Luglio 6th, 2025 Riccardo Fucile
SONDAGGIO “YOUGOV” TRA I RAGAZZI DI TUTTA EUROPA: SOLO IL 57 PER CENTO DEGLI INTERVISTATI RITIENE LA DEMOCRAZIA LA MIGLIORE FORMA DI GOVERNO POSSIBILE
Che poi, tutta questa democrazia, alla fine ci serve veramente? È stata posta una domanda simile ai giovani europei e le risposte illustrano un quadro preoccupante. Qualcosa di più di un campanello d’allarme.
Secondo un sondaggio di YouGov commissionato dalla tedesca Tui Stiftung, il sostegno delle giovani generazioni nei confronti della democrazia sta calando. In media, infatti, solo il 57 per cento degli intervistati la ritiene la migliore forma di governo possibile.
Lo studio “Junges Europe 2025” è stato condotto su un campione di oltre 6.700 giovani, tra i 16 e i 26 anni, cittadini di Germania, Francia, Spagna, Italia, Grecia, Polonia e Regno Unito.
E le differenze che emergono tra i diversi contesti nazionali sono rilevanti. Perché i ragazzi e le ragazze che in Germania preferiscono la democrazia ad altri sistemi di governo sono il 71 per cento, mentre in Polonia sono solo il 48 per cento.
Non c’è molto da compiacersi, perché l’Italia – con il 24 per cento – è invece prima per giovani che si sono detti favorevoli a un regime autoritario, seppur a certe circostanze
Uno su quattro. Davanti a Francia, Spagna e Polonia con il 23
per cento. In Germania, invece, la percentuale è al 15.
Secondo il 48 per cento di tutti gli intervistati, nel proprio paese la democrazia è a rischio. Mentre circa un giovane su 10, in tutte le nazioni prese in considerazione, è indifferente e non si preoccupa se il suo governo sia democratico o no.
In linea generale, circa due terzi degli intervistati pensano che l’appartenenza del proprio paese all’Ue sia positiva.
Tra gli italiani la percentuale è al 63 per cento. Significativi i dati dei giovani britannici: per il 73 per cento di loro è necessario un ritorno del Regno Unito nell’Unione, con il 47 per cento che auspica almeno dei rapporti più forti tra Bruxelles e Londra.
Un problema, però, traspare dalle risposte dei giovani riguardo le politiche europee. Bruxelles sembra aver smarrito identità e strada da percorrere. Per il 53 per cento, infatti, l’Ue si concentra troppo spesso su questioni futili, ignorando i temi centrali per un ragazzo o una ragazza: dal costo della vita alla difesa comune, passando per la crescita economica.
Serve quindi una maggiore integrazione europea? Per il 53 per cento degli intervistati italiani sì, ed è un risultato da sottolineare. In linea con le risposte dei tedeschi, ma soprattutto di gran lunga superiore a quanto pensano polacchi (31 per cento) e francesi (27 per cento).
Tuttavia, l’Ue non è vista veramente come un grande attore globale, al pari di Stati Uniti, Cina e Russia: solo il 42 per cento dei giovani la ritiene infatti tra i tre principali player attuali sul contesto internazionale. E c’è di più, qualcosa su cui le istituzioni di Bruxelles dovrebbero riflettere: circa il 40 per cento dei giovani ritiene che l’Ue non funzioni in maniera democratica.
(da agenzie)
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Luglio 6th, 2025 Riccardo Fucile
LA CARTA COPERTA SEMBRA ESSERE UN’ALTRA: GIOVANNI MALAGÒ. CIÒ SPIEGHEREBBE LA PROCLAMAZIONE DI FEDE MELONIANA NELL’INTERVISTA ALLA “STAMPA” DELLA SCORSA SETTIMANA
Qualche sera prima di passare alla festa romana dei Fratelli d’Italia, al laghetto dell’Eur,
una pozza bollente tra tafani grandi come piccioni e auto blu con i lampeggianti del potere, quello vero, concreto, di ministri e sottosegretari, di deputati e senatori e portaborse vestiti pure loro come ministri, tutta gente che governa il Paese e vorrebbe prendersi anche la sua Capitale, compresa la poltrona del Campidoglio, andiamo a una cena. Venite. Saliamo al quinto piano di questo palazzo del centro storico dove si festeggia il compleanno d’una signora che ricopre un incarico di notevole prestigio. Champagne e panzarotti. Si comincia bene.
Roma in purezza. Un’ora dopo, però, le chiacchiere si fanno più sfiziose. «Ho sentito Rossi, dice che tra un po’ s’affaccia…». Un’amica della festeggiata, scesa da Torino.
«Riccardo Rossi? L’attore? Io l’adoro». No, signora. Giampaolo Rossi, il mega direttore generale della Rai, pure lui passato trent’anni fa, come Giorgia Meloni, per la mitologica sezione di Colle Oppio, stanzoni umidi ricavati da una catacomba e un panorama sul Colosseo e su una dimensione nuova di destra.
«Sapete che il segretario, il capo di tutti era Rampelli?», interviene un tipo alto, barba curata, molto informato sulle vicende destrorse e così si finisce a parlare di Fabio Rampelli, dell’amicizia prima spezzata e poi ricomposta (sembra, forse) con le sorelle d’Italia, sulle sue ambizioni vere o presunte di provare a candidarsi come sindaco di Roma, una possibilità che comunque non gli concedono mai (fu estromesso persino dalla
corsa a governatore del Lazio, quando gli venne preferito Francesco Rocca).
È a questo punto che un po’ tutti cominciano perciò a spiegare, con l’aria di saperla lunga, come e perché nemmeno la tornata elettorale del 2027 sarà per Rampelli quella buona.
Ma dai? Aspettate. Prima un altro calice di bollicine, la faccenda si fa interessante. Allora? «Sai, potremmo parlarne con Giovanni, che forse passa». C’è un solo Giovanni, in questa città: Malagò. Tutti lo chiamano per nome.
La voce: Malagò potrebbe essere il candidato sindaco del centrodestra. Indizi. Il primo. Interrogato sull’argomento, l’anno scorso, rispose senza alzare muri, tutt’altro: «Amo la mia città… Un futuro da sindaco? Per ora non ci penso. Il mio mandato di presidente del Coni scadrà nel 2025». Ecco, appunto. È scaduto.
