appaltatori e il dimezzamento dei tempi per acquisire la cittadinanza italiana.
La lotta sacrosanta contro la precarietà e la deflazione salariale avrebbe bisogno di un vero, grande “piano del lavoro”, per aumentare la produttività e il potere d’acquisto, alleggerire il cuneo fiscale e introdurre il salario minimo, fare le politiche attive ed eliminare i part-time ultraflessibili, i contratti intermittenti senza vincoli, i tirocini reiterati, le false partite Iva.
La vera integrazione di migranti e stranieri, in un Paese in glaciazione demografica che perde quasi 150 mila giovani laureati all’anno, avrebbe bisogno di politiche molto più incisive e inclusive. Ma nel frattempo una larga vittoria dei sì ai referendum marcherebbe una chiara inversione di rotta rispetto al sovranismo xenofobo e al primato del capitale sul lavoro. Varrebbe non solo per l’Italia, ma per l’intero Occidente. Lo scrivono Michael Sandel e Thomas Piketty (Uguaglianza, Feltrinelli): “Dovremmo concentrarci meno su come armare le persone in funzione della competizione meritocratica e adoperarci di più per difendere la dignità del lavoro”.
Sono temi di portata universale. Riflettono un modello di civiltà. Possibile che Meloni se ne chiami fuori, derubricandoli a «resa dei conti interna alla sinistra»? Possibile che sul merito dei quesiti non abbia nulla da dire, benché nel 2015 dalla sua invasata curva ultrà avesse definito il Jobs act «carta straccia»?
Possibile che proprio lei — Underdog della Garbatella allevata a Colle Oppio dalla “destra sociale” missina — non colga questa occasione per spiegare soprattutto ai ceti più deboli cosa pensa della precarietà e della contrattazione, del rapporto tra impresa e lavoratori, del dramma dei neet e dei working poor?
Lavoro e cittadinanza non sono «questioni interne al Pd», ma la materia stessa della quale sono fatte le società moderne, che presuppongono il conflitto e classi dirigenti capaci di affrontarlo e di governarlo. L’esatto opposto di quello che fa la Sorella d’Italia, muta e spiaggiata di fronte ai seggi e alla realtà. Per nostra fortuna, c’è ancora domani.
(da La Repubblica)

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PAGHERETE CARO, PAGHERETE TUTTO… ANCHE LO SPID

Giugno 7th, 2025 Riccardo Fucile

NIENTE FONDI, A RISCHIO LO SPID GRATUITO: ECCO COSA CAMBIA PER I CITTADINI DA LUGLIO… 40 MILIONI DI FINANZIAMENTI PUBBLICI NON SONO ARRIVATI E INFOCERT FARA’ PAGARE IL SERVIZIO

Si incrina la promessa dello Spid gratuito, sbandierata dagli ultimi governi compreso quello Meloni. Il rischio infatti è che da luglio molti fornitori dell’identità digitale pubblica saranno chiamati a una scelta: ritirarsi dal mercato, continuare a operare in perdita o cominciare a fare pagare gli utenti. La colpa – a quanto abbiamo potuto ricostruire – sono le lungaggini politiche che stanno ancora bloccando i 40 milioni di euro di finanziamenti pubblici allo Spid.
Soldi previsti già in un decreto del 2023, sbloccati da ulteriore decreto solo a marzo 2025, ma ancora non arrivati ai fornitori di Spid. Comprensibile quindi la decisione di alcuni di mettere a pagamento il servizio. Dal 28 luglio Infocert farà pagare 5,98 euro l’anno lo Spid, dopo dieci anni di gratuità. Aruba fa già pagare dal secondo anno di abbonamento. Nel tempo, tutti i fornitori hanno cominciato a fare pagare le modalità di attivazione di Spid più comode per l’utente (come quelle online).
«La decisione si rende necessaria per garantire la sostenibilità economica di un servizio che, pur essendo diventato essenziale per il Paese, presenta da anni un forte squilibrio tra costi sostenuti e ricavi generati», spiegano da Infocert. In dieci anni, l’azienda ha investito «tra i 20 e i 30 milioni di euro» per lo Spid. In perdita, come per gli altri gestori (il principale, per numero di identità attivate, è Poste).
Parliamo per altro di un servizio pubblico importante. Passano per lo Spid oltre il 90% degli accessi ai servizi digitali della pubblica amministrazione, ben 1,2 miliardi nel 2024. Marginale il ruolo della
carta di identità elettronica (Cie) per gli accessi online alla Pa – nonostante il governo ci abbia puntato tanto (solo 52 milioni di accessi nel 2024 a fronte di 48,2 carte distribuite). Alcuni sospettano che i ritardi sui 40 milioni di finanziamento pubblico siano da ricondurre alla speranza – fallita, per ora – di fare spostare gli utenti da Spid a favore della Cie.
Da Agid (Agenzia Italia Digitale), ente tecnico del governo che si occupa di Spid, confermano che quei fondi non sono ancora arrivati ma saranno sbloccati presto. Colpa – dicono – del “rimpallo burocratico tra vari ministeri” che ha bloccato il decreto fino a marzo scorso.
Il tempo stringe, però, perché a luglio scade la convenzione tra lo Stato e i fornitori di Spid, che ora devono decidere se rinnovarla per altri due anni o se chiudere il servizio. Possibile che dicano basta, se i soldi non arrivano in tempo per il rinnovo. Oppure che in massa scelgano di fare pagare agli utenti per il ritardo del governo.
(da agenzie)

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