VIAGGIO NELL’ITALIA DEI COMUNI FALLITI: BUCO DI 15 MILIARDI DA 84 ENTI IN DISSESTO
SULL’ORLO DEL CRACK ALTRE 146 AMMINISTRAZIONI
Ben 84 amministrazioni in dissesto finanziario, altri 146 enti locali a un passo dal crack.
E’ la mappa drammatica delle amministrazioni pubbliche rimaste con le casse vuote. Sindaci che per decenni hanno messo a bilancio entrate virtuali, perchè impossibili da riscuotere. O che hanno creato società dello sperpero.
Una gestione allegra che si è spenta con la spending review e le regole imposte da Bruxelles un anno fa.
Ma cosa accade quando un municipio fallisce? E davvero potrebbe fare default una metropoli come Roma, dove il disavanzo, malgrado tutti gli aiuti ricevuti in passato, è cresciuto di 853 milioni in 8 anni?
Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico
“Too big to fail”, dicono gli americani a proposito delle banche talmente grandi che possono farsi beffe della solidità dei bilanci grazie al fatto che un salvataggio sarà comunque sempre più conveniente di un devastante crack.
Una massima che si può applicare all’infinito anche a enti pubblici strategici come, ad esempio, il comune di Roma? Davvero la Capitale, già al centro di una operazione di salvataggio, e destinataria di eccezioni, misure ad hoc e finanziamenti extra, rischia ora di fallire, come ci raccontano le ultime cronache dal Campidoglio?
Un crack della Capitale, con tutto il danno di immagine che questo comporterebbe per il Paese, è già stato evitato una volta otto anni fa, grazie all’escamotage di commissariare il debito (13,7 miliardi, 20 compresi gli interessi, che pagheranno tutti gli italiani per trent’anni) anzichè il Comune, come avrebbe dovuto succedere.
Ma ora lo spettro di un default dell’ente amministrato da Virginia Raggi riappare a un orizzonte neppure tanto lontano con un deficit che, crescendo dal 2008 a una media di 125 milioni l’anno, è già arrivato a sfiorare il miliardo.
Se a Roma lo Stato ha risparmiato l’onta del dissesto (incapacità di pagare i debiti con le entrate correnti e di assicurare l’erogazione dei servizi pubblici), per ovvi motivi di realpolitik in quanto il fallimento della Capitale sarebbe stato una figuraccia internazionale, ben 84 Comuni italiani – stando ai dati aggiornati all’8 giugno 2016 – quell’onta l’hanno amaramente subita
Una questione meridionale.
I problemi della finanza allegra interessano i Comuni in quanto sono gli unici, tra gli enti pubblici, ad essere dotati di autonomia finanziaria contabile.
Da un’analisi della distribuzione geografica sul territorio nazionale delle amministrazioni dissestate realizzata da Ifel, l’Istituto per la Finanza locale dell’Anci, emerge con prepotenza una “questione meridionale” 2.0.
Su 84 Comuni in crisi finanziaria, infatti, ben oltre la metà (60,7%) si concentra in due Regioni, Calabria (25 enti) e Campania (24 enti, di cui 16 nella sola provincia di Caserta).
Ancora più significativa in termini numerici è la questione degli enti che hanno aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale.
Al 28 giugno 2016, risultano infatti in pre-dissesto 146 enti locali, di cui 10 Province. Anche nel caso del pre-dissesto, gli enti che hanno fatto ricorso alla procedura sono concentrati prevalentemente nelle regioni meridionali, con picchi in Calabria (29), Sicilia (25) e Campania (18).
Ma il Settentrione non ne è certo immune: le regioni interessate da casi di pre-dissesto sono infatti 15, a fronte delle 11 in cui sono localizzati gli enti dissestati
Il caso Sicilia e il Nordest virtuoso.
Con 16 casi, la Sicilia sembra vivere una preoccupante situazione a sè. Non solo per le dimensioni demografiche degli enti coinvolti, ma anche alla luce di una situazione di squilibrio finanziario di lungo corso e che sembra essersi cronicizzata nel corso degli anni.
Tra i Comuni siciliani con i conti in rosso, figura perfino Taormina, la ‘perla dello Ionio’ scelta dal governo Renzi per il G7 del prossimo maggio, che sta sprofondando verso il dissesto sotto il peso di 13 milioni di euro di debiti.
Diverso il quadro al Settentrione. Secondo i dati dell’Ifel, i Comuni più virtuosi si trovano nel Nordest. In Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Veneto non risulta neppure un caso di dissesto, mentre due crack sono avvenuti in Piemonte
Ammettere il dissesto non basta.
Nonostante la legge preveda che la procedura del dissesto si completi entro cinque anni dalla dichiarazione di default, sono ben 16, secondo l’Ifel, i casi di enti che hanno deliberato il dissesto prima del 2011.
Tra questi, due Comuni risultano non aver ancora terminato il risanamento, nonostante sia trascorso addirittura un quarto di secolo dalla dichiarazione di fallimento. E il trend è in crescita.