E così arriviamo al secondo, solido indizio. Il giorno che precede la travagliata elezione del suo successore (Luciano Buonfiglio, da lui designato, of course), Malagò rilascia una lunga intervista alla Stampa . In cui, lui che di solito è felpato, equilibrato, prudente (tutti sappiamo quanto lo stimi Gianni Letta), afferma: «Faccio il tifo per Giorgia Meloni e spero che vinca la sua scommessa a medio-lungo termine. Io sono un patriota».
Malagò, di botto, un patriota? Sarabanda di sospetti. Vuol fare il candidato civico di osservanza meloniana? «Chiediamolo direttamente a lui. Tra quanto arriva?». Solo che Giovanni non arriva nemmeno dopo la torta con le candeline. E comunque, se pure fosse venuto, diciamo non è tipo da farsi mettere in mezzo.
Certo però anche lui sa bene che la voce è questa. Ed è forte. Molto. Non l’unica, com’è ovvio
La sensazione è precisa qui all’Eur . L’ultima volta candidarono un certo Enrico Michetti, un simpatico tuttologo che parlava dai microfoni di una radio privata, tra discorsi da bar («I romani so’ gggente meravijosa») e gaffe contundenti.
L’idea venne ad Arianna, grande ascoltatrice radiofonica. Pentita? Sorvoliamo. Piuttosto: secondo alcuni, questa volta starebbe meditando di scendere in pista personalmente (possibile, ma improbabile: chi si occuperebbe, poi, del partito?).
Sul Messaggero hanno sparato forte la suggestione Carlo Calenda: precisando che «per ora è solo una pazza idea», suggerita dalla deriva destrorsa del leader di Azione, il quale — nel 2021 — non riuscì comunque ad arrivare nemmeno al ballottaggio.
Cioè: ci furono romani che tra lui e quel Michetti («Quando ci si pone davanti al cuppolone, cosa ci appare? Quel colonnato che sembrano due braccia aperte»), votarono per Michetti.
Nel frullatore, altri nomi: da Marco Mezzaroma, ad di Sport e Salute, ad Andrea Abodi, che però sta comodo al ministero. Inutile chiedere conferme. Tutti ti dicono che qui si parla di progetti, non di nomi. Sul palco, alle 20.30, dovrebbe salire proprio Rampelli. Ma c’è uno che guarda l’orologio. Ha uno sguardo dubbioso. Come ripeteva sempre l’ex candidato sindaco Michetti, «nell’antica Roma era vietato saltare la cena». Annamosene, va.
(da Corriere della Sera)
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Luglio 6th, 2025 Riccardo Fucile
TUTTE LE INCREDIBILI INCONGRUENZE DELLA VERSIONE DEL GOVERNO
Il governo ha risposto alla prima delle tre interrogazioni parlamentari presentate dalle opposizioni sul caso dell’infiltrazione di agenti dell’antiterrorismo nelle fila di Potere al popolo, venuta fuori grazie all’inchiesta di Fanpage.it. L’infiltrazione è stata prima smentita, poi ammessa, poi ancora una volta smentita, dal sottosegretario agli interni Emanuele Prisco, di Fratelli d’Italia che ha risposto in aula all’interrogazione della 5 stelle Gilda Sportiello. In un primo momento il Ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, si era detto pronto a rispondere in aula del caso, ma alla fine ha deciso
di inviare il sottosegretario Prisco, che tra le sue deleghe annovera il dipartimento dei vigili del fuoco, il soccorso pubblico e la difesa civile.
La versione del governo: la confusione tra partito e collettivo
“Nessuna operazione sotto copertura, nessuna infiltrazione in partiti e movimenti politici, ma soltanto l’adempimento dei propri compiti istituzionali nel pieno rispetto della legge” è questa la sostanza dell’intervento di Prisco alla Camera. Un discorso che è sembrato alquanto articolato, tanto da risultare davvero poco chiaro nei concetti espressi in più di una occasione. L’operazione c’è stata, questo lo ammette anche il sottosegretario, ma sostiene poi che sia del tutto legittima, tracciandone i contorni però in modo abbastanza discutibile.
In primo luogo è dunque un dato di fatto che si è trattato di agenti di polizia della direzione centrale dell’antiterrorismo, che hanno frequentato Potere al Popolo a Milano, Bologna e Napoli per diversi mesi, regolarmente in servizio mentre partecipavano a manifestazioni, assemblee, riunioni, attacchinaggi. L’operazione c’è stata ma, dice Prisco, si tratta di “attività ordinarie per le forze di polizia che sono sempre state svolte anche in passato e rispettose dell’ordinamento vigente”. Con questo il sottosegretario agli Interni vuole dire che da sempre vengono infiltrati i partiti nel nostro paese? Si tratterebbe di una affermazione gravissima per una figura politica che lavora al Viminale con ruoli di responsabilità, tanto da doverne chiedere i dettagli di tutte le operazioni passate.
Il sottosegretario specifica però che si tratta di “movimenti studenteschi” ed in tutto il suo intervento non nomina mai la parola “partito”. Il riferimento è al fatto che i giovani agenti
dell’antiterrorismo, tutti nati nel 2004, avevano iniziato la loro attività nelle fila di Cambiare rotta, che è si un collettivo studentesco, ma è anche sostanzialmente la giovanile di Potere al popolo. Una sorta di costola del partito, come i gli stessi attivisti hanno specificato in più occasioni. Prisco omette anche alcune circostanze ben evidenti che abbiamo mostrato nelle nostre inchieste: innanzitutto che alcuni di loro, come il poliziotto infiltrato a Napoli, hanno preso parte all’assemblea nazionale di Potere al popolo a Roma, un momento di discussione interna del partito. Inoltre tutti gli agenti infiltrati hanno preso parte a manifestazioni indette direttamente da Potere al popolo, come quella a Bologna del 26 maggio scorso. Per giunta, esattamente il giorno in cui Fanpage.it aveva dato notizia del primo agente infiltrato a Napoli. In quella manifestazione, come vi abbiamo mostrato nei video, proprio mentre si parlava dal megafono del caso dell’infiltrato a Napoli, l’altro infiltrato, quello che era operativo a Bologna, era dietro lo striscione di Potere al popolo.
Insomma, si parla di collettivi studenteschi solo per confondere, omettendo volutamente che Cambiare rotta e Potere al popolo hanno un rapporto di simbiosi.
