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TRUMP ERA STATO ELETTO PER RIDARE SPERANZA ALL’AMERICA DIMENTICATA, E INVECE RUBA AI POVERI PER DARE AI RICCH

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

IL TYCOON FIRMA IL “BIG BEAUTIFUL BILL” LA LEGGE DI BILANCIO CHE TAGLIA SUSSIDI E PROGRAMMI SANITARI AI PIÙ DEBOLI, HA SPACCATO IL PARTITO REPUBBLICANO.E POTREBBE ESSERE UN CLAMOROSO BOOMERANG PER LE ELEZIONI DI MIDTERM DEL 2026

Nel Giorno dell’indipendenza Donald Trump ha firmato il One Big Beautiful Bill (Obbb), la maxi manovra che è il fuoco artificiale più luminoso della sua presidenza.
Ma già da giovedì, quando la Camera ha votato il provvedimento dopo giorni di turbolenti negoziati e pesanti malumori nel mondo Maga, il presidente ha inaugurato la seconda fase del suo piano, quella in cui deve far accettare la riforma a un elettorato che chiedeva protezione sociale e rigore
nella spesa, e si trova invece tagli fiscali per gli ultraricchi, riduzione della copertura sanitaria e spese massicce sull’immigrazione sostenute creando 3.300 miliardi di debito.
In Iowa Trump ha inaugurato America250, un tour di eventi pensato per celebrare la cavalcata di un anno verso il 250° anniversario della Dichiarazione di indipendenza, ma che ha lo scopo politico più immediato di rassicurare e ricompattare un popolo repubblicano scosso da crescenti perplessità.
L’architettura del Obbb è un esercizio di redistribuzione al contrario. Il cuore del provvedimento consiste in una massiccia riduzione delle imposte per i ceti alti, con l’estensione permanente dei tagli fiscali del 2017 e nuove deduzioni per professionisti e grandi proprietari.
A beneficiarne sarà soprattutto il 10 per cento dei contribuenti più ricchi: secondo l’Urban-Brookings Tax Policy Center, otterranno il 72 per cento dei vantaggi fiscali.
Un’opera chirurgica a favore di chi già sta bene, mascherata da manovra per le famiglie. Nel frattempo, l’impatto sui redditi bassi e medi sarà tutt’altro che trascurabile.
Secondo le stime del Congressional Budget Office, il 10 per cento dei meno abbienti perderà quasi il 4 per cento del reddito e circa 17 milioni di americani perderanno l’accesso al programma Medicaid – la copertura sanitaria per i ceti più bassi – nei prossimi dieci anni. I requisiti lavorativi più rigidi, la riduzione dei finanziamenti federali e la scomparsa della cosiddetta “provider tax” – che aiutava stati e ospedali a finanziare le cure – colpiranno soprattutto anziani, disabili e lavoratori poveri
L’Obbb non è solo una legge finanziaria: è una dichiarazione di
intenti. È la promessa che il «grande governo» verrà ridimensionato e che l’America tornerà autosufficiente, grazie all’iniziativa individuale.
Ma, per sostenere questa visione, la manovra accumula una montagna di debito pubblico. E mentre i tassi d’interesse salgono, i costi del servizio del debito rischiano di strangolare le finanze federali in tempi di crisi.
Una legge pensata per liberare l’economia dalle catene dello stato finirà per creare nuove catene finanziarie per le generazioni future.
Con le elezioni di midterm del 2026 già nel radar, Trump tenta di costruire un’agenda di risultati concreti da presentare agli elettori. Ma l’Obbb potrebbe avere l’effetto opposto: mobilitare l’elettorato democratico e spaventare i moderati.
I democratici hanno già annunciato una campagna aggressiva contro i tagli a Medicaid e Medicare, puntando soprattutto ai distretti suburbani e agli swing states dove il consenso per i programmi di assistenza resta forte.
Il partito repubblicano, dal canto suo, è spaccato.
L’elezione di Midterm è di fatto un referendum sul partito al potere. Ma qui il potere è incarnato in modo pressoché totale da una sola figura: Trump.
L’Obbb, nel suo impianto ideologico e fiscale, è una sua creazione personale, fatta anche in contrasto con un’ampia corrente del partito.
Se l’operazione dovesse fallire – se gli effetti negativi inizieranno a farsi sentire prima del voto – il danno sarà distribuito a tutto il paese, ma la firma del provvedimento sarà chiaramente leggibil
Trump scommette sulla sua narrazione, cioè che i massicci tagli fiscali saranno il catalizzatore di una crescita che darà ragione delle spese a debito. Ma dietro lo storytelling la realtà è brutale.
L’Obbb rischia di svuotare il contratto sociale americano in nome di un modello effimero costruito per i ricchi e pagato dai più vulnerabili.
Se la manovra si rivelerà impopolare – e i sondaggi preliminari lo suggeriscono – le urne potrebbero presentare il conto già nel novembre 2026. Con un paradosso finale: una legge voluta per consolidare il potere del Gop potrebbe finire per eroderlo.