Dal 2011 al 2014, il numero degli enti che hanno deliberato il dissesto finanziario è costantemente aumentato: dai 3 che l’hanno dichiarato nel 2011 si è arrivati ai 21 nel 2014, passando per i 14 nel 2012 e i 20 nel 2013.
Deficit tra tagli e malagestione.
Negli anni passati il debito è stato la grande leva che ha permesso ai sindaci di poter disporre di notevoli entrate aggiuntive per finanziare, tra l’altro, propagande elettorali e clientelismi.
Disponibilità di cassa — priva di reali coperture – che ha consentito di presentare ai propri elettori, di volta in volta, bilanci allegri e immaginifici, lasciando in eredità alle amministrazioni successive l’onere di dover far fronte ai deficit che man mano si accumulavano.
A onor del vero, ma non certo a difesa dei tanti casi di malagestione amministrativa, va ricordato che i Comuni italiani hanno subito pesanti tagli alle entrate da parte dei governi durante gli anni dell’austerity.
Nel periodo 2010-2015 la sforbiciata alle loro entrate è stata pari complessivamente a 8,6 miliardi di euro. Un’ulteriore riduzione della capacità di spesa per 2,5 miliardi è stata determinata poi dall’istituzione del “Fondo crediti di dubbia esigibilità “.
Una coppia diabolica.
Bilanci gonfiati da crediti di dubbia esigibilità e tagli alle entrate: poggia su questo combinato disposto dall’effetto tutto negativo lo scenario politico amministrativo nel quale è maturata la crisi contabile dei Comuni italiani. Il dissesto, per un municipio, è l’equivalente, per un’impresa, del fallimento.
Poichè, però, non è pensabile che l’ente territoriale in stato di insolvenza interrompa l’erogazione di servizi pubblici ai cittadini (le imprese invece portano i libri in tribunale e fermano la produzione), il governo lo commissaria per sottrarlo alle mani dei politici e dei funzionari locali che non hanno saputo amministrarlo.
Questa è la regola. Ma la storia della contabilità allegra dei Comuni italiani è un’altra e sembra ispirata al motto “fatta la legge, trovato l’inganno”, in un clima di mancanza di controlli, di complicità istituzionali e di indifferenza generale.
Chi lo paga il conto?
Per tanti, troppi anni, gli enti locali hanno potuto redigere bilanci inserendo tra le entrate delle voci inesigibili (o quantomeno di dubbia esigibilità ) che servivano a coprire le uscite. Soprattutto ricchi incassi da multe che in realtà era evidente l’amministrazione non avrebbe mai avuto la capacità di riscuotere.
E così, approfittando di una normativa ambigua sui bilanci, tanti Comuni — Roma compresa – hanno potuto accumulare nel tempo una montagna di deficit.
Per capire ancora meglio il meccanismo che permetteva di gonfiare i bilanci è possibile fare un esempio: cento euro di crediti per multe — secondo la norma in vigore prima del 2015 – erano considerati dai Comuni, nei bilanci preventivi, come se fossero tutti incassabili nell’esercizio in corso.
Era quella voce di 100 nell’attivo a dare loro la copertura necessaria per poter sostenere spese di pari importo.
Un padre di famiglia non spenderebbe mai dei soldi senza averli sul conto corrente, ma solo sulla base di un credito che sa benissimo che non riscuoterà se non in minima parte.
I sindaci, invece, per decenni hanno speso soldi senza averli effettivamente in cassa. In altre parole, pur sapendo che a fronte di ogni 100 euro di credito per le multe solo 20 sarebbero entrati davvero, gli amministratori hanno continuato a spenderne cento. Generando, di fatto, ogni anno un buco di bilancio legalizzato.
Con buona pace di chi avrebbe dovuto controllare: revisori dei conti, Corte dei conti, prefetture, ministro dell’Economia, ministro dell’Interno.
La svolta del 2015. I nodi ad un certo punto sono venuti però al pettine.
Dal 2015 il ministero dell’Economia, che fino a quel momento aveva tollerato il fenomeno, ha deciso, anche su pressione dell’Unione Europea, di porre fine al sistema dei falsi in bilancio legalizzati e ha imposto ai Comuni un’operazione di ripulitura dei conti. Il nuovo regime ha introdotto in particolare il principio della “competenza finanziaria potenziata o a scadenza”, un istituto molto simile al bilancio di cassa, che obbliga l’ente a spendere solo quei soldi che hanno effettivamente incassato. Se riscuote contanti, può spenderli.
Se vanta crediti, no. I crediti non esigibili vengono sterilizzati in un fondo svalutazione crediti e ora l’equilibrio di bilancio è dato dal pareggio tra tutte le entrate reali e tutte le spese.
Se malgrado ciò le uscite sono maggiori di quanto si riscuote e di conseguenza si viene a creare uno stato di dissesto, sindaco, assessore al Bilancio e ragioniere capo vanno incontro a sanzioni penali, tra cui il falso in bilancio e il falso ideologico.
