PER LA SINISTRA IL SOLCO SI ALLARGA
“ORMAI SIAMO DUE MONDI DIVERSI”
La paura dei franchi tiratori, la necessità di un’approvazione in tempi rapidi.
«Non possiamo sbrodolare», dice Matteo Renzi nel consiglio dei ministri chiedendo l’autorizzazione a usare la fiducia sul Jobs Act in Senato.
«Ma soprattutto – spiega il premier – il mio obiettivo è dare un senso unitario alla riforma, senza troppi strappi. Con i voti segreti e la battaglia sugli emendamenti questo obiettivo non sarebbe possibile. È un messaggio fondamentale non solo per l’Europa. Gli italiani devono capire dove vogliamo andare».
È un rischio, certo. Non per la tenuta del governo visto che i senatori dissidenti (tranne 4 o 5 casi) rientreranno nei ranghi e non faranno cadere il governo.
Ma perchè rimane il solco con la sinistra su un tema sensibilissimo come l’articolo 18.
L’incontro con i sindacati nella sala Verde di Palazzo Chigi, il suo esito finale, condizionerà le scelte della minoranza del Pd.
Così come il nuovo emendamento che sta scrivendo Giuliano Poletti per recepire le correzioni indicate dal Partito democratico nella sua direzione.
Acqua fresca, ribattono alcuni oppositori prima ancora di conoscere il testo governativo. Quella che si vede oggi è dunque la continuazione di un dialogo tra sordi.
Entrambi i fronti sembrano decisi ad aggravare la frattura.
Spingere Renzi a destra nell’immaginario collettivo, insistere nei paragoni con Margaret Tatcher, accusarlo di cedere ai «ricatti di Sacconi» mettendo la fiducia sulla legge delega, come fa il senatore bersaniano Miguel Gotor, ha un significato politico che va oltre il Jobs Act.
Significa liberare e marcare un territorio politico diverso, quello della sinistra, e se non è questa la premessa di una scissione poco ci manca.
Qualcuno nei giorni scorsi ha sentito pronunciare allo storico tesoriere dei Ds Ugo Sposetti due paroline tedesche: “Die Linke». È il partito fondato in Germania da Oskar Lafontaine in contrapposizione con il socialismo “di centro” di Schroeder, del quale rimane nella storia la riforma del lavoro, appunto. Linke vuole dire sinistra e ancora oggi il movimento ha il 7 per cento dei voti (Europee 2014).
A Sposetti chiedono tutti giorni “ma allora ve ne andate?” perchè il tesoriere è notoriamente seduto, come Paperone, su un patrimonio (immobiliare) di circa 2 miliardi di euro.
I soldi della Quercia vengono visti come una precondizione della nascita di nuovo soggetto politico.
Sposetti risponde a tutti: «Dove andiamo? Siamo quattro gatti».
Pippo Civati però ha già imboccato una strada diversa. «Semmai è il Pd di Renzi ad aver cambiato la natura del Pd. Non c’è più niente di democratico nel partito. E mi chiedo: come si fa stare in un gruppo di cui non si condivide nemmeno l’atteggiamento, non solo le leggi?».
È la domanda finale prima dell’uscita.
L’ex sfidante delle primarie spiega che lui «nel Pd crede ciecamente», che ne ha fatto «una ragione di vita » da quando è in politica.
Tuttavia il disagio è tanto, «la situazione deprimente» e il voto di fiducia avviene «sul nulla perchè dentro l’emendamento non ci saranno nemmeno le cose approvate in direzione».
I suoi 6 senatori sono i principali “indiziati” dello strappo, domani in Senato. Usciranno dall’aula per non votare contro il governo. Ma non diranno “sì”.
Stefano Fassina spinge anche gli altri dissidenti a ribellarsi, senza curarsi delle conseguenze del governo.
«Questa riforma del lavoro parla a un altro mondo che non è il nostro».
Due mondi diversi, quindi. Due pianeti lontani.
«Abbiamo la pistola alla tempia, che dobbiamo fare? », osserva Federico Fornaro, uno dei firmatari degli emendamenti in difesa dell’articolo 18. Fassina e Civati la fanno troppo facile perchè stanno alla Camera. Se pure votassero contro l’esecutivo non se ne accorgerebbe nessuno. A Palazzo Madama invece bastano 7 voti per mandare a casa Renzi.
«Voterò la fiducia – dice rassegnato Gotor – ma è un segno di debolezza di Renzi. Non ascolta il suo partito e subisce il diktat di Sacconi».
Questo è il Pd alla vigilia del voto sul lavoro, che è la radice della sinistra.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
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