(da agenzie)

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A POCHI GIORNI DALLA SCADENZA DELLO STOP AI DAZI, IL 9 LUGLIO, GLI STATI UNITI MINACCIANO NUOVE TARIFFE DEL 17% SUI PRODOTTI AGRICOLI EUROPEI. TRUMP PRETENDE CHE BRUXELLES CONCEDA ESENZIONI PARTICOLARI ALLE AZIENDE AMERICANE, E CHE COMPRA GAS E PETROLIO (A CARO PREZZO) DAGLI STATES

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

GLI STATI UE SPACCATI TRA CHI VUOLE CEDERE SUBITO (MERZ E MELONI) PUR DI NON INDISPETTIRE IL TYCOON E CHI INVECE È DISPOSTO A RITORSIONI PESANTI (MACRON E SCHOLZ), COME QUELLE ATTUATE DALLA CINA. CHE POI HA TROVATO UN’INTESA DECENTE CON WASHINGTON

Gli Stati Uniti hanno minacciato di colpire le esportazioni agricole dell’Ue con tariffe del 17% in una drammatica escalation del loro conflitto commerciale con Bruxelles.
Lo riporta il Financial Times citando alcune fonti. La richiesta dell’ultima ora arriva a pochi giorni dalla scadenza del 9 luglio. Donald Trump vuole che Bruxelles conceda alle aziende americane esenzioni dalle regole e riduca il suo surplus commerciale con gli Stati Uniti.
La mossa, spiega il Financial Times, è arrivata prima della scadenza del 9 luglio per concordare un accordo commerciale, dopo la quale gli Stati Uniti hanno dichiarato che imporranno tariffe del 20% su tutti i beni dell’Ue se non verrà raggiunto un accordo.
Il presidente Donald Trump vuole che Bruxelles conceda alle aziende statunitensi ampie esenzioni dai regolamenti e che riduca il suo surplus commerciale con gli Usa. E’ quanto emerge dalle discussioni avute nella riunione degli ambasciatori Ue, dove sembra che il pessimismo si stia diffondendo in vista della scadenza del 9 luglio. «Siamo esattamente dove eravamo la settimana scorsa. Non c’è mai stato un senso di ottimismo. Tutti, fin dall’inizio, dicevano che sarebbe stato difficile», ha riferito all’AGI una fonte diplomatica.
«Non c’è un accordo chiaro, tutte le opzioni rimangono sul tavolo», ha confermato una seconda fonte. L’obiettivo rimane comunque di arrivare a un accordo di principio entro il 9 luglio per evitare che tornino i dazi al 20%. I colloqui – a quanto si apprende – andranno avanti anche nel weekend.
Gli americani si sono irrigiditi e stanno alzando la posta. È questo, in sintesi, il messaggio che il capo di gabinetto di Ursula von der Leyen ha trasmesso ai rappresentanti dei 27 governi ieri, durante una riunione dedicata a fare il punto delle trattative dei giorni scorsi tra il commissario al Commercio, Maros Sefcovic, e le sue controparti americane.
Gli esponenti dell’amministrazione Usa non soltanto non sembrano disposti ad accettare le richieste europee di esentare determinati settori dai dazi, avanzate per «digerire» il mantenimento del livello-base al 10%, ma insistono con la domanda di abbattere alcune barriere non tariffarie e addirittura hanno minacciato di introdurre dazi al 17% sull’export dei prodotti agroalimentari, andando a colpire un settore politicamente molto sensibile in Europa.
Proprio ieri c’è stata una telefonata tra Giorgia Meloni e il presidente americano Donald Trump. Per parlare soprattutto di Ucraina, ma anche di dazi
«Non posso dire cosa accadrà – ha messo le mani avanti la premier – perché la competenza è della Commissione. Da parte italiana, abbiamo lavorato per fare in modo che il rapporto con gli Usa fosse franco e costante, teso a cercare di risolvere insieme i problemi. Dobbiamo essere soddisfatti per essere riusciti a ricostruire un dialogo, vedremo nei prossimi giorni». Durante la missione negli Stati Uniti del commissario Sefcovic non c’è stata alcuna schiarita.
L’impressione – spiegano fonti Ue qualificate – è che tutto sia nelle mani di Trump. Lunedì sarà il 7 luglio e in assenza di un’intesa il 9 scadrà la pausa «concessa» dal presidente americano. Un accordo di principio entro quella data consentirebbe di evitare l’aumento dei dazi, rinviandolo per dare spazio ai negoziati di secondo livello. Diversamente da mercoledì scatterebbe l’aumento: Trump aveva minacciato il 50%, ma l’aspettativa è che in una prima fase dovrebbero salire al 20%.
A quel punto l’Ue non potrà non rispondere. E su questo punto si riaprirebbe il dilemma che minaccia di rompere la compattezza Ue: accettare un accordo non ottimale pur di evitare una guerra commerciale oppure mostrare i muscoli e far scattare la rappresaglia?
Le contromisure sono sul tavolo, ma solo una piccola parte è già stata approvata e dunque al momento le armi europee sono spuntate. Per questo la prima linea sembra essere prevalente, ma fonti diplomatiche avvertono: «Prima di decidere, vogliamo avere un quadro chiaro. E questo quadro ancora non c’è».
Trump gioca con il tempo, visto che la scadenza del 9 luglio è dietro l’angolo e i tentativi di posticipare l’innesco delle tariff
per 170 Paesi non hanno sin qui prodotto grandi risultati. Parlando dall’Iowa giovedì sera, il capo della Casa Bianca aveva annunciato per il giorno successivo l’invio di lettere a dieci Paesi alla volta per comunicare il livello di dazi cui il loro export verso gli Usa sarà soggetto.
È una mossa che evidenzia l’impossibilità di negoziare e chiudere intese con tutti i Paesi coinvolti nei dazi reciproci. Dopo aver sbandierato il 2 aprile che l’America era pronta a discutere con chiunque e aver lanciato lo slogan, «90 accordi in 90 giorni», il presidente ha riposto nel cassetto l’ambizione: «Ci sono oltre 170 Paesi, e quanti accordi possiamo fare? È troppo complicato», ha commentato.
Il caso delle discussioni con l’Unione europea è evidente. Ma pure con il Giappone ci sono nodi che all’inizio sembravano superabili e che poi – complici anche le imminenti elezioni legislative – si sono ulteriormente ingarbugliati.
(da La Stampa)

