Marzo 1st, 2013 Riccardo Fucile
“INEVASA LA DOMANDA DI CAMBIAMENTO DELLE PRIMARIE”
Non c’è più sinistra in parlamento. E forse neanche in Italia.
Lo dice uno dei verdetti più categorici delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio scorsi: quello che coniuga la dèbà¢cle del partito democratico, che nel computo definitivo della camera rimane alle spalle delle stelle debuttanti di Beppe Grillo per circa 45 mila voti, con la consistenza testimoniale o poco più delle altre forze alleate o in concorrenza col Pd.
Un risultato in virtù del quale nella prossima legislatura si conteranno sulle dita delle mani i parlamentari che si dichiarano espressamente «di sinistra».
Olivero Diliberto si è dimesso dalla segreteria del Pdci e ha convocato un congresso straordinario del suo partito.
Lo stesso ha fatto la segreteria di Rifondazione.
Questione di numeri, il cui severo responso non consente margini di consolazione a un Pd che perde più di un elettore su quattro e a una sinistra radicale ridotta ormai a un ruolo ancellare o direttamente estromesse dalle aule parlamentari.
Ma questione anche politica, dal momento che l’identità politica del Pd è sempre più in crisi e incapace di districarsi tra tradizione socialdemocratica, ispirazione liberaldemocratica e giochi di pazienza lib lab.
Difatti è proprio l’eclissi della parola «sinistra» il vero assillo di Bersani e la sua squadra in via del Nazzareno.
Nel paese che per mezzo Novecento ha dato albergo all’insediamento del più consistente partito comunista occidentale, nella provincia dove per decenni si sono fronteggiati i Peppone e i don Camillo e dove un cittadino su tre si dichiarava di sinistra «oggi non c’è più la presenza politica di una forza che si dichiari o si richiami in qualche modo alla storia della sinistra», rileva sconsolato un dirigente del settore esteri.
Uno sconforto che intreccia la portata numerica del tracollo del Pd con quella politica.
Il risultato ottenuto da Bersani, 8,6 milioni di voti, è di gran lunga inferiore a quelli con cui Veltroni e Rutelli avevano perso le elezioni rispettivamente nel 2008, con 12 milioni di voti come prima prova del Pd, e nel 2001, con 11,5 milioni tra l’allora Ds e la Margherita.
Bersani si perde cioè per i seggi più di un elettore su quattro.
Il che porta numerosi dirigenti di via del Nazzareno a valutare che «le elezioni sono state una dèbà¢cle totale per il Pd» pur se alla camera la coalizione capitanata da Bersani ha ottenuto il premio di maggioranza.
Della vittoria a Montecitorio, anzi, «dobbiamo ringraziare il buon Bruno Tabacci – osservano i più maliziosi – che ci ha aiutato a stare davanti al Movimento 5 stelle».
Al netto delle malizie, però, il dato più clamoroso è che «dalle primarie Bersani ha perso 8 punti», secondo quanto si calcola negli uffici del Pd.
Sorprende soprattutto il fatto che la grande partecipazione alle primarie, con l’enfasi mediatica che l’ha accompagnata, non si sia tramutata in consensi.
Ma per lo storico Guido Crainz ciò va spiegato col fatto che «dalle primarie veniva una fortissima domanda di rinnovamento che in realtà non è stata raccolta dal Pd e da Bersani».
Il che probabilmente ha creato l’equivoco.
Per Crainz: «un disastro quasi annunciato».
La sinistra scompare nelle urne e scompare nelle amministrazioni locali.
Il Pd perde 3,5 milioni di voti non solo rispetto al 2008 ma rispetto ai complessivi 12 milioni che le forze di centrosinistra hanno raccolto più o meno continuativamente dal 1994.
La sinistra scompare in Puglia, dove tracrolla l’esperienza dell’amministrazione Vendola, il cui partito rimarrà il solo a fregiarsi della definizione.
Il risultato ottenuto da Rivoluzione civile alla camera.
Al senato la lista guidata da Antonio Ingroia e animata anche da Rifondazione comunista, Pdci e verdi, ha ottenuto l’1,79%
Cosimo Rossi
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Marzo 1st, 2013 Riccardo Fucile
“HO ANTEPOSTO GLI INTERESSI DEL POPOLO ITALIANO A QUELLI DEL PARTITO”
Si paragona all’ex presidente della Repubblica. 
