SENTIERO STRETTO: ZINGARETTI PROVA A VERIFICARE LA POSSIBILITA’ DI UN GOVERNO DI AMPIO RESPIRO CON IL M5S, MA PER ORA NON CI SONO I PRESUPPOSTI
IL M5S DOVREBBE FARE AUTOCRITICA E CAMBIARE ROTTA, COME PUO’ PENSARE DI FARE UN ACCORDO SOLO SU UN TEMA IRRILEVANTE COME LA RIDUZIONE DEI PARLAMENTARI… GLI ACCORDI SI FANNO SU UN PROGRAMMA E CAMBIANDO LA CLASSE DIRIGENTE FALLIMENTARE
C’è un salto di qualità nella crisi. Perchè l’iniziativa di Matteo Renzi ha prodotto il suo primo, devastante effetto, nel momento più difficile, proprio adesso che si spalancano i rischi di una “minaccia democratica”, con la prospettiva di una radicale svolta a destra nelle urne.
L’effetto è una spaccatura nel Pd, sostanziale anche se non ancora certificata da una scissione formale. E la “risurrezione” del centrodestra, unito.
Una massa d’urto che, da sola, stando ai sondaggi e ai voti veri, ha “potenzialmente” la maggioranza assoluta nel paese, in grado di eleggere presidente del Consiglio, Capo dello Stato quando sarà e cambiare pelle alla Corte costituzionale.
“Potenzialmente”, soprattutto se qualcuno a sinistra si diletta a indebolire il suo campo più che a preparare una battaglia che assomiglia un “nuovo 1948”: l’Europa contro la Russia, la democrazia contro il populismo, l’Italia tranquilla contro l’Italia della paura.
Ecco la novità , che si è manifestata alla riunione dei capigruppo al Senato. E che domani trasformerà l’Aula in un inferno.
Perchè il “patto” tra Salvini e Berlusconi è stato già siglato, suggellato dall’intervista del ministro dell’Interno all’ house organ di famiglia, il Giornale, e l’incontro tra i due previsto per domani.
Il “patto” prevede questo: in cambio di un aiuto da parte di Forza Italia nell’accelerazione parlamentare, Salvini, almeno così ha garantito, accetta un’alleanza, i cui termini sono in via di definizione.
Ma la clausola principale è stata già siglata: Silvio Berlusconi non si ricandiderà in Italia, mantenendo un ruolo defilato in campagna elettorale. Detta in modo tranchant: si toglie dal ruolo di bersaglio, per consentire a Salvini di sterilizzare la narrazione di “Matteo che è tornato nell’ovile del Caimano”.
E garantisce liste addomesticate, senza disturbatori del salvinismo, che pure abitano il suo partito. Per capire l’aria che tira, nell’euforia del momento, alcuni big già si stanno dilettando a immaginare una nuova lista di ministri.
Mentre dall’altro lato Renzi e la Boschi, telefonano ai parlamentari di Forza Italia per raccattare qualcuno da portare nel suo partitino personale.
È, dicevamo, una novità politica che crea una massa d’urto parlamentare. E che prefigura uno scenario destinato a pesare su tutta la discussione di un eventuale nuovo governo.
Il punto è questo: può un “accrocchio” di Palazzo, chiamatelo come volete — governo di transizione, di scopo o ricorrendo a tutte le formule della fantasia politica italiana – reggere di fronte a una spinta del genere che c’è nel Paese o rischia di amplificarla?
C’è poco da fare, e al Nazareno hanno tutta la consapevolezza della gravità del momento: comunque si configuri sarebbe presentato come il “governo del ribaltone”, “abusivo”, nato per impedire che il popolo eserciti la sua sovranità .
Con l’effetto non secondario che, per evitare che Salvini elegga il prossimo presidente della Repubblica, si assista allo spettacolo delle ruspe sotto questo Quirinale con l’accusa di un “golpe”.