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PER TRUMP NON CI SONO ALLEATI O NEMICI, MA SOLO OPPORTUNITÀ DI FARE AFFARI; ZELENSKY HA CHIESTO PATRIOT E TRUMP HA MOSTRATO INTERESSE, MA NESSUN AIUTO GRATUITO. L’ASSISTENZA DIVENTA BUSINESS, RAFFORZA L’INDUSTRIA AMERICANA E SCARICA I COSTI SU KIEV ED EUROPA

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

OGNI ALLEATO È UN CONTRATTO, OGNI GUERRA UN INVESTIMENTO DA VALUTARE…L’EUROPA, NEL FRATTEMPO, RESTA AI MARGINI, SENZA UNA STRATEGIA AUTONOMA NÉ UNA VOCE UNITARIA. LA SUA INFLUENZA RESTA ACCESSORIA

La sequenza è rivelatrice: il 2 luglio il Pentagono sospende l’invio di armamenti vitali, inclusi i missili Patriot. Il 3 Trump parla con Putin, e quella notte avviene il più massiccio bombardamento russo dall’inizio della guerra. Il 4 chiama Zelensky.
La telefonata Trump-Putin è diretta, pragmatica. Trump cerca risultati immediati, non compromessi di principio. Ma il muro russo resta invalicabile: Trump si dichiara «molto deluso» , ma non chiude la porta.
Putin parla di «cause profonde del conflitto»: un lessico strategico che maschera un’agenda imperiale: annessioni riconosciute, neutralizzazione dell’Ucraina, esclusione dalla NATO e limiti permanenti alla sua capacità militare.
L’atteggiamento attendista di Putin mette alla prova l’impazienza strategica di Trump. Putin prende tempo, punta a massimizzare i risultati della nuova offensiva estiva per arrivare al tavolo più forte, in posizione di superiorità. Trump si limita a chiedere «una fine rapida delle ostilità», eludendo volutamente il nodo cruciale della sovranità ucraina.
L’asimmetria è strutturale: Mosca vuole l’accettazione dello status quo, Washington cerca una tregua a qualsiasi prezzo, anche se significa congelare il vantaggio russo sul campo.
La telefonata è la rappresentazione plastica di un mondo tornato a logiche bilaterali e imperiali.
L’interruzione unilaterale degli aiuti militari americani è alla base della telefonata con Zelensky.
La decisione americana è politica: fare pressione su Kiev, spingerla al negoziato e offrire aperture a Mosca in cambio di dividendi su Iran, energia, Artico, Cina.
Zelensky ha definito la telefonata «molto importante e fruttuosa» e affermato che Trump si è impegnato ad aiutare Kiev nella difesa aerea. Ma i dettagli dicono anche altro: Zelensky ha chiesto Patriot e proposto la coproduzione di droni, cercando di agganciare la sicurezza ucraina agli interessi industriali americani.
Trump ha mostrato interesse, ma nessun aiuto gratuito. L’assistenza diventa business, rafforza l’industria americana e scarica i costi su Kiev ed Europa. Trump agisce secondo una logica transazionale: l’assistenza non è solidarietà, ma scambio. Ogni alleato è un contratto, ogni guerra un investimento da valutare.
Questo approccio riflette la nuova politica estera americana: meno regole, più affari. Trump non vede l’invio di armi come un dovere di sicurezza collettiva, ma come scelta legata alla convenienza immediata.
Se le forniture riprenderanno, come probabile, non saranno comunque generose. Sufficienti a evitare la critica di impedire all’Ucraina di difendere le proprie città, ma non a irritare Mosca. L’Ucraina, infatti, è solo una parte del più ampio rapporto con la Russia.
L’Europa, nel frattempo, resta ai margini. Tenta di colmare il vuoto americano con forniture e diplomazia, ma senza una strategia autonoma né una voce unitaria. La sua influenza resta
accessoria. E mentre l’Ucraina rischia l’isolamento operativo, l’Europa rischia quello strategico.
L’imprevedibilità del presidente americano non è un incidente: non ci sono alleanze durature, solo interessi. La sicurezza di Ucraina ed Europa è subordinata al successo personale ed economico del presidente.
Mosca gioca una partita lineare (restaurazione imperiale), Pechino una paziente (egemonia sistemica), Trump una caotica: distrugge le regole senza crearne di nuove. È questo il vero vuoto strategico che minaccia l’Occidente.
Trump ragiona per transazioni, non per strategie. Ogni alleato è sacrificabile
L’imprevedibilità non è un difetto, ma una leva deliberata. In un mondo concepito come gioco a somma zero, il rispetto si ottiene con la forza, la coerenza è sacrificata alla flessibilità.
L’erraticità diventa sistema: una diplomazia del caos che destabilizza e obbliga tutti a confrontarsi con un’America imprevedibile ma ancora decisiva.
Trump, Putin e Zelensky incarnano tre visioni incompatibili: restaurazione imperiale, diplomazia transazionale, difesa della sovranità.
Il rischio è che in un sistema privo di regole condivise, la sovranità diventi negoziabile e chi non definisce l’ordine finisca per subirlo.
Ettore Sequi
per “La Stampa”

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VOGLIONO FAR RIENTRARE IL PONTE SULLO STRETTO NELLE SPESE NATO

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

BONELLI ACCUSA: ”NON RISPETTA I CRITERI PREVISTI PER INFRASTRUTTURE MILITARI, E’ UN TRUCCO PER DEROGARE ALLA VALUTAZIONE DI IMPATTO AMBIENTALE”

