Marzo 9th, 2013 Riccardo Fucile
IMPEDIREBBE AI POLITICI SCONFITTI DI RICICLARSI NELLE SOCIETA’ PUBBLICHE…MA E’ DA DICEMBRE CHE RESTA NEL CASSETTO DEL CDM
Pare che servano “ulteriori approfondimenti”. 
È il motivo per cui il decreto legislativo per impedire ai politici trombati di riciclarsi nelle società pubbliche, atteso fin da dicembre, non è stato approvato dal Consiglio dei ministri pur essendo all’ordine del giorno.
Peccato perchè proprio in questi giorni si insedia un Parlamento i cui membri sono neoeletti per oltre il 60%: significa che in giro c’è un sacco di gente in cerca di un buon lavoro, meglio se al calduccio di municipalizzate, società regionali e via poltronando.
È di questi giorni, per dire, la notizia della prossima ascesa ai vertici di Ama di Maurizio Castro: Gianni Alemanno vorrebbe, infatti, nominarlo amministratore delegato dell’enorme municipalizzata che a Roma si occupa di rifiuti, pulizia delle strade e servizi cimiteriali.
E allora? Si chiederà il lettore.
E allora il buon Castro, già manager del gruppo Electrolux nonchè presidente della fondazione alemanniana Nuova Italia, fino a venerdì prossimo sarà pure un senatore della Repubblica in forza al Pdl: fino a venerdì perchè il nostro, per un deprecabile infortunio di cui s’è lamentato a suo tempo a mezzo stampa (“ora cerco lavoro”), è stato escluso dalle liste per le politiche di febbraio.
Buon per lui che Alemanno ne ammira le qualità di dirigente.
Castro, che è stato pure relatore della riforma Fornero del lavoro, stava già tentando di farsi una ragione della sua nuova situazione:
“Sono un disoccupato — aveva dichiarato lunedì all’AdnKronos — e, del resto, essendo stato io un aedo della flessibilità , adesso giustamente mi tocca sperimentarla”. Sperimentazione breve, pare, ma non per questo meno ricca di suggestioni.
L’ultimo ostacolo sulla sua strada è proprio il famoso dlgs sui riciclati — tecnicamente “disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e gli enti privati in controllo pubblico” — ma il governo Monti non sembra aver fretta di approvarlo.
In sostanza, quel benedetto decretino — previsto dalla recente legge anti-corruzione — dovrebbe sancire da un lato che ai dirigenti pubblici condannati per reati contro la Pubblica amministrazione, anche in primo grado, viene subito sospeso l’incarico e lo stipendio; dall’altro che se sei stato un parlamentare o un consigliere regionale, provinciale o comunale non puoi essere subito nominato in una società pubblica (Asl comprese ) nemmeno come consulente: devi stare fermo per un po’.
Ne consegue che se il dlgs non arriva in tempo, Castro e i tanti altri trombati di queste elezioni non dovranno “sperimentare” la flessibilità a lungo: da qui a giugno, per dire, scadono i mandati di presidente e amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti, come pure degli omologhi di Ferrovie dello Stato, senza contare il mare magno delle poltrone locali tipo Ama.
Nel frattempo, comunque, il Consiglio dei ministri ha almeno approvato il codice di comportamento per i dipendenti pubblici: non si possono accettare regali dal valore superiore ai 150 euro, bisogna comunicare i rapporti di collaborazione diretti e indiretti propri o dei parenti più stretti con aziende private, si è obbligati ad astenersi da decisioni su cui si è in conflitto di interessi (anche solo derivante da appartenenze politiche o sindacali) e garantire comunque la tracciabilità scritta dei processi di scelta e altri principi di buon senso.
Per chi non rispetterà il codice, ovviamente, sono previste sanzioni che possono arrivare fino al licenziamento.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 9th, 2013 Riccardo Fucile
MENTRE IL SENATO TIRA LA CINGHIA (CHIUSI RISTORANTE E BARBERIA), IL PRESIDENTE USCENTE TRASLOCHERA’ NEL NUOVO OPULENTE UFFICIO A PALAZZO GIUSTINIANI
Senza barbiere, senza ristorante e, tanti, anche senza ufficio.
Questo sarà il gramo inizio di legislatura per una parte non piccola di nuovi eletti a Palazzo Madama (soltanto sessanta i riconfermati).
