RENZI FA PURE IL BUTTAFUORI: “JOBS ACT O NON VI RICANDIDO”
IN GITA NEGLI USA, IL MOLESTATORE SERIALE ORA MINACCIA PURE I DISSIDENTI DEL SUO PARTITO
“Il Partito democratico non caccia nessuno. Diciamo che chi dovesse dire no alla riforma del lavoro risponderà davanti agli elettori di non voler bene alla ditta”.
Così ragionano gli uomini del premier (e il vocabolo scelto per indicare il Pd non è puramente casuale, a proposito di appropriazioni) mentre le minoranze sono sul piede di guerra.
Fanno riunioni su riunioni, presentano emendamenti alla legge delega sul lavoro, chiedono incontri, provano a mettere i puntini sulle i.
In testa Bersani, che affonda: “Renzi governa con il mio 25%: mi va bene, non chiedo riconoscenza, ma rispetto”.
Renzi e i suoi, però, tirano diritti. Fino alla minaccia finale: “Mettiamo che ci fosse un numero tale di no da mettere in discussione il governo. Mettiamo che si arrivasse a far cadere la legislatura: chi ne è responsabile certo non può pensare di essere ripresentato”.
Con le liste bloccate previste dall’Italicum, certo. Ma con il proporzionalissimo Consultellum in vigore?
“Le liste vanno votate dalla Direzione”, chiarisce un renziano. E in direzione — manco a dirlo — il segretario-premier ha la maggioranza assoluta. Per ora le quotazioni di una rottura finale vengono date al 10-12%.
Un margine di rischio evidentemente c’è. Il voto in Senato è stato spostato alla settimana prossima (dopo la direzione prevista per lunedì).
Le larghe intese con Berlusconi o la fine della legislatura le minacce di Renzi più o meno velate sul piatto, nel caso che la legge delega dovesse passare grazie ai voti determinanti di Forza Italia.
Intanto, c’è una settimana di trattativa.
La giornata di ieri era iniziata con un’assemblea dei senatori del Pd, con il ministro del Lavoro Poletti e il responsabile economico del partito, Taddei.
Segnali di apertura (condizionata e poco chiara) dal governo. Sulla possibilità di reintegra per un lavoratore licenziato per motivi illegittimi “ci sono soluzioni aperte”, dice Poletti.
Il gruppo non vota. La giornata è lunga.
Alle 12 alla Camera si riuniscono i capi delle sotto-correnti del partito. Ovvero leader (o aspiranti tali) delle minoranze che marciano “divise e invise” (copyright di un renzianissimo).
Ci sono Pippo Civati, poi Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre per Area Riformista (non a caso non c’è il capogruppo, Speranza, che a rompere con Renzi non ci pensa neanche).
C’è Gianni Cuperlo (che ha fondato Sinistra Dem). E poi Rosy Bindi, Francesco Boccia (ex lettiano), Franco Monaco (prodiano).
Insieme nel nome dell’anti-renzismo. Sull’articolo 18 si consuma la battaglia finale: da una parte la sinistra del partito gioca la sua ultima battaglia riconoscibile; dall’altra Renzi ci tiene, da una parte, ad offrire a Europa e imprenditori stranieri la sua eliminazione, dall’altra ha un gusto particolare ad asfaltare anche questo simbolo.
Parla la Serracchiani: “Per come conosco io Renzi credo non accetterà diritti di veto da parte di nessuno. Nel metodo la ‘ditta’ ha le sue regole che funzionano allo stesso modo, indipendentemente da chi è in maggioranza: quando eravamo minoranza, le abbiamo accettate”. Dalla riunione della mattina arriva l’indicazione per 7 emendamenti, firmati da circa 40 senatori. Ci sono bersaniani, ma anche civiatiani i “dissidenti” della riforma del Senato, da Chiti, a Mineo, da Tocci e Mucchetti .
Il più importante, quello che chiede l’articolo 18 dopo tre anni di assunzione.
Cruciale la richiesta che arrivino prima le misure per rinforzare gli ammortizzatori sociali e rendere efficienti i centri per l’impiego.
Ma i 40 firmatari sono pronti a tradursi in 40 voti contrari? Difficile dirlo, anche se per mandare sotto il governo (senza il soccorso azzurro) ne servono molti meno (la maggioranza dispone di circa 12 voti di vantaggio).
Il governo pensa a una mediazione. Per ora, il punto di caduta possibile potrebbe essere quello di rendere possibile il reintegro dopo 10 anni di assunzione. Un po’ poco.
Magari col passar dei giorni l’asticella scenderà .
Mentre i renziani continuano a mandare segnali di fuoco, Fassina e D’Attorre hanno chiesto una riunione col premier prima della direzione. Poi, ieri sera, a Montecitorio, l’Assemblea di Area riformista: un centinaio di parlamentari, big compresi.
Anche chi c’era parla di “tanta buona volontà , ma nessun guizzo”.
E nessuna strategia su come gestire lo scontro con Renzi. Aveva detto Bersani: “Leggo che starei lavorando per chissà quale piano. A Renzi e agli altri dico, state sereni, ma veramente”.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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