Nei giorni scorsi l’ipotesi è stata ventilata a livello europeo. Oggi, 4 luglio, il governo di Giorgia Meloni ha accreditato l’ipotesi anche in Parlamento. Nel corso delle risposte alle interpellanze urgenti, rispondendo ad una domanda di Angelo Bonelli, portavoce di Europa verde e parlamentare di Avs, il sottosegretario all’Interno, Emanuele Prisco, ha detto che quella in campo è più di una ipotesi: «Anche il ponte sullo Stretto
potrebbe essere considerato un’infrastruttura coerente con le linee guida Nato ed europee in tema di sicurezza integrata e mobilità strategica».
L’apertura della Ue
Dall’Unione europea, alcuni giorni fa, era arrivata la disponibilità a valutare il ponte come infrastruttura militare, in modo da consentire all’Italia di accedere prima di tutto alle clausole di salvaguardia per le spese militari (che però il governo non vuole attivare, almeno per ora) o addirittura ad un cofinanziamento dell’Unione europea, qualora, ad esempio, il ponte rientrasse nel piano di Mobilità militare.
Per farlo rientrare in quel piano, però, il progetto dovrà garantire il «duplice uso», facendo in modo che «i miglioramenti infrastrutturali soddisfino sia le esigenze civili che quelle militari»: l’Europa ha in mente di mettere in quel pacchetto «circa 100 miliardi», ha scritto l’Ansa, e di adottare il piano nel corso del 2025. Prisco alla Camera è stato possibilista: «Nelle interlocuzioni (a proposito del Military Mobility Action Plan 2024 ndr) è emerso che, come è evidente per logica, un’infrastruttura di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, in grado di assicurare la continuità fisica e logistica tra la Sicilia e il continente, indurrebbe una contrazione dei tempi per la proiettabilità delle forze su uno dei corridoi individuati». Ma anche se non andasse così, anche dalle parole pronunciate in aula oggi, pare chiaro che il Ponte andrà almeno a comporre quell’1,5% di spese in infrastrutture che, assieme al 3,5% di spese strettamente militari comporrà il famoso 5% di spesa, in relazione al Pil, che i membri Nato dovranno dedicare alla Difesa entro il 2035, e sulla cui definizione non sono ancora
stati definiti i criteri.
I dubbi di Bonelli
Secondo il deputato verde Angelo Bonelli, ottenere il cofinanziamento europeo sarà praticamente impossibile, perché a suo dire, la gigantesca opera a cui tanto tiene il ministro dei Trasporti Matteo Salvini, non rispetta i criteri previsti dalla Nato per la progettazione di opere militari. E, ha aggiunto sempre Bonelli, «noi abbiamo chiesto all’Unione europea se quest’opera fosse inserita nel Military Mobility Action Plan del 2024 e la risposta è stata: “no”. L’ufficio legislativo e l’ufficio Studi del Parlamento europeo ci hanno comunicato, attraverso una disposizione, una richiesta fatta dall’eurodeputato Leoluca Orlando e a questa richiesta ci è stato risposto che il ponte sullo Stretto non sta dentro il Military Mobility Action Plan». Secondo l’esponente di Avs, il ponte non sarà coerente con delle linee guida Nato che imporrebbero che i ponti per uso militare possano trasportare 32 veicoli in totale, 16 trasportati e 16 dotati di ruote in contemporanea.
In più, dice ancora Bonelli, «il franco navigabile del ponte sullo stretto è di 65 metri mentre le maggiori portaerei del mondo hanno un’altezza di 80 metri. Questo significa che il ponte è un ostacolo al passaggio delle navi militari». La valutazione secondo criteri Nato di un ponte, spiegano però da ambienti della Difesa, non vuol dire che l’infrastruttura debba poter portare il massimo del carico per poter essere “accreditata”: «Ogni ponte è valutato in base ai criteri Nato per capire quanti e quali mezzi ci possono passare, le infrastrutture che possono permettere il passaggio di carri sono molteplici».
L’emendamento per accelerare
Bonelli ha scritto anche una lettera a Meloni per chiederle di bloccare l’approvazione del Ponte al Cipess (comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile) visto che la spesa potrebbe non ottenere il sostegno dell’Unione nell’ambito delle spese militari e, a detta dell’esponente verde, sarebbe fuori anche dai criteri Nato. A quel che si capisce finora la scelta di far rientrare l’opera nell’1,5% Nato è praticamente già presa. In ogni caso il governo accelera su tutte le spese collegate alle infrastrutture militari: oggi, in commissione Trasporti, è stato presentato un emendamento al dl Infrastrutture che deroga alla valutazione d’impatto ambientale per le opere di difesa nazionale. Se il ponte ci rientra, il gioco è fatto.
(da agenzie)

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I FRATELLINI D’ITALIA CI SONO O CI FANNO? SULLA QUESTIONE PEDAGGI, CI FANNO: FINGONO DI CASCARE DAL PERO DI FRONTE ALL’EMENDAMENTO LEGHISTA CHE AUMENTA IL COSTO DELLE AUTOSTRADE, MA SAPEVANO TUTTO DALL’INIZIO. QUELLO DEL CARROCCIO È STATO UN BALLON D’ESSAI PER VEDERE COSA SAREBBE SUCCESSO

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

MA DI FRONTE ALL’INDIGNAZIONE DI CONSUMATORI E OPPOSIZIONE LA MELONI HA ORDINATO LA RETROMARCIA … ORA IL CETRIOLONE PASSA AI CONCESSIONARI: CHE DIRANNO I VARI TOTO, BLACKSTONE, MACQUARIE E GAVIO DI FRONTE AL FORTE DIMAGRIMENTO DEI LORO DIVIDENDI?