Almeno una trentina, forse di più, non avrà un ufficio dove poter lavorare, preparare disegni di legge, emendamenti e interrogazioni, e dove poter ricevere ospiti, visitatori, elettori.
E, ovviamente, niente postazione di lavoro anche per la segretaria o l’assistente.
Per almeno un anno mancheranno gli uffici, dopo il recentissimo rilascio al proprietario da parte del Senato del palazzo dell’ex hotel Bologna.
Un immobile tenuto in affitto per tanti anni e a tale prezzo che il Senato lo avrebbe potuto comprare almeno due volte.
Abbandonato il Bologna e non ancora pronti i contestati e costosi locali di Largo Toniolo e di Santa Maria in Aquiro, ecco che mancano almeno trenta uffici, una carenza che costringerà a parcheggiare almeno una trentina di neo senatori in spazi rimediati qui e là nei tanti palazzi in uso al Senato nel centro di Roma.
Mentre molti eletti dal popolo non sapranno dove lavorare, gli ex presidenti del Senato come Renato Schifani avranno intanto a disposizione uffici extralarge per sè e per i propri numerosi collaboratori nel prestigioso Palazzo Giustiniani.
Tanti metri quadrati da farci entrare quasi tutti i neo-senatori senza casa.
E i centocinquanta metri di Renato Schifani hanno anche l’affaccio sul Pantheon.
A proposito di spazi, al Senato è in corso una grande Operazione traslochi: i quattro vice presidenti e i tre questori di Palazzo Madama stanno liberando gli appartamenti di servizio dei quali hanno beneficiato per cinque anni (come i loro omologhi della Camera).
Le case sono all’interno di un palazzo in Largo dei Chiavari: camera da letto, soggiorno, cucina completa, doppi servizi.
Tutto comodo e spazioso, riservato e tenuto lustro da squadre di donne delle pulizie.
Cosa strana, il diritto alla casa i vice presidenti e i questori lo cumulano con l’indennità di funzione e la diaria, la quale dovrebbe servire appunto a pagarsi il soggiorno a Roma.
E. M.
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Marzo 9th, 2013 Riccardo Fucile
SI FANNO I NOMI DI LETTA, GRASSO, FINOCCHIARO, TABACCI E BARCA
Nel suo duello con Giorgio Napolitano, Pier Luigi Bersani potrebbe fare una mossa per
“anticipare” un governo tecnico.
Ovviamente, non nel senso che vorrebbe il Quirinale, cioè l’esecutivo del Presidente. Semmai è lo stesso segretario del Pd che varerebbe un governo di minoranza senza politici dentro.
È il paradosso di questa insolita e lunga crisi partorita dalle urne fatali di febbraio.
Uno schema da far maturare per attrarre il Movimento 5 Stelle, ma che in realtà Bersani ha in testa dalla campagna per le primarie quando disse esplicitamente che avrebbe fatto “un governo senza manuale Cencelli ma aperto alla società ”
Altri tempi, si dirà .
Certamente, ma la cura per smacchiare il Giaguaro aveva pure previsto, a cavallo tra il risultato delle primarie e l’inizio della campagna elettorale, come riempire le caselle di governo.
Lo racconta Ettore Maria Colombo nella sua recentissima biografia di Bersani per gli Editori Internazionali Riuniti. Nomi su nomi.
A cominciare da quelli dei fedelissimi Maurizio Migliavacca e Vasco Errani per la “macchina” di Palazzo Chigi.
Poi Nichi Vendola alla Cultura, Enrico Letta allo Sviluppo Economico, Anna Finocchiaro, Piero Grasso alla Giustizia, persino il centrista Tabacci e il socialista Nencini.
Più politica che società a dire il vero.
In ogni caso niente D’Alema, niente Veltroni, niente Bindi.
Oggi che è tutto cambiato e la scena è cupa non gioiosa, il probabile “esploratore” Bersani sta tratteggiando un profilo diverso del suo esecutivo.
L’ossessione sono i grillini e il primo compito è stato quello di scavare a fondo tra i nomi degli intellettuali che firmarono a suo tempo un appello per “Bersani 2013”.
Un elenco che si apre con Carlo Galli e si chiude con Salvatore Veca.
Ci sono Aris Accornero e Alberto Asor Rosa, Carlo Dell’Aringa e Michela Marzano. Quest’ultima, nota filosofa in quota Repubblica, viene indicata come un nome quasi sicuro della squadra che Bersani offrirà alla fiducia parlamentare, se mai Napolitano lo manderà in Parlamento.