Ora Domenico Scilipoti si sente come lui. ”Nel 1947 Giuseppe Saragat fece una scelta quasi similare a quella che abbiamo fatto Antonio Razzi e io” ha dichiarato a un convegno a Catanzaro. Il parlamentare, ex deputato dell’Italia dei Valori passato al Pdl, sostiene infatti di aver “anteposto agli interessi di partito quelli del popolo italiano” insieme al collega Razzi.
“Siamo orgogliosi di quello che abbiamo fatto — ha proseguito — Ce lo siamo detti dopo la nostra rielezione e lo rifaremmo ancora una volta se gli interessi del popolo italiano dovessero essere messi in discussione”.
Scilipoti è intervenuto a un’iniziativa degli eletti del Pdl in Calabria insieme al coordinatore regionale del partito, Giuseppe Scopelliti.
L’ex deputato Idv traghettato nel centrodestra, alla sua prima uscita dopo l’elezione a Palazzo Madama, ha anche “rivelato quarti di calabresità ” (“I miei bisnonni erano calabresi”).
“Siamo stati felici — ha aggiunto — nell’apprendere che il presidente Silvio Berlusconi ha fatto una dichiarazione similare dicendosi disponibile, per l’amore della patria, a dare un sostegno a coloro i quali in campagna elettorale sono stati dall’altra parte della barricata per salvare l’Italia. Sicuramente, però, non troverà convergenze su temi che sono altamente etici perchè su questo, per quanto ci riguarda, abbiamo una profonda convinzione che è diversa da quella del centrosinistra”.
Parlando della sua esperienza nel partito di Di Pietro, Scilipoti ha poi detto: “Il mio è un ritorno a casa, anche se sono stato uomo di centrodestra anche all’interno di quella che era la lista civica nazionale che portava il nome dell’Italia dei valori. All’interno di quella formazione c’erano, infatti, esponenti di estrema sinistra e di estrema destra. E tra questi ultimi voglio citare Luigi Li Gotti”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 1st, 2013 Riccardo Fucile
DOPO GIANNINO E ZINGALES, UN ALTRO DEI FONDATORI FA UN PASSO INDIETRO
Fermare il declino di Fare per fermare il declino.
Perde pezzi il movimento ideato da Oscar Giannino, scalzato dalla guida del partito dai suoi falsi titoli accademici denunciati pubblicamente a pochi giorni dalle elezioni da Luigi Zingales, che dopo l’outing ha fatto un passo indietro.
Un gesto che il terzo “volto” del movimento Michele Boldrin ha replicato oggi. L’economista lascia in polemica con “chi fa finta che dal 18 febbraio ad oggi non sia successo nulla”.
Una bagarre divenuta pubblica sulla sua pagina facebook nel giorno della direzione nazionale, che si è tenuta oggi a Milano.
“Mi vergogno di aver fondato un movimento e di avergli regalato le mie idee, oltre a sei mesi della mia vita — scrive online — perchè poi finisse in mano a pusillanimi ed arrivisti di terzo livello come costoro. Addio. E’ ora di fare dell’altro”.
Eppure Fare era nato sotto una buona stella.
Aveva allertato anche il Pdl, tanto da impegnare Alessandro Sallusti nella difesa del voto utile con un attacco frontale al movimento.
Come? Dalle colonne de Il Giornale della famiglia Berlusconi, il direttore, anzichè criticare il programma liberista, ha preferito evocare il gatto dell’ex collega, Arturo, felino aggressivo che viveva in redazione e si distingueva, a detta di Sallusti, per alcuni olezzi sgraditi.
Fare ha scalfito il voto per il centrodestra col suo 1,12% a Montecitorio e contribuito al mancato raggiungimento del premio di maggioranza per il Cavaliere alla Camera, ma la menzogna accademica di Oscar ha frenato il consenso prima della soglia di sbarramento. E l’emorragia dei fondatori prosegue con un altro ‘condottiero’ che se ne va. Ormai, scrive un militante online “mancano solo Stagnaro, Fusco e De Nicola“.
Per parte sua, Boldrin è fermo: “Non me la sento di collaborare con chi ha fallito e ha combinato disastri”, spiega .
“Il disastro più grande? Non avere verificato i titoli di Oscar, che era un lavoro da fare mesi fa. Chi non l’ha fatto deve pagarne le conseguenze”.