I Fratellini d’Italia ci sono o ci fanno? Sul dossier pedaggi, è evidente, ci fanno. Nessuno crede davvero che il partito di maggioranza relativa fosse completamente all’oscuro dell’emendamento, presentato dalla lega, per aumentare il balzello ai caselli.
Come ricostruisce oggi, su “Repubblica”, Giuseppe Colombo, infatti, i parlamentari meloniani hanno “incrociato” la norma almeno due volte: la prima a Montecitorio, il 25 giugno: “alla Camera si tiene una riunione di maggioranza sugli emendamenti al decreto Infrastrutture, il veicolo della misura sui pedaggi.
È il viceministro alle Infrastrutture, Edoardo Rixi, a illustrarli. Il numero due di Salvini al Mit parla anche di autostrade.
Il testo dell’emendamento è stato scritto dai funzionari del ministero, ma quel giorno non compare sul tavolo della riunione.
Arriva, però una spiegazione a voce da parte di Rixi. Nessuno fa obiezioni. Neppure i rappresentanti di FdI”
Che qualche giorno dopo, avrebbero apposto la loro firma in
Il capogruppo alla Camera di Fdi, Galeazzo Bignami, sul tema si sarebbe espresso a favore, dicendosi d’accordo con Rixi. Tanto che, continua ancora Colombo, “per i leghisti è lui ‘la manina dietro le fonti di Fdi che hanno rinnegato l’emendamento’”.
Ecco, le “fonti”. Quelle che ieri hanno veicolato alle agenzie una nota surreale in cui esprimevano “disappunto” per una norma presentata da loro stessi.
Una formuletta magica per far credere agli italiani che loro non erano a conoscenza dell’aumento dei pedaggi e addossare tutta la colpa a Salvini? O il disappunto per la reazione veemente, ma prevedibile, di associazioni dei consumatori e opposizione?
Occorre fare un passo indietro e spiegare la ratio dell’emendamento incriminato.
Ogni volta che scade una concessione autostradale, occorre rinnovare il Pef, il Piano economico finanziario, che contiene le previsioni di spesa, gli investimenti in manutenzione e i costi per tenere in piedi viadotti, ponti, gallerie.
Ora, come scriveva Sergio Rizzo su “MF” qualche settimana fa, ci sono “quindici piani di investimento bloccati al ministero delle Infrastrutture”. Il motivo? “I concessionari chiedono 27 miliardi in più rispetto ai vecchi piani, circa 6,4 milioni a chilometro”.
Da dove far arrivare quei bei quattrini? Semplice, scaricando il costo sugli utenti che ogni giorno entrano ed escono dalle autostrade, e già ingrassano le ricche pance dei concessionari privati.
In pratica, a fronte di interventi di manutenzione del tratto autostradale, i concesisonari chiedono un aumento dei pedaggi. E così, ogni anno, ci sono adeguamenti e ritocchi (sempre all’insù).
Il concessionario più interessato dall’approvazione dei Pef è Gavio: la concessione di una delle autostrade da lui gestite, la Torino-Milano, scade tra qualche mese, nel 2026. E ancora è tutto fermo.
Nel 2020, Gavio ottenne l’approvazione dei suoi piani finanziari dal Ministero con il riconoscimento di un valore di subentro di 1 miliardo e 232 milioni.
Scrive Rizzo: “Uno sproposito stigmatizzato dalla Corte dei Conti nonché definito dall’Autorità dei Trasporti alla stregua di «una barriera all’ingresso di nuovi operatori».
E ora, a distanza di cinque anni, clamorosamente bocciato anche dalla direzione generale del ministero delle Infrastrutture; lo stesso ministero, ministro diverso, che nel 2020 aveva piantato quel mostruoso paletto in favore del gruppo Gavio”.
Insomma, Gavio sperava molto nell’aumento del pedaggio, e non è un imprenditore qualunque, ma un personaggio con interessi ramificati che si intersecano con quelli del Governo. Per esempio, su Mediobanca: Gavio ha appena venduto 250mila azioni di Piazzetta Cuccia.
Un favore indiretto al trio Caltagirone-Milleri-Lovaglio, che d’accordo con il Governo stanno tentando, via Mps, la scalata a Mediobanca (con mire su Generali): la vendita, che si somma a quella degli altri “pattisti” di Acutis e della famiglia Monge, ha come effetto quello di abbassare il valore del titolo della banca guidata da Nagel.
Scrive “Milano Finanza” oggi: “il premio sull’ops che Mediobanca ancora incorpora, alla vigilia dell’avvio dell’ops, si
è ridotto al 5%”. Tradotto in soldoni: a Siena, e quindi a Caltagirone e Milleri, l’operazione potrebbe costare meno del previsto.
Tutte prove che la famiglia Gavio ha molte carte da giocare per “trattare” con il Governo, e con la Lega, partito con una base solida al Nord, dove il gruppo ha le sue concessioni più importanti.
Il Carroccio, dunque, ci ha provato: dal Mef, dove oltre al ministro Giorgetti siede anche il sottosegretario Federico Freni, ha lanciato il suo ballon d’essai per vedere l’effetto che faceva, d’accordo con gli alleati di Governo e con la scusa di dover finanziare la rete Anas (che per effetto dell’abolizione delle province, non ci sono soldi per la manutenzione).
Apriti cielo: associazioni dei consumatori e opposizioni si sono risvegliate e hanno fatto il diavolo a quattro per una misura che a cascata sarebbe stata un bel cetriolone per tutti.
In un Paese dove le merci si muovono principalmente su strada, l’effetto immediato sarebbe stato un aumento dei prodotti sugli scaffali dei supermercati.
Un’inflazione indotta che ha risvegliato anche Elly Schlein dal suo letargo arcobaleno: “Da Meloni solo tasse e propaganda”.
Di fronte a cotanta mobilitazione, la maggioranza ha dovuto fare pippa, e Fratelli d’Italia, con il nazi-cosplayer Galeazzo Bignami (si ricorda il suo travestimento da SS per un carnevale di tanti anni fa) ha subito scaricato il patatone bollente su Salvini.
Il “Capitone”, come scrivono molti retroscena sui quotidiani di oggi, ieri avrebbe chiamato Giorgia Meloni, alzando la voce: “Non consento a nessuno di farmi passare come quello che tassa gli italiani
Il guaio è che alla fine, a dover stringere la cinghia, saranno i concessionari: i vari Toto, Blackstone e Macquarie (azionisti di Aspi) e, appunto la famiglia Gavio. Chissà come saranno felici di veder dimagrire, e di molto, i loro dividendi…
(da Dagoreport)

