STIPENDI BASSI? IN UN PAESE CHE NON CRESCE, NON CRESCONO I SALARI
SIAMO FINITI FANALINI DI CODA IN EUROPA PER GLI STIPENDI PERCEPITI… TASSE TROPPO ALTE, COSTO DEL LAVORO ALLE STELLE, NON SI PUNTA SULLA PRODUTTIVITA’, SULL’INNOVAZIONE TECNOLOGICA, SULLE INFRASTRUTTURE…
DOVE SONO FINITI IL QUOZIENTE FAMILIARE E GLI STUDI DI SETTORE?
Dopo che l’Ocse ha lanciato la “bomba”, denunciando come l’Italia sia sprofondata in zona retrocessione nella classifica dei salari percepiti nei 30 Paesi industrializzati dell’organizzazione, la politica italiana, invece che interrogarsi e decidere che fare, si accapiglia come al solito accusandosi a vicenda.
L’opposizione imputa al governo di essere insensibile al problema, il Pdl ribatte sostenendo che la colpa sta nella fiscalità attuata dal centrosinistra negli anni passati.
Noi partiamo da una constatazione reale: siamo finiti al 23° posto su 30 disponibili e litigare serve a poco. Servirebbero idee chiare e prendere decisioni, cui far seguire fatti concreti.
Poi qualcuno finge di meravigliarsi se il sindacalista della Fiom Rinaldini, noto per le sue posizioni sindacali intransigenti, finisce per essere accusato di essersi “venduto” da parte di chi è ancora più duro di lui.
Occorre ormai mettere in preventivo una conflittualità sociale che la crisi mondiale ha accentuato, ma che era latente e preesistente.
Ognuno dovrebbe ritornare a esercitare il proprio ruolo: l’imprenditore sia meno “politico”, il politico pensi a governare l’economia, il sindacalista a rappresentare la base.
Siamo di fronte da tempo a una omogeneizzazione del pensiero, per cui i ruoli si intersecano e si confondono, mentre la definizione degli stessi è alla base dei conflitti, ma anche dei rimedi possibili.
Anche perchè è inutile che i partiti si accusino a vicenda. Entrambi gli schieramenti hanno governato negli ultimi 10-15 anni e il risultato lo vediamo: la pressione fiscale è al 43% del Pil, un altro record europeo.
Eppure sono 15 anni che sentiamo tutti promettere una riduzione delle tasse.
Quindi il problema è strutturale: se il Paese non cresce, cosa volete che crescano i salari. E’ già tanto se arrancano penosamente dietro l’inflazione.
Non è tanto lo stipendio lordo che “piange” nei confronti europei, ma piuttosto quello netto, quello che serve poi per vivere.
Il lordo viene sistematicamente massacrato da trattenute, tasse, prelievi, esborsi, che non hanno pari in Europa. Per avere che servizi poi? Il nulla. E quello che vale qualcosa te lo devi pure ripagare coi tributi locali.
Assistiamo sulla stampa alla lotta tra poveri, c’è chi evidenzia che in 15 anni, partendo da una cifra base ipotetica di 100, le retribuzioni nel privato sono arrivate a 107 mentre nel pubblico a 110.
E allora dai ai dipendenti pubblici, neanche avessero la villa con piscina.
O chi fa notare che la busta paga di un agricoltore è cresciuta del 2,7% l’anno mentre per chi lavora nell’industria del 2,9%.
E allora dai agli operai che guadagnano oltre il tetto di inflazione ( quello ufficiale del 2,5% che sa di fasullo).
La realtà fotografa un’altra situazione: un ceto medio sempre più vicino al baratro della soglia di povertà , tutto il resto sono chiacchiere.
Se da 15 anni è certificato che il Paese non cresce, sotto qualsiasi governo, ovvio non ci sia spazio per un aumento degli stipendi. Solo alcuni crescono e sono i quadri medio alti, qualche settore del lavoro autonomo, le zone più in crescita economica, non certo il Sud dove la diseguaglianza è cresciuta ancora.
Gli economisti dicono che bisogna puntare sull’aumento della produttività , sull’innovazione tecnologica, sulle infrastrutture, sulla riduzione della pressione fiscale e del costo del lavoro.
Sono anni che sentiamo gli stessi discorsi e non abbiamo visto nulla. Solo promesse e qualche tappullo.
Ora Sacconi parla di possibilità di distribuire una parte dei dividendi come partecipazione agli utili aziendali sulla base dei risultati che si raggiungono, un’idea che vide la primogenitura nella Repubblica sociale.
Se qualcuno ora la fa sua probabilmente è perchè utili non ce ne sono in vista.
Siamo il Paese che non ha costruito una rete ferroviaria adeguata grazie alla Fiat che doveva vendere auto, privatizzando gli utili e socializzando le perdite, secondo le proprie convenienze. Siamo il Paese dove i sindacalisti vestono da industriali, i no global vanno nel parlamento repubblicano, certi politici girano 4 partiti in due anni, i rivoluzionari hanno la villa con piscina in Umbria, i premier sono “narcotizzanti” ( va tutto bene…), altruisti ( grazie a me… merito mio che…), autocritici ( ho avuto ragione io come sempre…), gli egoismi localistici diventano un cult da propagandare.
Forse non siamo neanche più uno Stato unitario, ma certo siamo uno Stato “tollerante”, nel senso che tolleriamo chi delinque, ma non chi lavora onestamente.
Ci si indigna per i disperati che arrivano coi barconi e qualcuno gode a “respingerli”, peccato non possa annegarli sul posto.
Gli stessi che si lamentano “che futuro avremo per i nostri poveri figli?”… salvo scordarsi tutto il giorno che esistano, sapere che educazione dargli, parlargli e dialogare con loro, l’importante è fare quattrini, così a 18 anni gli si regala il Mercedes e si tolgono dalle palle…
La coscienza questa sconosciuta…
Forse per riformare il Paese, sarebbe opportuno iniziare col riformare le In-coscienze, per far ripartire l’economia da un grande patto sociale e generazionale, per far aumentare i salari da una detassazione del “tirare a campare”.
Magari rimboccandosi le maniche tutti insieme, senza distinzioni di sesso, razza, ceto sociale, idee politiche e religiose…
Per una volta senza guardare se si tratta di maniche di una camicia firmata o meno.
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