UNA MESSINSCENA CHE NASCONDE UN FALLIMENTO
LA SCENEGGIATA DI DUE CADAVERI CHE CAMMINANO
Il ginocchio che continua ad agitarsi, la mano destra che si aggrappa al bordo del tavolo, lo sguardo che vaga altrove, sfiorando soltanto di tanto in tanto il volto del ministro della Difesa che gli sta seduto di fronte, stringendo nervosamente in mano il foglietto con il testo che sta leggendo.
Ci vorrebbe un esperto di body language, per capire cosa c’è dietro la scena di Vladimir Putin che ordina a Sergey Shoigu di lasciar perdere l’attacco all’acciaieria di Mariupol, la roccaforte della resistenza ucraina.
Ma anche a uno sguardo non professionale la scena dell’incontro trasmessa dalle tv russe appare contraddittoria, quasi improvvisata: Shoigu, che per recitare un testo semplicissimo inforca gli occhiali e lo legge da un foglietto, Putin che siede rigido fissando il ripiano del tavolo (molto più corto rispetto ai suoi standard), entrambi troppo imbarazzati e poco convinti per trasmettere quello che dovrebbe essere il messaggio del video, di mostrare una leadership russa assertiva e nel pieno controllo della situazione.
Il presidente russo vorrebbe apparire come il comandante in capo aggiornato su tutti i dettagli anche topografici della battaglia di Mariupol, ma il metallo nella sua voce – quello che l’ha reso famoso fin da quanto, ancora aspirante presidente, prometteva di «ammazzare i ceceni anche nel cesso» – risuona soltanto quando ordina di «impedire che voli anche solo una mosca». Un ultimatum che lascia ai militari e civili ucraini una sola alternativa, arrendersi o morire di fame.
Ma il tono del comandante supremo torna subito incerto, anche quando si congratula con Shoigu per aver «liberato» una città dove si sta ancora combattendo ferocemente.
Il Cremlino può stare perdendo sul terreno, ma la sua arma strategica, almeno all’interno della Russia, è la propaganda, e la decisione di mostrare il presidente russo, e di fargli dire che rinuncia all’assalto all’acciaieria Azovstal, non può essere casuale. Resta da capire il vero obiettivo.
Per qualcuno, il bersaglio non è Mariupol, lo scopo vero è mostrare in carne e ossa il ministro Shoigu, che ultimamente tende a sparire dagli schermi, e si parla di una sua caduta in disgrazia.
Oleksiy Arestovich, il consigliere della presidenza ucraina, mette addirittura in dubbio l’autenticità del filmato, e sospetta che l’immagine del ministro fosse stata sovrapposta alle riprese con Putin che parla a una sedia vuota. Aleksandr Nevzorov, storico giornalista pietroburghese oggi in esilio, solitamente informatissimo, preferisce l’ipotesi della volpe con l’uva: sostiene di aver sentito Kalina, uno dei comandanti del battaglione Azov asserragliato nell’acciaieria, che gli ha spiegato che i russi hanno rinunciato all’assalto finale dopo essere stati respinti con perdite.
L’apparente retromarcia del Cremlino – il leader ceceno Ramzan Kadyrov aveva promesso la caduta di Azovstal «per l’ora di pranzo di giovedì», salvo poi allinearsi con il comandante supremo nel sostenere che «tutti gli obiettivi militari erano già stati raggiunti» – potrebbe dunque essere un diversivo mediatico per nascondere un fallimento.
Per Leonid Volkov, il capo del movimento di Alexey Navalny, il problema è più di immagine che di sconfitta militare: «Quando Putin viene fatto parlare pubblicamente in un certo modo, significa che il suo staff ha misurato l’opinione pubblica e ha stabilito cosa deve dire per guadagnare punti», ha scritto sul suo canale Telegram.
La promessa di rinunciare ad assaltare Azovstal è dunque una bugia – come già confermato dalle autorità di Mariupol, dove continuano i bombardamenti – ma «il Putin pacificatore si vende meglio del Putin falco», in una società russa molto meno entusiasta della guerra di quello che la propaganda vorrebbe far credere.
Un cambiamento brusco del personaggio Putin, che forse spiega perché appare così incerto e infastidito in una circostanza mediatica costruita appositamente per mostrarlo come un leader attento e ragionevole, che vuole «proteggere le vite dei soldati e ufficiali». Un messaggio rivolto forse più all’esercito che ai telespettatori: secondo Arestovich, i generali russi ormai si stanno dando al sabotaggio aperto dell’offensiva nel Donbass, dove «sono stati bruciati senza senso truppe d’élite pur di fare rapporto a Putin».
(da la Stampa)
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