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C’È QUALCUNO CHE NON DICE TUTTA LA VERITÀ SULL’EMENDAMENTO CHE AUMENTA I PEDAGGI DELLE AUTOSTRADE, POI RITIRATO

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

I LEGHISTI INSINUANO MALIZIOSI CHE FRATELLI D’ITALIA, CHE ORA CASCA DAL PERO ADDOSSANDO LA COLPA SUL CARROCCIO, AVEVANO CONDIVISO LA NORMA, PRIMA A PAROLE, IL 25 GIUGNO, E POI FIRMANDO IL PROVVEDIMENTO … IL BALZELLO SAREBBE SERVITO PER INVESTIRE SULLA SICUREZZA DELLE STRADE ANAS: IL GOVERNO DOVE TROVERÀ QUEI SOLDI?

L’irritazione monta quando sulle agenzie rimbalzano le parole dei leader delle opposizioni sulla tassa dell’estate. È a quel punto che Giorgia Meloni decide di intervenire per fermare l’emendamento che aumenta i pedaggi autostradali. Un errore assurdo, confida ai suoi collaboratori. L’accusa è rivolta al ministro Matteo Salvini. La premier prende il telefonino in mano e scrive al suo vice.
Chiede spiegazioni. ll leader della Lega risponde nel merito. Chiarisce che l’incasso extra al casello serve per garantire la sicurezza della rete autostradale. In ballo — spiega — ci sono più di trentaduemila chilometri di ex strade provinciali, ora statali, che necessitano di una manutenzione urgente da parte dell’Anas. È il prezzo da pagare — aggiunge — per la riforma che ha svuotato le province, caricando lo Stato di «problemi economici». Servono soldi, è la postilla.
Lo scambio di messaggi avviene ad alta quota. Quando riceve il primo sms, il leader del Lega è a diecimila metri sopra l’Azerbaijan, in volo verso il Giappone per una missione internazionale. Irritato per la reazione di Fratelli d’Italia, il partito della presidente del Consiglio, contro una misura che — rivendica in un altro messaggio — è stata condivisa da tutta la maggioranza, come attestano le firme dei relatori di FdI, Lega e FI in fondo all’emendamento.
ll wi-fi dell’aereo è stabile, lo scambio con la premier va avanti. I due discutono dell’opportunità di introdurre un balzello nel
pieno delle vacanze estive, con milioni di italiani in viaggio. Tocca ancora a Salvini parare i colpi. L’aumento — scrive alla premier — è contenuto, appena una decina di centesimi per andare dal Centro al Nord. Ma la difesa più forte è sulla condivisione preventiva della misura con gli alleati.
«Non passo per quello che aumenta le tasse», sbotta. Ai suoi affida una ricostruzione che attesterebbe la veridicità della sua tesi. Luogo e data: Montecitorio, 25 giugno. Alla Camera si tiene una riunione di maggioranza sugli emendamenti al decreto Infrastrutture, il veicolo della misura sui pedaggi.
È il viceministro alle Infrastrutture, Edoardo Rixi, a illustrarli. Il numero due di Salvini al Mit parla anche di autostrade. Il testo dell’emendamento è stato scritto dai funzionari del ministero, ma quel giorno non compare sul tavolo della riunione. Arriva, però — nella ricostruzione dei parlamentari leghisti — una spiegazione a voce da parte di Rixi. Nessuno fa obiezioni. Neppure i rappresentanti di FdI.
La tesi di Salvini, però, non viene confermata dal partito della presidente del Consiglio. «Noi quel giorno non abbiamo sentito parlare di pedaggi», dice una fonte di FdI di primo livello.
Ma al netto della riunione, Salvini punta sulle firme degli alleati in fondo all’emendamento. Per questo quando la premier lo incalza, ribatte citando proprio i nomi e i cognomi dei relatori. Si dice esterrefatto per come Fratelli d’Italia si è smarcato. Ma la premier insiste: l’emendamento va ritirato. E l’annuncio spetta al suo interlocutore. «Va bene», chiude Salvini. Poi il segretario del Carroccio invia un messaggio ai suoi: «O siamo una maggioranza o non lo siamo».
In casa Lega a finire sotto accusa è Galeazzo Bignami, capogruppo di FdI alla Camera. Per i leghisti è lui «la manina dietro le fonti di FdI che hanno rinnegato l’emendamento». L’ultima stoccata è di Salvini: «Ora saranno altri a dover recuperare i fondi» per la manutenzione delle autostrade. Palla agli alleati.
(da La Repubblica)

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UN PO’ DI NARCISISMO AIUTEREBBE

