PD, LA MINORANZA PSEUDO-RIBELLE MUGUGNA MA SI ARRENDE
I BERSANIANI IRRITATI DALLA SCELTA DI CHIUDERE IL DIBATTITO, PERà’ CEDONO: “CERTO CHE VOTIAMO, ALTRIMENTI ARRIVA IL SOCCORSO DI FORZA ITALIA”
“Ho detto partito, mi è caduto il microfono”. Matteo Renzi a Quinta Colonna la butta lì così la battuta che dice chiaramente come la pensa sul Pd.
Un Pd che ancora una volta si appresta ad umiliare.
“La fiducia? Certo che la votiamo”. Miguel Gotor, senatore bersaniano, non ha un attimo di esitazione. E spiega: “Al Senato abbiamo una maggioranza soltanto di 7-8 senatori”.
Però, ci tiene ad aggiungere, “si tratta di una manifestazione di debolezza di Renzi. Se la mette è solo perchè altrimenti sarebbe costretto a dimostrare all’opinione pubblica di aver bisogno del soccorso azzurro per governare”.
Per non far cadere il governo, i bersanian-dalemian-cuperliani diranno sì a una delega praticamente in bianco, che non contiene neanche l’estensione dell’articolo 18 per i licenziamenti disciplinari (ovvero, la mediazione ottenuta in direzione).
I dissidenti, civatiani e dintorni (una decina in tutto, capeggiati da Mineo, Tocci, Ricchiuti e Casson), usciranno dall’Aula.
Dopo settimane di dichiarazioni, interviste, annunci di guerra, minacce e alla fine pure appelli e preghiere (di non metterla, la fiducia, di recepire gli emendamenti, di permettere almeno una discussione) il Pd non renziano si prepara a piegarsi ancora una volta alla volontà del presidente del Consiglio.
Il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza, è lapidario: “Siamo un partito serio”. Per tutti, così parla Alfredo D’Attorre, uno dei deputati che in direzione ha detto no: “Sarebbe giusto consentire un confronto di merito al Senato ma prevarrà la responsabilità di non far cadere il governo”.
Nel nome della “responsabilità ”, insomma, il Pd è pronto ad arrendersi.
D’altra parte, non c’è da stupirsi: in direzione, pure se il segretario aveva dei numeri schiaccianti, si è guadagnato il via libera dall’85 per cento dei votanti. Ben di più dei renziani presenti. Evidentemente, funziona il metodo-Matteo, che si può tradurre più o meno così: “O si fa come dico io, o cade il governo e si va a votare.
Le liste le facciamo noi e chi non è con noi è fuori”. E, poi, in fondo, se è per stare al merito, il Pd ha votato anche la riforma Fornero, quella che ha dato il primo colpo, quasi decisivo all’articolo 18.
Sempre per senso di “responsabilità ”, quello che aveva dato il via al governo Monti, dopo la caduta di Berlusconi.
“La situazione è sconsolante, da tutti i punti di vista. Sono giorni e giorni che ci raccontiamo che si sta lavorando a una mediazione: ma di quale mediazione parliamo? Qui si discute per finta”, commenta un Democratico a microfoni spenti. Una verità evidentemente troppo dura per poterla esprimere a viso aperto, mentre si decide di dare comunque il voto al governo.
Le dichiarazioni ufficiali, dunque, preferiscono richiamare i massimi sistemi o cercare di smuovere il segretario-premier con le buone.
Ecco Gianni Cuperlo: “Faccio un appello al governo e al presidente del Consiglio perchè si eviti il voto di fiducia su una materia delicata e complessa”.
Ma poi: “La parola scissione non la voglio neanche sentire”.
Ecco Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro a Montecitorio: “Insisto nel chiedere al governo di non mettere la fiducia al Senato. Questa scelta sarebbe grave perchè priverebbe il Parlamento della sua sede naturale di confronto. Lo stesso Governo che ha deciso di aprire un tavolo di confronto con le parti sociali, è quello che nega il confronto al Senato ed alla Camera? Sarebbe fortemente schizofrenico, a meno che il confronto nella Sala Verde sia soltanto una tantum dal sapore propagandistico”.
Lascia un margine di dubbio Ugo Sposetti: “Leggiamo prima l’emendamento e poi mi pronuncerò”.
Il più battagliero è il deputato Stefano Fassina: “Le conseguenze politiche della fiducia sul jobs act sono molto gravi innanzi tutto per il Parlamento. Il governo lo costringe a dargli una delega in bianco, è un problema istituzionale molto grave che merita l’attenzione del Presidente della Repubblica”.
Insomma, a Palazzo Madama tutto dovrebbe filare liscio, con qualche incognita di prassi.
Due o tre “No”, tanto per non perdere del tutto la faccia, potrebbero arrivare.
E poi, magari alla Camera, qualcuno alla fine si opporrà .
Confidando nel fatto che il suo voto è determinante.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
Leave a Reply