E, sanzione ancor più temuta dai politici nel caso in cui la Corte dei Conti accerti la loro responsabilità nel dissesto, all’ineleggibilità per cinque anni. La giustizia contabile, infatti, non dovrà più dimostrare come accadeva prima che il dissesto ha provocato un danno erariale attraverso un faticoso procedimento giudiziario. La nuova norma prevede che il dissesto sia di per sè sufficiente ad infliggere le sanzioni.
I ‘salvataggi’ di Roma e Reggio Calabria.
Cosa sarebbe successo se, sotto il peso di quasi 13 miliardi di debito accumulato durante le giunte di centrosinistra Rutelli (assessore al Bilancio Linda Lanzillotta) e Veltroni (assessore al Bilancio Marco Causi), fosse stato dichiarato lo stato di dissesto di Roma?
La Corte dei conti (all’epoca era in vigore la vecchia normativa), avrebbe dovuto accertare un eventuale danno erariale e contestarlo ai politici e agli amministratori individuati come responsabili del dissesto.
La storia, però, è andata diversamente: anzichè il Comune, s’è preferito commissariare il debito. E così il problema di un eventuale danno erariale contestato a carico di qualche politico non s’è posto.
Diverso ancora il caso di Reggio Calabria – sciolto nell’ottobre del 2012 quando era già in vigore la nuova normativa sulla ineleggibilità in vigore dal 2011 – comune infiltrato dalla ‘ndrangheta ma soprattutto devastato da bilanci in rosso.
“In questo caso specifico – spiega il sociologo Vittorio Mete, studioso del fenomeno dei Comuni commissariati per mafia – il governo ha optato per la più ‘facile’ soluzione dello scioglimento per infiltrazioni mafiose che, essendo un provvedimento di natura preventiva, riguarda solo l’amministrazione in carica.
Per Reggio Calabria il governo evitò dunque di avventurarsi lungo la strada del dissesto che avrebbe portato a conseguenze diverse e più devastanti per il ceto politico locale, visto che la responsabilità della malagestione era stata attribuita anche alla precedente amministrazione guidata da Giuseppe Scopelliti, all’epoca governatore della Regione”.
A Reggio Calabria, insomma, si è verificato uno strano paradosso: anche se in piazza si stracciavano le vesti, lo scioglimento per mafia potrebbe aver salvato — temporaneamente, come poi si è visto – la carriera a più di un politico.
Il disavanzo tecnico.
Poichè non sarebbe stato possibile passare da un anno all’altro a un diverso sistema di contabilizzazione, nel 2015 è stata prevista un’operazione ponte. L’anno scorso gli enti pubblici hanno redatto due bilanci, uno secondo le vecchie regole, l’altro secondo quelle riformate per far sì che a partire dal 2016 entrassero in vigore i nuovi bilanci. Nell’anno ponte 2015, dunque, ai Comuni è stato imposto di redigere due contabilità : una autorizzativa (vecchio sistema) e l’altra conoscitiva (nuovo sistema). L’anno seguente la conoscitiva è diventata autorizzativa, e da quel momento è partito il nuovo regime. Ma non tutto è filato liscio.
Riscrivendo i bilanci secondo le nuove regole (e non considerando più i crediti inesigibili alla stregua di veri e propri attivi), moltissimi Comuni hanno evidenziato un disavanzo che, per l’occasione, è stato chiamato “tecnico”.
Tecnico in quanto risultato di una nuova normativa. Poichè questo passaggio è stato incentivato dalla circostanza che un eventuale deficit non avrebbe comportato responsabilità di alcun tipo, di fatto da molti la normativa del 2015 è stata considerata una vera e propria sanatoria contabile.
Con le nuove regole quasi tutti gli enti hanno dichiarato due bilanci con numeri diversi (uno dei due, in teoria, falso).
Una rivisitazione contabile che ha fatto emergere un buco complessivo nazionale compreso tra i 12 e i 15 miliardi di cui per ben 853 milioni è responsabile la sola Roma. A tanto è risultato infatti ammontare il disavanzo tecnico della Capitale dove il bilancio è passato da 6,5 miliardi a 5,7, con una variazone di poco inferiore al 10%, in linea con la media nazionale.
Rate trentennali.
Poichè, però, il legislatore si è reso conto che quel disavanzo tecnico non è stato (questa volta) colpa degli amministratori, ma imposto dalla legge (una sorta di buco legalizzato?), è stato deciso di scorporarlo dai bilanci consentendo ai Comuni di rimborsarlo in 30 anni, imputando nel passivo corrente di ogni anno soltanto una quota fissa di un trentesimo. Roma, ad esempio, per un trentennio dovrà rimborsare una rata di circa 26 milioni.
La speranza è che con la nuova normativa, che rende più difficile e rischioso per gli amministratori truccare i conti, sindaci e assessori procedano ad una maggiore programmazione, gestendo il denaro pubblico con una cautela sino ad oggi spesso ignorata. In teoria, dovrebbe essere stato quindi scongiurato il rischio di nuovi e futuri dissesti.
Ma, visto l’andamento della politica italiana, si tratta appunto di speranze e teoria.
(da “La Repubblica”)
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