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

E’ QUELLO CHE SERVIREBBE AGLI INTELLETTUALI DI DESTRA COME ANTIDOTO AL LORO SERVILISMO GOVERNATIVO

La cosiddetta egemonia culturale della sinistra fu lastricata di liti, dissidenze, scomuniche quasi sempre cadute nel vuoto (nel senso che lo scomunicato non riconosceva alcuna Chiesa, e tirava dritto per la sua strada); niente che potesse assomigliare a una ortodossia.
Lo ricorda Stefano Cappellini avendo buon gioco nel paragonare quella dialettica vivace e spesso aspra al conformismo governativo dei pochi, e spesso cosiddetti, intellettuali di destra, la gran parte dei quali o fanno proprio parte del governo, vedi Giuli, o paiono portavoce governativi, vedi Italo Bocchino. Ovvero l’esatto contrario di quello che dovrebbe essere il mestiere di un intellettuale.
Al lungo e ragionato elenco di Cappellini mi permetto di aggiungere Sergio Staino, e nel suo nome la gran parte della satira “di sinistra”, che ebbe nella sinistra un bersaglio costante. Prima il Male, poi Tango, poi Cuore, gli ultimi due nati come inserto dell’Unità (ovvero dell’organo ufficiale del Partito comunista), produssero satira (dunque: critica) a tonnellate sulla
sinistra, che pure era il campo “amico”. Ricordo (anche per esperienza personale) furibonde polemiche, e insanabili conflitti, e telefonate di fuoco. Niente che potesse, comunque, uniformare il pensiero.
Valeva probabilmente, a vivificare il confronto, anche il narcisismo, che è male tipico degli intellettuali. Ovvero: “o si fa come dico io, oppure tutto va a rotoli”. Per dare un’idea: Massimo Cacciari. Raramente la modestia fa parte del bagaglio intellettuale degli intellettuali. Ma se dovessi augurare agli intellettuali di destra un antidoto al loro servilismo governativo, ecco: un poco di narcisismo vi aiuterebbe.

(da repubblica.it)

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LO STORICO FRANCO CARDINI E LA SINDROME IRAN

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

LA SOCIETA’ DELLA TEOCRAZIA SI E’ EVOLUTA E IL REGIME LASCIA DIVERSE LIBERTA’ INDIVIDUALI

Quando il gioco si fa serio, le persone serie debbono cominciar a giocare. Ma questo prezioso aforisma è ignoto nel beato mondo di Fakenewslandia, dove si crede solo alle sòle e alle bufale.
Per esempio, che nella costituzione della Repubblica Islamica Iraniana sia scritto bello chiaro che si vuole la distruzione totale d’Israele: il che si ripete di continuo, ma corrisponde a una colossale menzogna per smascherar la quale basta leggerne il testo online
È vero che è stato presentato da alcune forze presenti in Parlamento un disegno di legge contro lo Stato ebraico, ma esso non è ancora definitivo e dovrebbe comunque entrare in vigore entro il 2041. All’articolo 13, la Costituzione sancisce il diritto alla piena libertà di culto per zoroastriani, ebrei e cristiani, cioè per tutte le religioni che secondo la sharia adorando Iddio eterno, onnipotente e onnisciente si trovano sulla via della Rivelazione: quelle cioè proprie delle ahl al-Kitab, le “Genti del Libro”. Vero è che il 9 maggio 1990 venne promulgato un Atto in otto articoli – da allora soggetto e revisioni ed emendamenti – nel quale si definisce il regime di Gerusalemme come “oppressore e occupatore” della nazione palestinese.
I cittadini iraniani ebrei godono d’ogni libertà con l’unico obbligo di rifiutare esplicitamente l’ideologia sionista. Vero è che in forza del nuovo dispositivo giuridico varato dopo gli attacchi israeliani è stata applicata la pena di morte contro alcuni collaborazionisti, e non possiamo certo qui pronunziarci pro o contro la correttezza delle accuse a loro carico: ma, se la pena capitale basta a far considerare il regime iraniano una “dittatura” – come qualche Anima Bella dalle nostre parti pretende – allora è in buona compagnia, dagli Usa alla Cina passando per i tagliatori di teste che abbondano negli Emirati arabi del Golfo, fieri alleati degli americani e ora de facto sostenitori di Netanyahu sia pur con qualche distinguo.
Ma torniamo all’assetto civile interno dell’Iran, che dal novembre del 1979 è oggetto di un embargo totale voluto dagli Usa che nel settembre 1980 appoggiarono l’iracheno Saddam. Il pur avventuristico Trump, durante la “guerra guerreggiata” tra Israele e Iran che stava senza dubbio registrando la superiorità tecnologico-militare del primo sul secondo, si è sia pur a malapena trattenuto da colpi di mano suscettibili di obbligare i soldati stars and stripes a calcare il territorio iraniano. La Repubblica Islamica è vasta più di un milione e mezzo di chilometri quadrati e abitata da oltre 90 milioni di abitanti di età media fra i 30 e i 40 anni a schiacciante maggioranza musulmano-sciita nonostante la varietà etnica (i persiani sono
meno del 35%:) ed è uno dei paesi di cultura media più alta del mondo, con il 45% di laureati di cui gran parte in scienze “dure” come medicina, ingegneria, scienze naturali: laureati veri, non di università online (quasi 1 adulto su 2 ha un titolo universitario; altissimo il numero di donne laureate in facoltà scientifiche, il 76% circa).
Una “dittatura”, quella iraniana? La Rivoluzione islamica del 1979 è stata un movimento identitario e popolare, culminato con un referendum in cui oltre il 98% dei votanti scelse la Repubblica islamica. Ancor oggi, la maggior parte della popolazione ne sostiene l’ordinamento: gli oppositori tanto spesso oggetto delle rare sequenze tv sono in genere concentrati nei quartieri medio-alto-borghesi di Teheran e Isfahan e protestano per lo più contro il chador, indumento portato in effetti con disinvoltura e che non impedisce alle iraniane di laurearsi e raggiungere alte cariche in politica, magistratura, accademie, produzione, esercito. Milioni d’iraniani partecipano a manifestazioni di sostegno al governo, come quelle per l’anniversario della Rivoluzione o in risposta ad aggressioni esterne, come quelle avvenute la notte dell’aggressione israeliana, che chiedevano una forte risposta da parte dell’Iran, contrastando la narrazione dei media occidentali che spesso le censurano. In momenti di aggressione, come gli attacchi israeliani, la popolazione tende a compattarsi e a mostrare un forte senso di patriottismo e unità.
Del resto partiti e media d’opposizione esistono, i giornali sono molti e di varia tendenza per quanto oggi la stampa cartacea sia in declino come da noi, sostituita dia mezzi informatici. La minoranza non è tale in quanto perseguitata, bensì perché manca
d’unità d’intenti e di veri e propri leader credibili: fra i temi d’opposizione più comuni, a parte la sparuto gruppo di nostalgici del regime dello shah definitivamente screditato, i più seguiti insistono sull’adozione di modelli ispirati alle liberal-democrazie occidentali e godono di un certo credito. Molte delle operazioni di sabotaggio e/o destabilizzazione son state portate avanti da agenti interni addestrati o sostenuti da attori esterni come Israele e Usa scopo dei quali è promuovere un cambio di regime: ma, a parte gruppi specifici come i mujaheddin del popolo”, rare sono le formazioni oggetto di divieto assoluto sul modello della ricostituzione del partito fascista nella Costituzione italiana.
Per ciò che riguarda dunque la libertà di pensiero e potere politico, la Repubblica Islamica presenta un ordinamento in cui sovranità e partecipazione popolare alla vita politica è fondamentale, basato sui princìpi di fondo islamici ed elezioni parlamentari.
Capo dello Stato è il Rahbar, Guida Suprema designata a vita dagli 88 membri dell’Assemblea degli Esperti (il “senato” di giuristi-teologi eletti a suffragio universale ogni 8 anni). Il Rahbar presiede il Consiglio dei 12 Guardiani della Rivoluzione, per metà designati da lui e per metà dall’Assemblea Islamica, il “parlamento” con poteri legislativi costituito da 290 membri che restano in carica 4 anni e che, eletti secondo un elenco proposto dai partiti politici e approvato dal Consiglio dei Guardiani, designa a sua volta, a maggioranza, il presidente della Repubblica e capo del governo. Il sistema è definibile come “oligarchico-democratico”, misto di cariche “nominate dall’alto” e cariche elettive. Poche le donne, 14 su
290 seggi parlamentari: ma la situazione si sta evolvendo, anche dato l’altissimo numero di laureate. Il dibattito politico è molto vivo e ordinariamente libero. Che un sistema del genere sia definibile come “dittatura”, nonostante la presenza d’una milizia politico-religiosa e i metodi duri di polizia, è semplicemente ridicolo
Sia prima dell’accordo sul nucleare del 2015 (poi stracciato da Trump), sia prima dei negoziati di quest’anno, la Guida Suprema, l’imam Khamenei, aveva espresso perplessità sulla loro utilità, asserendo che gli Usa non sono affidabili: eppure sia il governo di Ruhani nel 2015, sia l’attuale governo di Pezeshkian, hanno optato per i negoziati. Si noti che il parere della Guida Suprema s’è dimostrato corretto: tuttavia egli non ha imposto il suo volere al governo, al contrario di quel che Trump fa abitualmente. E ciò vale anche per altre tematiche che vanno dalla questione del velo alla collaborazione con Russia e Cina e così via.
Chi scrive conduceva abituali visite turistiche in Iran: non solo con studenti universitari. Negli ultimi anni, la cosa è diventata impossibile: non per colpa della burocrazia iraniana, che concede facilmente i visti (anche agli ebrei che visitano il santuario della “Profetessa” Esther ad Hamadan: l’ingresso in Iran sarebbe vietato agli ebrei israeliani, i quali però dispongono spessissimo di doppia cittadinanza, dunque doppio passaporto), ma perché tra gli aspiranti turisti si vanno formando due correnti d’incerti e intimiditi: la prima oppone al viaggio il pregiudizio (che si rifiuta di verificare de visu) che “si tratta di una dittatura”; la seconda manifesta la paura “del terrorismo”, pericolo in teoria più presente a Parigi o New York che a Teheran.