Poi critica Silvia Enrico (“che è coordinatrice, non presidente — puntualizza — e che pur non avendo alcun potere esecutivo, lo sta esercitando, anche se le ho chiesto esplicitamente di non farlo. Non ne ha il titolo”) e la direzione nazionale del partito che “ha attribuito ruolo e compiti nelle commissioni di lavoro sul territorio in vista delle prossime elezioni locali”.
Per Boldrin “chi ha sbagliato non deve avere nessun incarico esecutivo”.
Un principio valido anche per Giannino che “non può permettersi di avere un’altra possibilità da candidato”.
Il giornalista, fra l’altro, ha ulteriormente compromesso la sua reputazione dopo l’intervento di Cino Tortorella, alias mago Zurlì, che ha smentito una sua antica partecipazione allo Zecchino d’Oro.
Ma è stato l’errore accademico di Oscar quello che “ci è costato un milione di voti persi”, osserva l’economista.
Già in una lettera indirizzata ai vertici del movimento, Boldrin chiedeva di “azzerare la struttura organizzativa centrale ringranziandone i componenti per l’opera generosamente prestata e ricevendo da essi le consegne di tutto quanto rilevante e di proprietà del movimento” oltre alle dimissioni dei coordinatori regionali che invitava ad affiancare la “Direzione Nazionale nell’ordinaria amministrazione e nell’avvio e gestione del processo costituente”.
La sua linea, però, non è stata ascoltata.
Eppure, un altro status postato su facebook dopo l’addio, fa pensare a un piano B. “Domanda tattica”, chiede a chi lo ha sostenuto: “Assalto al quartier generale o andiamo altrove? Cosa prende meno tempo e costa meno sforzi, a parità di risultato?”.
Ma non ritorna sulla sua decisione e immagina un futuro plumbeo per il movimento. Previsioni realistiche?
“Queste persone che ritengo non adatte ne faranno scempio. Mi spiace per i 400mila voti che abbiamo preso, ma non me la sento più di dare battaglia”.
Eppure solo il 20 febbraio scriveva su facebook: “Il progetto originale di Fermare il Declino ha sia muscoli, che gambe, che fiato per scalare la montagna. Quindi andrà avanti anche dopo queste elezioni. Che ora bisogna vincere. Poi chi ha filo per tessere, tesserà ”.
Eleonora Bianchini
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 1st, 2013 Riccardo Fucile
SONDAGGIO DEMOS: IN DIECI ANNI CROLLA LA FIDUCIA NELLA CHIESA… LA STIMA PER BENEDETTO XVI ORA LA SORPASSA
Si è concluso il papato di Benedetto XVI. Il quale resterà , comunque, Papa. Emerito. 
Come un professore universitario in pensione.
Benedetto XVI, d’altronde, è anche un professore. Un teologo finissimo, che ha guidato la Congregazione per la Dottrina della fede per oltre vent’anni.
Rigoroso nel tracciare i confini della religione cattolica in tempi di secolarizzazione.
Di confronto con altre fedi e altre religioni – assai più esigenti di quella cristiana – veicolate dai flussi migratori.
A Joseph Ratzinger la Chiesa chiedeva di marcare i segni e principi dell’identità religiosa.
In altri termini, il “distintivo cristiano”, come l’ha definito Romano Guardini, teologo importante. Influente ai tempi e nei luoghi di formazione del Pontefice, Romano Guardini (tra Frisinga, Monaco e Tubinga).
Invece Benedetto XVI se ne va. Si ritira. Fiaccato da problemi di salute. Dall’età . Ma forse anche dal peso degli scandali che hanno scosso la Chiesa nel corso del suo papato.
E degli intrighi, delle tensioni che attraversano il Vaticano. Da alcuni anni in modo particolarmente violento.
Una “scelta difficile”, l’ha definita il Papa nella sua ultima udienza.
Ma anche un segno di “umanità “. E di “modernità “, come ha scritto Ezio Mauro, all’indomani dell’annuncio.
Per questo traumatico, per un’istituzione metastorica come la Chiesa.
Per una figura, come il Papa, che fonda il suo riconoscimento, la sua stessa legittimità , oltre ogni modernità .
Oltre il tempo. Oltre l’età – propria e del mondo.
Per questo, il gesto del Papa è un’ammissione di debolezza. Non solo propria, ma anche della Chiesa. Con effetti che rischiano di essere molto più rilevanti di quanto si pensi, nel rapporto tra la Chiesa stessa e la società .