L’incredibile versione sulla “non infiltrazione”
Nel suo intervento il sottosegretario Prisco prova a smontare l’idea dell’infiltrazione, questo nonostante il caso abbia come protagonisti 5 poliziotti che dipendevano dallo stesso ufficio, la Direzione Centrale della polizia di prevenzione, e che avevano addirittura svolto lo stesso corso allievi, il 223esimo. Per Prisco non si tratta di operazione sotto copertura perché gli agenti hanno usato i loro nomi veri ed erano regolarmente iscritti
all’università. Nel corso della loro frequenza nei corsi avrebbero partecipato a “iniziative pubbliche” e quasi per caso “sono venuti in contatto con organizzazioni studentesche con connotazioni estremistiche che avevano manifestato una crescente aggressività”. Davanti a questi fatti quindi, secondo Prisco, gli agenti sarebbero stati costretti, come recitano le policy di ingaggio, ad informare le autorità competenti inviando segnalazioni.
Sostanzialmente lo scenario che delinea Prisco racconta di 5 poliziotti iscritti a quattro università, tutti dello stesso ufficio, che per puro caso mentre erano all’università si imbattevano in assemblee pubbliche, attacchinaggi, manifestazioni, contestazioni a politici e membri del governo, addirittura in assemblee tenutesi fuori dai contesti universitari. Un’ipotesi che non quadra per diverse ragioni ed è smentita dai fatti.
È stato un caso che i poliziotti infiltrati si siano recati il 30 novembre scorso alla manifestazione nazionale a Roma pro Palestina? Così come quando hanno partecipato all’assemblea nazionale di Potere al popolo. Oppure quando hanno preso parte alle iniziative contro il carovita nella stazione centrale di Milano. E ancora quando hanno tenuto loro stessi in prima persona banchetti di propaganda per le elezioni universitarie. In questa ricostruzione, in cui tutte le attività di questi agenti per ben 6 mesi, sarebbero state del tutto casuali, peraltro si omette una circostanza che abbiamo ben spiegato nella nostra inchiesta. Nessuno dei 5 si era presentato negli ambiti di Potere al popolo come poliziotto, anzi tutti avevano costruito una biografia da studente fuori sede, con tanto di condizioni sociali difficili delle rispettive famiglie. Forse avevano costruito tutti una finta
biografia simile tra di loro per puro caso?
A smentire ulteriormente la tesi del governo su una attività investigativa sostanzialmente casuale dei 5 poliziotti nelle fila di Potere al popolo, ci sono anche diverse circostanze accertate dall’inchiesta di Fanpage.it. Innanzitutto, come testimoniato dagli stessi attivisti di Potere al popolo di Napoli, l‘agente infiltrato nel capoluogo partenopeo partecipava assiduamente alle riunione della Rete S.e.t. per il diritto all’abitare. Una partecipazione assidua, sia alle riunioni, dove interveniva spesso, sia alle iniziative pubbliche.
Tutti gli agenti di polizia dell’antiterrorismo, erano poi inseriti nelle chat di Whatsapp e di Telegram dei singoli nuclei di Milano, Bologna e Napoli, entrando quindi all’interno delle discussioni riservate e non solo quelle pubbliche. Non solo, ma con delle email da loro fornite avevano chiesto di essere inseriti anche nelle mailinglist territoriali. Quindi possiamo ancora pensare che i poliziotti dell’antiterrorismo svolgessero una attività casuale incidentalmente rispetto alla loro frequenza dei corsi universitari? Essere presenti nelle chat interne, e quindi avere la possibilità di spiarle, circostanza confermata dal fatto che secondo Prisco gli agenti avrebbero inviato delle informative, alle autorità competenti, è una attività casuale? Partecipare a riunioni fuori dall’ambito universitario, addirittura con un mandato politico, è configurabile come attività casuale? E se le chat in cui gli agenti erano inserite sono state oggetto di informative di polizia, questa attività era stata autorizzata dalla magistratura?
Le contraddizioni di Prisco: “Era una attività informativa”
Mettendo in fila alcuni passaggi del discorso tenuto dal sottosegretario Prisco in aula, le contraddizioni sembrano proprio esplodere. Nella prima parte del suo intervento dice: “le tensioni internazionali connesse ai conflitti in atto hanno determinato l’incremento delle manifestazioni di protesta, con evidenti riflessi sul piano dell’ordine pubblico e un aumento del rischio di possibili derive violente”. “In questo contesto – ha aggiunto – sono maturati livelli crescenti di conflittualità nelle principali città italiane e in alcune sedi universitarie. In considerazione delle dinamiche e dei connessi rischi evidenziati, la Direzioni centrale della polizia di prevenzione della Polizia di Stato ha ritenuto necessario rafforzare gli strumenti informativi per prevenire turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica e la conseguente commissione di condotte criminose”. Prisco quindi ammette che c’era una attività della Direzione centrale della polizia di prevenzione. Subito dopo ci racconta la storia dei poliziotti che “per caso” si sono imbattuti in attività quotidiane di militanza a cui hanno partecipato, compreso le manifestazioni nazionali e le assemblee nazionali, ma, aggiunge Prisco, solo perché si trovavano a frequentare l’università. Insomma prima l’ammissione dell’esistenza di una attività dell’antiterrorismo, poi la storia dei poliziotti che “per caso” per 6 mesi hanno partecipato alle iniziative di Potere al popolo. Ed infine conclude però sul fatto che “nessuna attività di infiltrazione in un partito o in un movimento politico è stata fatta”. Insomma le contraddizioni sono abbastanza evidenti, così come è evidente che al Viminale non hanno guardato con attenzione i materiali che abbiamo pubblicato, dove si documentano le condotte degli agenti infiltrati in maniera precisa e chiara.
