TUTTI I DILEMMI DI LUIGI DI MAIO
NON VUOLE UN MANDATO ESPLORATIVO MA UN INCARICO PIENO SENZA PERO’ AVERE I NUMERI… ALEGGIA LO SPETTRO DI BERSANI 2013
C’è una formula che racchiude il dilemma, e tutte le difficoltà di Luigi Di Maio, nel suo tentativo di formare un governo.
Da giorni va dicendo, memore del precedente di cinque anni fa, di non volere un mandato “esplorativo” ma un “incarico pieno”: “Non faremo la fine di Bersani — dice il suo staff – chi accettò quel tipo di mandato, non riuscì a fare una maggioranza e si bruciò”.
Perchè una bruciatura sul sentiero di palazzo Chigi è una bruciatura politica tout court, che indebolisce il profilo politico di una leadership nel suo complesso: chi ce l’ha avuta una volta — accade così di solito, anche nei partiti più monolitici — raramente ha una seconda occasione (soprattutto se il voto non è ravvicinato).
Il problema, però, è questo. Per avere un incarico “pieno”, e dunque un mandato a formare un governo e ad andare alle Camere per la fiducia, Di Maio deve avere una “maggioranza”: numeri, chiari e definiti, altrimenti, a rigor di Costituzione (strenuamente difesa dai 5 Stelle il 4 dicembre), non lo avrà mai.
Può avere solo un “pre-incarico”, che sarebbe ciò che il suo staff chiama “incarico esplorativo”. Esattamente come Bersani nel 2013: lo ottiene, si fa un giro, verifica che non ci sono le condizioni, rimette il mandato nelle mani del capo dello Stato.
Il punto è tutto qui. Proiettiamoci in avanti, per comprendere l’oggi.
Il capo dello Stato inizia le consultazioni. Sono elezioni “senza vincitori”, perchè ci sono forze che hanno avuto un risultato sorprendente ma nessuna ha una maggioranza. Al Colle si stanno già interrogando su “dove iniziare” col primo tentativo, se dal partito che è arrivato primo (ma non ha vinto), ovvero i 5 Stelle o dalla coalizione che è arrivata prima (ma non ha vinto), ovvero il centrodestra.
Unico punto fermo: non sarà mandato nessuno allo sbaraglio in Aula senza maggioranza, anche perchè con un governo che, dopo il giuramento, va in Aula e viene bocciato, a quel punto non ci sarebbe più neanche il governo Gentiloni, in carica per gli affari correnti. Praticamente il caos totale.
Torniamo alle consultazioni. È presumibile che, a meno di clamorose novità , si inizi con i tentativi da parte dei 5 Stelle perchè con una legge “prevalentemente” proporzionale ha una logica iniziare col partito che “prevale”, almeno così pensa chi ha qualche consuetudine col Quirinale.
Bene, immaginate il colloquio. Il capo dello Stato, interprete garbato e mite di una lunga consuetudine repubblicana, chiede al giovane vincitore cosa intende fare per dare al paese un governo e se ritiene di potersi assumere l’onere di un tentativo, appunto, secondo il precedente del 2013.
A parlare con quelli attorno a Di Maio, ad oggi si registrano difficoltà , incertezze, confusione su questo passaggio, che poi è il passaggio chiave.
“Può rifiutare”, dicono. Per carità , tutto è possibile, anche se non ci sono precedenti . E comunque, sempre a proposito di bruciature, anche il rifiuto è un gran falò per un’ambiziosa carriera. O quantomeno, normalmente, la risposta, per evitarlo, sarebbe: “Signor presidente, non è opportuno conferire un incarico alla mia persona, perchè non sono in grado di avere i numeri, ma ritengo che il nome X possa riuscire nel tentativo”.
Insomma, spetta a Di Maio la prima mossa: dimostrare che ha una maggioranza o indicare un nome in grado di formarla.
Altro dilemma del giovane vincitore. L’ipotesi, su cui si è ragionato a lungo, è esclusa, senza se e senza ma: “Mai — dicono fonti a lui vicine — e poi mai. Il candidato è e resta Di Maio, senza alcuna alternativa”.
Il motivo è semplice: si chiama leadership. Metti il caso che il Gustavo Zagrebelsky di turno riesca a coagulare una maggioranza evidentemente diventerebbe un leader naturale, o uno dei leader, alle elezioni successive.
Sono dilemmi sostanziali, per una forza che ha in mano il boccino dell’iniziativa. E che hanno prodotto un altro altrettanto sostanziale immobilismo.
C’è poco da fare. La questione è tutta qui, al netto di un’orgia di parole che, quasi due settimane dopo il voto, non ha prodotto una sola novità politica.
L’ha fotografata Marco Travaglio, nel suo editoriale: “Arrivare primi significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo. Ma non conferisce il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis. Bisogna costruirla: non aspettando che si facciano vivi gli altri e poi meravigliandosi perchè ‘finora non si è visto nessuno’ (e ti credo!) ma facendo ai partner una proposta che non possono rifiutare. Se Di Maio vuole i voti del Pd derenzizzato e di LeU, glieli chieda”.
Ragionamento che non fa una piega. Sembra però che Di Maio non lo farà , in queste forme esplicite.
Piuttosto continuerà a lanciare segnali, non banali, al Pd ma senza un esplicito riconoscimento, perchè il Pd è, agli occhi dei Cinque Stelle, ancora sinonimo di Renzi, il grande nemico di questi anni, e il confronto esplicito equivale a un tabù. L’HuffPost ha raccontato due importanti mosse che, rispetto ai giorni scorsi, fanno chiaramente capire che l’attenzione dei Cinque Stelle è rivolta al centrosinistra e che, nei fatti, non è vero che Pd e centrodestra pari sono o che il vero obiettivo sia un governo con la Lega.
Anzi, questa prospettiva è un rischio per due giovani leader, concorrenti, alternativi che si considerano protagonisti di una nuova era politica, nata sulle macerie dell’establishment, e appena iniziata.
I segnali, dicevamo. Sul Def i Cinque Stelle preparano una risoluzione “moderata” con un impegno sulla riduzione del debito e nessuno sforamento del tre per cento, assai lontana dunque dal mantra anti-europeista di Salvini.
E Roberta Lombardi, un dirigente di primo livello del Movimento annuncia che, diversamente dal centrodestra, “non andrà dal notaio” e propone convergenza sui temi al governatore del Lazio Nicola Zingaretti.
Segnali, appunto, nella speranza che il tempo, diciamo così, porti consiglio in casa Pd, favorendo aperture senza chiederle. Un po’ poco.
Ma, al momento, la volontà di una “mossa” non c’è. Perchè le trattative sono trattative, piene di rischi, disponibilità a rinunciare a qualcosa in nome di un accordo, ricerca di un compromesso anche se alto e limpido.
Compromessi, accordi, che significano politica, al netto della retorica dell’inciucio. E se il Pd dicesse: disponibili a un confronto ma non con Di Maio premier?
Mai, dicono i Cinque Stelle. Perchè questo è l’alfa o l’omega di un negoziato che negoziato non è. Per scioglierlo bisognerà attendere che Luigi Di Maio, con tutti i suoi dilemmi, entri nella stanza di Mattarella.
Con lo spettro di Pier Luigi Bersani dietro la porta.
(da “Huffingtonpost”)
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