Soprattutto in Italia, dove ha sede il “Soglio pontificio”.
D’altronde, la fiducia nei confronti della Chiesa, fra gli italiani, è calata sensibilmente.
Negli ultimi 10 anni: di quasi 20 punti. Dal 63 nel 2003 al 44% di oggi (sondaggi Demos).
In un Paese nel quale quasi tutti si dicono “cattolici” o, comunque, “cristiani”, è interessante e significativo osservare come oltre metà dei cittadini non nutra fiducia nella Chiesa.
La svolta, a questo proposito, avviene nel 2009, l’anno in cui esplodono gli scandali sulla pedofilia che coinvolgono molti esponenti del clero, a diverso livello e in diversi paesi.
Lo stesso anno in cui Dino Boffo, allora direttore dell’Avvenire, viene “crocifisso” da lettere anonime – e false – amplificate e strumentalizzate da una pesante campagna di stampa.
Allora la fiducia nella Chiesa crolla sotto il 50%. Al di sotto della metà degli italiani.
Ma il declino procede, anche in seguito. Parallelamente alle vicende che scuotono il Vaticano.
E testimoniano di una Chiesa lacerata da lotte di potere.
Certo, la Chiesa non è solo questa. È anche molto altro.
Come testimonia la presenza di religiosi e organizzazioni in diversi luoghi del mondo, fra i poveri e i disperati. Lontano dal Vaticano.
In Italia, peraltro, la Chiesa, in molte aree, costituisce un tessuto associativo e di servizi di grande importanza per il territorio e la società .
Complementare, talora concorrente rispetto a quello pubblico. Ciò non è più sufficiente, però, a garantirle il credito della maggioranza dei cittadini.
Diverso è l’atteggiamento nei confronti del Papa. Benedetto XVI succede a Giovanni Paolo II. Papa Wojtyla.
Capace, come pochi altri, nel nostro tempo, di “personalizzare” la Chiesa. Di unificarne l’immagine. Il Papa dei viaggi nelle diverse terre. Della riconciliazione con le altre religioni. Il Papa che ha estetizzato e sacralizzato anche il dolore, la malattia, la stanchezza.
Fino alla morte.
A differenza di Benedetto XVI, che invece si è “ritirato”, ammettendo la propria inadeguatezza. Ebbene, la popolarità di Papa Ratzinger resta sensibilmente al di sotto rispetto a quella di Wojtyla.
Tuttavia, proprio negli anni degli scandali e del declino della Chiesa, la fiducia nei suoi riguardi è risalita.
E nell’ultimo scorcio, dopo le dimissioni, è cresciuta ancora.
Anche se il giudizio sulle ragioni della rinuncia divergono.
Il 44% degli italiani (intervistati da Demos due settimane fa) le attribuisce a motivi di stanchezza e di salute, secondo la versione proposta dal Papa.
Quasi altrettanti, il 43%, pensano, invece, che le dimissioni siano la conseguenza delle tensioni e delle lotte che lacerano il Vaticano.
Naturalmente, l’orientamento cambia in base alla pratica religiosa.
I praticanti assidui, ma anche quelli saltuari, credono maggiormente alle spiegazioni del Papa. I non praticanti alle ragioni non dette e indicibili, da Ratzinger e dalla Chiesa. Tuttavia, anche fra i cattolici praticanti, l’incredulità sulla versione del Papa è molto estesa.
Tutto ciò ha contribuito, nell’ultimo periodo, a ridimensionare ulteriormente la “fede” nella Chiesa.
Ma non la fiducia verso il Papa. Che, anzi, è risalita ben oltre la Chiesa stessa.
D’altronde, oltre il 70% degli italiani si dice d’accordo con la decisione di Ratzinger.
Senza grandi differenze tra praticanti e non praticanti.
Anche chi ritiene queste dimissioni conseguenza del clima di tensioni e di conflitti interni al Vaticano approva, in larga maggioranza la scelta del Papa.
Perchè si tratta di un’ammissione di vulnerabilità e di inadeguatezza.
Oppure di una “denuncia”, non importa. È, comunque, un segno di “umanità “.
Avvicina il Papa agli uomini.
Ma, forse, anche per questo, è destinato a indebolire ancor di più la Chiesa.
(da “La Repubblica”)
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