Granato (Pap): “La versione del governo offende l’intelligenza
La pezza messa dal governo sembra davvero essere peggiore del buco, e lo scandalo degli infiltrati resta tutto sul tavolo, senza che le spiegazioni del governo siano state credibili e sufficienti. Intanto da una settimana circola sul web e sui social un appello firmato da oltre 1500 tra docenti, artisti ed esponenti della società civile, che chiedono al governo di fare chiarezza e dire la verità sul caso degli infiltrati in Potere al popolo. Tra i firmatari anche il fisico Carlo Rovelli, l’economista Emiliano Brancaccio, Fabrizio Barca del Forum Diseguaglianze Diversità, la scrittrice Porpora Marcasciano, il regista Andrea Segre, l’ex Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, gli europarlamentari Mimmo Lucano e Ilaria Salis, i parlamentari Peppe De Cristofaro e Gianni Cuperlo, Zerocalcare, Vauro e addirittura l’ex parlamentare di Forza Italia, Elio Vito. “Dopo il silenzio e le spiegazioni lasciate trapelare da “fonti qualificate della polizia”, abbiamo la versione ufficiale del Governo” dice a Fanpage.it Giuliano Granato, portavoce nazionale di Potere al popolo. “Devo dire che preferivamo le ricostruzioni che parlavano delle frecce di Cupido che avevano colpito il primo agente smascherato, almeno avevano un che di romantico” commenta. “Qui siamo alla semplice offesa all’intelligenza: hanno sì mandato infiltrati, ma tutto sommato non lo erano per davvero. Erano infiltrati, ma nelle organizzazioni giovanili e studentesche di Potere al Popolo, mica in Potere al Popolo! Partecipavano solo a iniziative pubbliche, ma poi erano a riunioni interne, nelle chat private, nelle mailing-list private, ufficialmente iscritti alla nostra giovanile” sottolinea Granato. “Se perfino Pinocchio alla fine dice la verità, possono farlo pure Meloni, Piantedosi e Mantovano”.
(da Fanpage)
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Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile
DAI MILIONI PER CANNES AI FAVORI SICILIANI
L’indagine che agita i vertici nazionali di Fratelli d’Italia segue una traiettoria precisa:
dalla Costa Azzurra alla Sicilia. La procura di Palermo sta verificando cosa ci sia dietro la pioggia di mancette erogate dal parlamento regionale a una galassia di associazioni e realtà civiche legate a politici della destra isolana.
I pm sono partiti dalla città del cinema, Cannes. Nel 2023 anche Domani aveva svelato dettagli di quell’intreccio che partiva dal pagamento di quasi 6 milioni di euro, a cui vanno aggiunti più di 9 mila euro di rimborsi spese, da parte della Regione per la promozione dell’immagine dell’isola durante il festival del cinema. Un’idea nata durante i governi della destra, con assessori al Turismo di Fratelli d’Italia.
Tra questi l’attuale parlamentare Manlio Messina, fedelissimo della premier Giorgia Meloni e della sorella Arianna: c’è la firma di Messina sulla strategia di marketing da cui, dunque, prende le mosse l’indagine dei pm siciliani che mette al centro, con le accuse di corruzione e peculato, il delfino di Ignazio La Russa, Gaetano Galvagno, presidente dell’Ars e principale indagato dal momento che avrebbe indirizzato i finanziamenti “sospetti” con l’intento di ottenere in cambio utilità di diverso tipo, per sé e per le persone a lui vicine.
«A seguito della divulgazione di alcune notizie di stampa, la Procura Europea (sede di Palermo) ha richiesto a questo Reparto
di effettuare preliminari accertamenti in merito a fondi utilizzati dalla Regione Siciliana ed eventuali violazioni della normativa in materia di appalti pubblici (circostanza menzionata negli articoli stampa)», si legge nell’informativa dei finanzieri.
Da qui «l’esecuzione di una prima tranche di intercettazioni telefoniche» che, continuano i finanzieri, hanno «permesso di raccogliere importanti elementi confermativi delle preliminari ipotesi», ma hanno anche fatto emergere «ulteriori e più gravi condotte che vedono protagonista Sabrina De Capitani Di Vimercate, portavoce di Galvagno», anche lei sotto inchiesta e ritenuta dagli organi inquirenti la «key account della Absolute Blue» e cioè della società lussemburghese a cui l’assessorato al Turismo ha affidato una montagna di quattrini nel corso della kermesse cinematografica. Assessorato da ben due legislature in mano a potenti uomini del partito di Meloni.
«Uomo 6»
Se le indagini svelano tutte le ombre sulla gestione dei fondi dell’Ars da parte del presidente Galvagno e confermano pure il coinvolgimento dell’assessora al Turismo Elvira Amata, pure lei meloniana, da giorni la domanda che rimbalza da una parte all’altra della Sicilia è precisa: c’è un coinvolgimento di Manlio Messina? O meglio: chi è l’Uomo 6 citato nelle intercettazioni che tanto imbarazzano Fratelli d’Italia? Lui esclude che possa essere finito nell’indagine. E neanche dalla procura arrivano conferme sull’identità del misterioso «Uomo 6».
Di riferimenti a Uomo 6 ce ne sono decine nelle conversazioni intercettate tra Galvagno, la sorella Giorgia (non indagata) e Sabrina De Capitani. Di lui si parla soprattutto nelle vicende che vedono protagonista Marianna Amato, dipendente della Fondazione Orchestra Sinfonica Siciliana, ente che dipende dalla Regione.
Amato è anche un’organizzatrice di eventi. Nel 2023 ottiene il via libera da Galvagno per l’organizzazione di una manifestazione in occasione della giornata per la lotta alla violenza sulle donne. A chiedere di avallare la richiesta, nell’interesse della donna, sarebbe stato appunto Uomo 6. Dalle intercettazioni emerge in modo chiaro come il legame tra Galvagno e Uomo 6 sia forte.
Davanti al rischio che la Fondazione Dragotto, il soggetto beneficiario dei fondi per promuovere l’evento, potesse tagliare fuori Amato dall’organizzazione, il presidente dell’Ars va su tutte le furie: «Ma è di Uomo 6, non la può fare fuori, perché io i soldi glieli sto dando, perché me lo ha detto, lei e poi me lo ha detto Uomo 6, quindi non la può fare fuori», dice Galvagno alla sorella.
Un uomo del partito
Uomo 6 è un politico? Nelle intercettazioni gli indizi portano al partito di Meloni. Sabrina De Capitani, mentre rivendica il proprio agire da lobbista, parlando di Uomo 6 sottolinea l’ammirazione provata da Galvagno nei confronti del soggetto misterioso: «Sono un gruppo…quelli di Fratelli d’Italia al contrario di tutti gli altri sono veramente uniti».
Il tema della lealtà di Galvagno nei confronti di Uomo 6 torna spesso e diventa un punto imprescindibile nelle decisioni da prendere per finanziare l’evento del 25 novembre 2023.