Franco Cardini
(da ilfattoquotidiano.it)

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NON CI RESTA CHE PIANGERE

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

OGNI MATTINA IN ITALIA LO STATO SI SVEGLIA CON L’IDEA DI FREGARE IL CITTADINO E IL CITTADINO CON QUELLO DI FREGARE LO STATO

Ero appena sceso dal treno, tutto contento perché da Milano a Roma aveva accumulato appena mezz’ora di ritardo e l’aria condizionata era stata in grado di funzionare fino a Firenze, quando ho letto che dal primo agosto sarebbero aumentati i pedaggi delle autostrade.
Chi se n’era accorto meriterebbe una laurea in Scienze Occulte, perché l’emendamento galeotto, firmato da tutti i partiti di maggioranza, era scritto in un linguaggio per adepti. L’opposizione si è molto indignata – fingendo di dimenticarsi che, quando era al governo, faceva le stesse cose – mentre Salvini si è ricordato di essere il ministro competente e ha chiesto di bloccare la norma.
Tutto è bene quel che (forse) finisce bene? Resta comunque la perfidia di chi aveva pensato di far scattare l’aumento in coincidenza con l’esodo estivo. Una scelta che perpetua l’idea che, per coloro che rappresentano le istituzioni, il cittadino rimanga una mucca da mungere, e una mucca particolarmente remissiva che borbotta sempre, ma digerisce tutto.
Ricordate Troisi e Benigni alle prese con il gabelliere del Rinascimento? «Chi siete? Che portate? Un fiorino», Abbiamo cambiato moneta, ma non ci siamo mossi da lì. È un rapporto di sfiducia reciproca. Ogni mattina in Italia, come sorge il sole, lo Stato si sveglia con l’idea di fregare il cittadino e il cittadino con quella di fregare lo Stato. Ogni mattina in Italia, come sorge il sole, non importa che tu sia Stato o cittadino: l’importante è riuscire a non farti fregare.
(da corriere.it)

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