Oggettivamente non può reggere un governo degli sconfitti, all’opposizione del paese fuori, tra quelli che urlavano al “partito di Bibbiano” i “complici” della più grande svolta a destra della storia della Repubblica, che solo una settimana fa hanno votato il decreto sicurezza bis, favorendo la violazione dei più elementari principi di accoglienza.
Il rischio è questo, che quelli attorno a Zingaretti hanno ben presente. E lo sa bene Matteo Renzi, il gioco cinico e spericolato è chiaro, frutto di un narcisismo revanchistico per il nemico è più Zingaretti che Salvini: “Matteo — dicono i suoi fanatici — ha ben presente che il tentativo di un governo è destinato a fallire, ma sta precostituendo le condizioni per dire che è Zingaretti che vuole il voto ed è lui che passerà alla storia per aver dato l’Italia ai fascisti”.
È questo il senso politico della mossa attorno al governo di scopo, ipotesi già franata in meno di 24 ore, perchè era inevitabile che il grosso del Pd bocciasse l’ipotesi di un accordicchio di pochi mesi, che fungerebbe solo da moltiplicatore di consensi per Salvini.
È chiaro che Nicola Zingaretti sa bene quale sia la posta in gioco. E su di lui è in atto un pressing, molto forte, a tutti i livelli.
Non solo chi ha paura di perdere la cadrega e, per l’occasione, ha riscoperto la “responsabilità nazionale”, ma anche padri nobili, gerarchie ecclesiastiche, in nome del “non possiamo lasciare l’Italia a Salvini”.
Ora, per capirci, il punto è questo, il cosiddetto “lodo Bettini”: soluzioni pasticciate, di breve periodo, non sono praticabili, ma se ci sono i margini per un accordo politico di legislatura, serio, perchè non andare a vedere?
È presumibile che il segretario andrà a vedere, salvaguardando quell’unità del Pd che è precondizione per salvare l’Italia, anche attraverso la battaglia elettorale. Consapevolezza diffusa è che i margini sono stretti perchè, per fondere due metalli che hanno cozzato, è necessario alzare la temperatura.
Insomma: per un patto politico serio, occorre sapere il “con chi” e il “per che cosa”. E qui non è chiaro nè l’uno nè l’altro.
Perchè i Cinque stelle non sono nè i rivoluzionari puri del 2013, nè quelli, diciamo così, in doppio petto del 2018. Sono coloro che hanno prodotto quel “barbaro” che oggi vorrebbero fermare per paura di andare a casa.
Non una autocritica, nè un riconoscimento del nuovo interlocutore e della sua cultura democratica, non un riconoscimento di “moralità ”, non un cambio di leadership, non una frase densa su un nuovo clima, se non i post di Grillo per iniziati.
Nè un segnale sul “che fare” assieme, se non la proposta di votare il taglio dei parlamentari che, senza il cambio della legge elettorale, è un’altra torsione che favorisce la democrazia plebiscitaria, per non parlare dell’agenda economica.
Si dice: ci penserà Mattarella, chiedendo al presidente di esercitare il ruolo non di facilitatore politico di un accordo tra partiti, incapaci di un dialogo limpido alla luce del sole.
Cosa che il presidente non farà , limitandosi ad esercitare le sue prerogative: se c’è una maggioranza in grado di formare un governo, bene, sennò si vota.
Ecco, è tutto questo che il segretario del Pd ha ben presente in testa nel predisporsi a un tentativo in cui credono davvero in pochi.
Andare a vedere, col Pd unito, nella consapevolezza che, al momento, le condizioni, al netto della paura, non ci sono.
Un accordo politico non è un contratto: è sintesi, condivisione, comprensione delle ragioni dell’altro, visione dell’interesse nazionale, rispetto della Costituzione e della grammatica istituzionale.
Ecco, l’inghippo di fondo è tutto qui.
(da “Huffingtonpost”)
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