Per Marcella Cannariato, la vicepresidente della Fondazione Dragotto coinvolta nelle indagini, Amato e Uomo 6 sarebbero stati legatissimi. Contattata da Domani, non ha voluto rilasciare
commenti. Si è espresso, invece, Messina, il deputato nazionale di Fdi che è stato assessore regionale al Turismo tra il 2019 e il 2022. Per molti quello di Messina – da sempre vicinissimo a Galvagno – è il profilo che più si avvicina a Uomo 6. «Non escludo di aver presentato io Marianna Amato a Galvagno, anche se non la sento da due anni», ha detto il parlamentare al quotidiano La Repubblica, assicurando al contempo di esser convinto di non essere lui Uomo 6.
Il mistero continua, ma anche l’indagine e presto si capirà chi si nasconde dietro il nome in codice.
(da Domani)
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Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile
LE DIFFERENZE TRA “LA TERAPIA DELL’ABBRACCIO” DI PREVOST E “L’ALZHEIMER SPRIITUALE” DI CUI PARLAVA IL PAPA ARGENTINO
“Prudente”, “metodico” e “pronto all’ascolto” sono alcuni degli aggettivi usati dagli addetti ai lavori del Vaticano intervistati dall’AFP per descrivere l’approccio del primo papa americano, che l’8 maggio ha assunto la guida di 1,4 miliardi di cattolici nel mondo.
Leone è stato eletto dai cardinali dopo la morte di Papa Francesco, un riformatore carismatico che ha suscitato devozione in tutto il mondo, ma anche divisioni interne alla Chiesa durante i suoi 12 anni di pontificato. Il suo successore si è mosso con maggiore cautela, enfatizzando la tradizione e l’unità.
Leone è tornato a indossare la tradizionale mozzetta rossa (un mantello corto) e la stola sopra le vesti papali bianche. Si prenderà una pausa estiva dal 6 al 20 luglio nel palazzo papale di Castel Gandolfo, fuori Roma, la residenza di campagna storica per i pontefici che Francesco si è rifiutato di utilizzare.
Secondo una fonte vaticana, Leone XIV dovrebbe anche trasferirsi negli appartamenti papali del Palazzo Apostolico in autunno. Francesco aveva rifiutato il palazzo in favore di un semplice appartamento nella foresteria di Santa Marta.
In materia di politica, Leone ha tenuto numerosi discorsi, ma finora ha evitato di assumere posizioni che potessero offendere e non ha effettuato nomine importanti.
“Il suo stile è semplice… È una presenza che non si impone”, ha detto Roberto Regoli, professore alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. “Con lui, più che guardare alle apparenze, bisogna concentrarsi sui contenuti”.
Charles Mercier, professore di storia contemporanea all’Università di Bordeaux, ha affermato che Leone sembrava desideroso di promuovere l’istituzione piuttosto che se stesso come individuo.
“Francesco aveva un carisma che enfatizzava notevolmente attraverso la sua personalità. Leone sembra volersi integrare in un’istituzione, nell’ufficio papale, che è più di lui”, ha dichiarato Mercier all’AFP.
I dipendenti della Curia che hanno parlato con l’AFP hanno descritto Leone come un uomo “pragmatico”, “impressionantemente calmo”, “misurato e metodico”, “riflessivo” e “attento all’equilibrio”.
Anche coloro che hanno parlato sotto anonimato hanno offerto un’impressione generalmente positiva, a dimostrazione di come in soli due mesi Leone abbia ripreso il dialogo con la Curia.
“La Curia è stata scossa da Papa Francesco, con riforme decise a volte unilateralmente, persino in modo autoritario, e spesso accolte male”, ha dichiarato all’AFP una fonte vaticana in condizione di anonimato.
L’arrivo di Leone – “che ha una buona reputazione”, secondo la fonte – “ha portato un po’ di sollievo”. “Sentiamo che le cose saranno più fluide, meno personali”, hanno aggiunto.
Una frase pronunciata da Leone durante il suo primo incontro con la Curia, il 24 maggio, è rimasta impressa: “I papi vanno e vengono, la Curia rimane”. Questo contrasta nettamente con le critiche mosse da Francesco, che all’inizio del suo pontificato ha accusato la Curia di “Alzheimer spirituale” e di brama di potere.
“È chiaro che siamo in una fase di terapia dell’abbraccio”, ha commentato una fonte diplomatica europea.
Un altro inviato presso la Santa Sede ha aggiunto che Leone stava “perseguendo un approccio unificante, esattamente ciò per cui è stato eletto”.
Francesco è stato anche accusato dai critici di aver messo da parte la dottrina a favore delle questioni sociali, in particolare l’immigrazione, pur non avendo di fatto modificato i principi fondamentali della fede cattolica.
Nonostante avesse criticato la politica migratoria del presidente degli Stati Uniti Donald Trump prima di diventare papa, Leone ha a malapena menzionato l’argomento da quando è entrato in carica, sebbene abbia sottolineato l’importanza della giustizia sociale.
Così come le sue aperture alla Curia sono state ben accolte, il ritorno di Leone ai simboli tradizionali del papato è stato salutato con favore da coloro che nella Chiesa accusavano Francesco di snaturare l’ufficio papale. Mercier ha però osservato che questo non esclude un cambiamento in futuro.
Leone punta a un “riequilibrio simbolico che deriva indubbiamente dal desiderio di unire il gregge cattolico, che ha dato l’impressione di essere polarizzato sotto Francesco”, ha affermato. Ma, ha aggiunto, potrebbe anche essere una strategia “per fornire garanzie simboliche che consentano di continuare a progredire nella sostanza”.
(da AFP)
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Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile
MA GIORGIA MELONI E I SUOI PATRIOTI NON HANNO FATTO I CONTI CON “IL MESSAGGERO”. IL QUOTIDIANO PIÙ LETTO DAI ROMANI, DI PROPRIETÀ DEL VEGLIARDO FRANCESCO GAETANO CALTAGIRONE, È PAPPA E CICCIA CON L’EX MINISTRO DELL’ECONOMIA COME A NAPOLI LO È CON GAETANO MANFREDI
Un grido si spande da via della Scrofa a Colle Oppio: Ripijamose Roma. È il mantra che
si ripetono i Fratelli d’Italia, e anche le sorelle.
Negli ultimi giorni non si fa che parlare della possibilità che Arianna Meloni possa essere la candidata per il Campidoglio (si vota nel 2027).
È un chiodo fisso per la Ducetta, romana de’ Roma e ossessionata dalla Capitale, che ai suoi occhi richiama l’impero (su TikTok, gira ancora molto un vecchio video della premier che urla “La capitale d’Italia è Roma, e vi dico di più, dovrebbe essere la Capitale dell’Unione europea, è il posto che rappresenta al meglio la sua identità millenaria”)
La campagna elettorale per Roma è dunque già cominciata, e le truppe sono state sguinzagliate e i più proni sono già a disposizione.
Ecco che risponde subito all’appello quel falco di Mario Sechi. Il direttore di “Libero” ha vergato oggi un editoriale al veleno contro Gualtieri, un “bizzarro personaggio che indossa un caschetto da operaio e inaugura cantieri vantandosi dell’apertura di questo palazzo e del restauro di quel monumento, di quella piazza e di quel giardino.
Tutti lo guardano come il “marziano a Roma” di Ennio Flaiano, perché il tipo è lui, proprio lui, Roberto Gualtieri, il sindaco della Capitale, quella sagoma che per due anni la “vox populi” credeva fosse un fantasma”.
Poi l’affondo finale: “Nella gestione quotidiana, la Città è Eterna nell’essere un colabrodo (traffico, nettezza urbana, ordine pubblico, burocrazia sono a livelli inimmaginabili per un cittadino di Milano), ma Gualtieri gode di un immeritato momento positivo.
Le elezioni comunali sono più vicine di quanto s’immagini, il centrodestra dovrà trovare non solo un ottimo candidato, ma anche un efficace racconto della verità: il vero sindaco di Roma non è il Gualtieri tiktoker, è a Palazzo Chigi e si chiama Giorgia Meloni.”
La strada per marciare su Roma è dunque spianata? Mica tanto: la Fiamma magica delle Meloni sister non ha fatto i conti con “il Messaggero”. Il quotidiano più letto dai romani, infatti, è un fervido sostenitore di Roberto Gualtieri e delle sue scenette su TikTok.
Come potrebbe essere altrimenti: l’attivismo “inauguratorio” del primo cittadino è una manna per gli affari non editoriali di “Calta”. Per esempio, l’intensità dei lavori per le nuove fermate della metro C: tra le controllate del palazzinaro, c’è anche una società a cui è stata appaltata la costruzione dei nuovi tunnel (e per lo stesso motivo, Caltagirone è contrarissimo alla tramvia).
Un’altra brutta notizia per Fratelli d’Italia riguarda Napoli: anche “il Mattino”, principale quotidiano della città partenopea, è pappa e ciccia con il sindaco, Gaetano Manfredi, sostenuto dal centrosinistra. E chi è il proprietario del “Mattino”? Ma sempre lui, il riccone preferito da Fazzolari e Meloni…
(da Dagoreport)
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Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile
“L’INFINITO PIAGNISTEO SULLA EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA NASCONDE UN VUOTO DI IDEE E DI CORAGGIO INTELLETTUALE. CI SONO ECCEZIONI? POCHISSIME. UNA È GIORDANO BRUNO GUERRI, STORICO DI VAGLIA, INFATTI QUANDO C’È STATO DA ASSEGNARE IL MINISTERO DELLA CULTURA, MELONI LO HA DATO A GENNARO SANGIULIANO”
Nell’infinito piagnisteo della destra italiana sull’egemonia culturale della sinistra c’è un fatto che mi ha sempre colpito più degli altri.
L’assenza di idee e di coraggio intellettuale, ovvero la cortigianeria dei pensatori, o sedicenti tali, di area. Piangono per il presunto sopruso, e questa è la parte distruttiva, ma quando si tratta di dire come costruire una egemonia alternativa, sanno solo tornare a frignare, al massimo si limitano a magnificare le qualità della propria parte e dei propri leader.
Provate a chiedere un giudizio su Meloni a uno di questi professionisti del lamento, ascolterete una risposta simile a quella che Alberto Sordi dava al generale che lo interrogava
sulla sbobba servita ai soldati: com’è il rancio, soldato? Ottimo e abbondante. In questa corrività c’è una parte notevole dell’inconsistenza del pensiero di destra, mentre la funzione dell’intellettualità dovrebbe essere quella di cogliere le contraddizioni del proprio campo prima ancora di quelle del campo avverso. A sinistra, peraltro, è successo fin troppo, talvolta in forma di autolesionismo. Ma l’egemonia culturale – questo la destra italiana nel suo delirio vittimista non l’ha davvero mai capito – non si costruisce con le fanfare e gli applausi. L’egemonia è figlia di una guerra civile, fratricida.
Nanni Moretti è salito sul palco di una manifestazione del centrosinistra a piazza Navona e ha pronunciato la famosa frase che diede il via alla stagione dei Girotondi: “Mi spiace dirlo, ma noi con questi dirigenti non vinceremo mai”. Aveva ragione? Forse no, a quella classe dirigente sono legati i pochi successi elettorali della sinistra nella Seconda Repubblica, però il suo grido smosse e i motivi della sua insoddisfazione aprirono un dibattito fecondo su cosa funzionava e cosa no.
Ce lo vedete un regista di destra, a trovarlo, che fa lo stesso davanti a Meloni e Lollobrigida? Avete mai ascoltato un giornalista di area, in questo caso c’è la fila dei nuovi arrivati, avanzare un dubbio su Meloni? Ha sempre ragione. La sinistra sempre torto, contro ogni legge dei grandi numeri. Ci sono eccezioni? Pochissime. Una è Giordano Bruno Guerri, storico di vaglia, infatti quando c’è stato da assegnare il ministero della Cultura, Meloni lo ha dato a Gennaro Sangiuliano.
Ora, prevengo una facile obiezione. Pasolini, Sciascia, Eco non ci sono più e non se ne vedono i successori, da una parte e figuriamoci dall’altra. Ma questo non toglie nulla alla questione
di fondo. Il rapporto che la destra immagina con la cultura è quello del sostegno acritico: l’Istituto luce. Infatti i pochi e incerti tentativi di dire la propria in campo artistico sono paragonabili a una sessione di attacchinaggio, per chi ancora sa cosa fosse.
Qualche anno fa Renzo Martinelli girò un film su Federico Barbarossa, pellicola che voleva essere il Braveheart leghista. Aveva la credibilità di quelle fiction di Stato “governative” prese di mira in Boris, dove al Machiavelli alle prese con gli intrighi del suo tempo si mettevano in bocca esclamazioni tipo: “Serve la separazione delle carriere!”.
(da Repubblica)
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Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile
PREZZI DEL PETROLIO IN DISCESA, INFLAZIONE AL 10%. TASSI ALTI E SPESA PUBBLICA PROSCIUGATA DAL CONFLITTO: IL MODELLO E’ FALLITO
Può sembrare un paradosso, ma l’ultima cattiva notizia per l’economia russa rischia di
portare la firma anche di Mosca. Oggi i maggiori paesi produttori di petrolio riuniti nell’Opec+ vareranno un nuovo aumento della produzione di greggio, anche superiore a quello deciso e ribadito negli ultimi mesi. Arabia
Saudita, Russia, Emirati Arabi, Kuwait, Oman, Iraq, Kazakistan e Algeria hanno infatti raggiunto, un’intesa di massima per aprire ulteriormente i rubinetti dell’estrazione di 548 mila barili al giorno a partire da agosto. Una decisione a sorpresa, quando la maggior parte degli osservatori si attendeva un aumento di 400 mila barili, in linea con gli incrementi decisi nei mesi precedenti.
Per i paesi del cartello è una mossa per riguadagnare quote di mercato: più offerta si traduce in prezzi più bassi tagliando fuori
i paesi con costi di estrazione più alti. Un azzardo in un contesto internazionale in cui il rallentamento dell’economia mondiale lascia pensare ad un calo della domanda, con il rischio che l’eccesso di offerta spinga ulteriormente al ribasso i prezzi.
Brutte se non pessime notizie per la Russia, la cui economia di guerra – spiega il Wall Street Journal –comincia a mostrare però le prime crepe. L’attività manifatturiera è in calo, l’inflazione è ancora sulla soglia della doppia cifra, i consumatori continuano e ridurre le spese e il bilancio statale è sempre più sotto pressione.
La fine di un modello
“Il modello di crescita basato esclusivamente sulla spesa militare è fallito», ha dichiarato Janis Kluge, esperto di economia russa presso l’Istituto tedesco per gli Affari Internazionali e di Sicurezza, citato dal Wsj. “Le capacità del settore civile devono ridursi, liberando lavoratori affinché la macchina bellica possa continuare a crescere. Ma non è sostenibile”. Il ministro dell’Economia russo Maxim Reshetnikov ha avvertito invece il mese scorso che la Russia “è sull’orlo della recessione”, mentre il ministro delle Finanze Anton Siluanov ha definito la situazione una “tempesta perfetta”.
L’economia rallenta
Gli indicatori macroeconomici confermano questi segnali. Nel primo trimestre dell’anno il Pil russo è cresciuto dell’1,4% rispetto all’anno precedente, in calo del 4,5% rispetto quarto trimestre 2024. Il pmi manifatturiero, l’indice dei direttori degli acquisti delle aziende considerato il “termometro” più aggiornato sullo stato di salute delle imprese manifatturiere, a giugno ha registrato un preoccupante 47,5, il dato più basso d
tre anni a questa parte e sotto la soglia dei 50 punti, che separa le fasi di contrazione da quelle di espansione dell’attività produttiva.
La guerra non paga più come prima
Il maxi investimento sulla guerra sembra quindi non pagare più come prima. La spesa militare oggi viaggia intorno al 6% del Pil, il doppio degli Stati Uniti e il più alto dai tempi dell’Unione Sovietica. Le spese per la difesa e la sicurezza – ricorda sempre il Wall Street Journal – rappresentano circa il 40% della spesa pubblica totale russa di quest’anno.
La corsa dei prezzi
Ma proprio l’impennata della spesa militare ha spinto l’inflazione al rialzo, costringendo la banca centrale a tenere alti i tassi per contenere la fiammata dei prezzi, a maggio scesi per la prima volta, dal 21 al 20%. Tassi più alti che ovviamente limitano le possibilità di credito per imprese e famiglie, a danno della crescita economia del Paese.
Campanelli di allarme registrati anche dalle principali banche del Paese che negli ultimi mesi hanno visto crescere la quota di Npl, cioè crediti deteriorati difficilmente esigibili, con VTB, il secondo maggior istituto di credito del Paese e controllato dallo Stato, ha registrato un tasso di crediti deteriorati nel segmento retail del 5% a maggio 2025, in aumento rispetto al 3,8% della fine del 2024. Numeri che non spaventano però la banca centrale russa, che si è affrettata a rassicurare che i rischi di insolvenza sono ampiamente coperti dal buffer di capitale delle banche.
Il rischio del petrolio low cost
Ma la macchina da guerra russa, pur super sanzionata, si è alimentata negli anni grazie alla consistente vendita di petrolio, pur già venduto a sconto rispetto ai prezzi delle quotazioni internazionali. Ora la discesa dei prezzi “guidata” dal cartello dei produttori porterebbe aggiungere ulteriori elementi di incertezza. Un report recente della banca centrale finlandese mostra come Mosca ha fissato nelle proprie previsioni di budget un prezzo del petrolio a 70 dollari al barile. Se i prezzi scendessero ancora il disavanzo pubblico potrebbe crescere ulteriormente. Nel dettaglio, secondo lo studio, se il prezzo medio di esportazione del petrolio greggio russo fosse di 55 dollari al barile nel 2025 e di 54 dollari nel 2026, invece dei 70 e 60 dollari previsti rispettivamente dal quadro di bilancio, il PIl russo perderebbe un punto ciascun anno. Non poco per un economia già in frenata.
(da agenzie)
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Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile
LA RELATRICE ONU PER I DIRITTI UMANI NEI TERRITORI PALESTINESI: “QUELLA DI ISRAELE E’ DA ANNI UNA ECONOMIA DELL’OCCUPAZIONE E DEL SUO PROGETTO DI COLONIZZAZIONE”
La relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi, Francesca Albanese, ha consegnato il suo ultimo rapporto. Un documento immediatamente attaccato dall’amministrazione di Donald Trump che ne ha chiesto addirittura la rimozione. La giurista italiana si è concentrata
sulle aziende private di tutto il mondo che stanno guadagnando milioni grazie al genocidio a Gaza e alle politiche di occupazione portate avanti dal governo Netanyahu in Cisgiordania, con la distruzione dei villaggi palestinesi e l’allargamento delle colonie illegali.
Un rapporto, quello della Albanese, che descrive una vera e propria economia globale legata all’occupazione dei territori palestinesi e al mantenimento dell’offensiva militare a Gaza. Produttori di armi, produttori di aerei e droni, ma anche aziende che sviluppano tecnologie, università che prestano i loro cervelli per la ricerca e l’innovazione bellica, ma anche aziende di bulldozer, ruspe e gru, strumenti sempre presenti nelle politiche di occupazione. In questa intervista abbiamo provato a delineare i contorni del rapporto che per la prima volta non mette nel mirino solo le oggettive responsabilità degli Stati, ma anche quelle delle aziende private che stanno beneficiando della tragedia che si sta consumando a Gaza ed in Cisgiordania.
Tracciamo i contorni del suo rapporto, di questo lungo lavoro che ha ultimato.
“Il mio rapporto racconta di una realtà che sarebbe dovuta essere messa in luce già anni fa, cioè che Israele nel tempo, in quello che rimane dei territori palestinesi occupati, ha creato una vera e propria economia dell’occupazione, come parte integrante del suo progetto di colonizzazione. Il disegno è quello di cancellare i territori palestinesi, scacciare questi dalle loro terre, rimpiazzandoli con i coloni, e per fare questo hanno utilizzato tre settori. Il primo è quello della distruzione, cioè le armi, gli strumenti prodotti dalle imprese civili per abbattere le case palestinesi, ma anche l’acquisto massiccio di cancelli, muri,
blocchi di cemento e ferro, tutto quello che serve per spostare e innalzare confini, che riguarda tutti materiali che sono dual use, sia civile che militare. Il secondo settore è quello della costruzione, cioè una volta distrutte le case dei palestinesi bisogna costruire quelle per i coloni, ma anche creando un tessuto protetto di produzione di beni e servizi, fatto tutto dai coloni. Basti pensare che i prodotti al dettaglio lavorati nelle colonie costano meno degli altri, perché ad esempio non pagano l’energia. In questo settore ci inserirei anche l’economia legata al turismo internazionale, che fa appunto parte dei progetti di ricostruzione dei territori una volta cacciati via i palestinesi. Il terzo settore è quello dei facilitatori, le banche principalmente, i fondi pensione e anche le università. Questa è l’economia dell’occupazione, che è criminale in sé per sé”.
Da dove vengono le aziende che hanno fatto affari in questa economia dell’occupazione?
“Innanzitutto le imprese coinvolte non solo non si sono sottratte all’uso delle loro produzioni, che sono finalizzate all’occupazione dei territori palestinesi, così come avrebbero dovuto fare ai sensi del diritto internazionale, ma hanno invece implementato le produzioni. Hanno avuto un ruolo nella guerra genocidaria a Gaza, ad esempio. Tra le aziende che ho investigato il 20% sono statunitensi, invece una percentuale che va tra il 20% ed il 30% sono europee”.
Tra quelle italiane quali possiamo citare?
“La Leonardo gioca un ruolo fondamentale. Nella produzione di armi, nella consulenza tecnica, nello sviluppo di nuove tecnologie sempre votate ad avere un ulteriore “successo” bellico. La Leonardo contribuisce sia in modo diretto che in
modo indiretto, infatti è anche un luogo di transito grazie ai partenariati con le università. Ci sono tanti investimenti su questo tipo di economia grazie alla Leonardo, che a sua volta fornisce proprio il know how sulla parte di armamenti e su quella per le tecnologie. Ci sono anche altre aziende italiane e piano piano le sveleremo”.
Ci sono anche aziende che producono mezzi e strumenti per le costruzioni e le demolizioni, quali sono?
“Possiamo citare la Volvo e la Hyundai ad esempio. I loro mezzi vengono utilizzati per la demolizione dei villaggi palestinesi e anche per la costruzione e l’allargamento delle colonie. Anche loro partecipano in maniera importante all’economia dell’occupazione e ne hanno tratto grandi profitti”.
In questo quadro di interessi del settore privato esiste anche una responsabilità degli Stati?
“Gli Stati sono responsabili prima di tutti, perché sono loro ad avere gli obblighi di riconoscere le sanzioni nei confronti di Israele. Avrebbero già dovuto tagliare tutti gli accordi commerciali e soprattutto il trasferimento e la vendita di armi di sorveglianza. Avrebbero dovuto già prendere misure, invece sono lì, come il governo italiano, a storcersi le vesti chiedendosi se devono riconsiderare l’accordo di partenariato militare con Israele. Certo che lo devono assolutamente sospendere. Non capisco questo doppio standard quando si parla di Israele, o meglio lo capisco e mi dà ancora più fastidio perché è proprio ideologico e razzista. C’è un doppiopesismo quando si parla della Russia o della Siria e quando si parla di Israele, che commette crimini gravissimi e lo si giustifica sempre. Gli Stati sono responsabili in quanto violano il diritto internazionale
fomentano l’impresa di Israele, e sono responsabili anche di ciò che fanno le imprese, perché dovrebbero impedirglielo. Le imprese ora devono cominciare a pagare in prima persona, deve esserci un momento di svolta”.
Tra i soggetti interessati all’economia dell’occupazione ci sono anche le università…
“Ce ne sono anche molte tra quelle italiane, le renderemo pubbliche dopo aver fatto le procedure di messa in mora. Hanno delle responsabilità attraverso gli accordi di partenariato, anche con le università israeliane che hanno un ruolo nelle politiche di apartheid nei confronti dei palestinesi. Sono le stesse università che non hanno detto nulla mentre Israele distruggeva 11 università a Gaza, oltre a tutto il settore educativo, alle scuole. Hanno invece represso chi si è esposto ed espresso solidarietà con i palestinesi. E poi hanno un ruolo nello sviluppo della tecnologia militare, dei servizi di sorveglianza, ma anche sulle ricerche sull’acqua ad esempio. Tutte le università italiane, e poi saremo più dettagliati in futuro, quando tutti gli iter saranno completati, che hanno accordi con le università israeliane che partecipano alle politiche di occupazione, sono complici”.
Ha sentito gli attacchi di Trump al suo rapporto, cosa si sente di dire?
“Niente. Continuerò semplicemente a fare il mio lavoro”.
(da Fanpage)
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