Due i punti fermi del governo, su cui il segretario del Pd sta spingendo parecchio, almeno a sentire chi parla con lui. Il primo è l’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Bersani lo ha strappato ai centristi per candidarlo nel Pd e il magistrato è in corsa per fare il Guardasigilli anche nell’eventualità di un governo filogrillino.
Il secondo è il ministro montiano Fabrizio Barca, di schiatta comunista e vero erede secondo i suoi avversari interni del Pd della filiera tecnopolitica Amato-Bassanini.
In realtà il patto con “Pier Luigi” era diverso.
Bersani a Palazzo Chigi e Barca al partito.
Adesso che è tutto è saltato per aria e si naviga a vista, giorno dopo giorno, il segretario del Pd lo vorrebbe a tutti i costi nella sua squadra.
Del resto, per Bersani, il ministro montiano è anche un doppio pericolo.
Sia per il suo presunto gradimento al M5S (governo filogrillino non a guida Bersani), sia per i suoi storici rapporti con Napolitano (governo del Presidente)
Chiuso nel suo bunker del Nazareno, la sede nazionale del Pd a Roma, con Migliavacca ed Errani (che lo seguiranno a Palazzo Chigi anche per il governo di minoranza), il mancato smacchiatore del Giaguaro avrebbe già sondato Stefano Rodotà , già indipendente di sinistra e altro nome gradito al M5S, per un ministero di rilievo. L’incognita resta l’Economia.
Per quel posto circola da tempo il nome di Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia.
La tentazione bersaniana è di proporlo comunque, in quanto riserva della Repubblica e super partes, nonchè altro potenziale premier tecnico.
Fabrizio d’Esposito
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 9th, 2013 Riccardo Fucile
IL CAVALIERE AL MERCATO DEI VOTI… INCARICHI, RIELEZIONE E DENARO, UN SISTEMA NATO NEL ’94
Erano le due del pomeriggio e Cesare Previti si muoveva veloce come uno squalo nei corridoi di Palazzo Madama.
Berlusconi era nei guai. E ancora una volta gli aveva affidato il comando delle operazioni, diciamo così, sotto copertura.
Il guaio numero uno, il Grosso Guaio, era che il Polo aveva vinto le elezioni del 27 marzo 1994 ma non aveva la maggioranza al Senato: servivano almeno altri tre voti, oltre ai suoi 156, per ottenere la fiducia.
Il guaio numero due, il problema del giorno, era che alla prima votazione per il presidente del Senato era in vantaggio Giovanni Spadolini.
Ed era stato proprio Previti, quando Berlusconi era tornato dal Quirinale rivelando di aver confidato a Scalfaro la propria disponibilità a votare per Spadolini, a stopparlo seccamente: «Abbiamo vinto noi, le presidenze ce le prendiamo tutte e due: la Pivetti alla Camera e Scognamiglio al Senato».
Berlusconi, alla fine, si era convinto.
Ma adesso le cose non stavano andando come dovevano andare, e Previti era a caccia di voti. «Ci hanno presi uno per uno, promettendoci questo e quello» confidò sottovoce a un cronista il romagnolo Romano Baccarini, senatore centrista e dunque — sulla carta — corteggiabile.
Previti non saltò nessuno. Dagli autonomisti altoatesini agli ex democristiani siciliani, li prendeva sottobraccio e li mollava solo dopo aver avuto una risposta: sì o no.
Luigi Grillo, senatore ligure, confessò a un amico: «Quel Previti mi ha fatto impressione. Mi ha detto: noi siamo vincenti, vogliamo vincere e siamo certi di vincere».
Nessuno sapeva cosa stesse promettendo Previti, ma il capogruppo dei popolari, Nicola Mancino, mise le mani avanti: «Spero che non sia in atto un mercato delle vacche». Berlusconi fingeva di disinteressarsene: «Ma quale campagna acquisti! Altri spendono il mio nome, io non ne so niente ».
Il momento della verità arrivò il giorno dopo, quando venne il momento della quarta votazione, quella decisiva. «Votanti 325, Scognamiglio 162 voti, Spadolini 161. Proclamo eletto…».
Per un voto, un solo voto, Scognamiglio aveva conquistato la seconda carica della Repubblica. Previti aveva portato a termine un’altra missione.
A differenza dei voti di fiducia, quando si elegge un presidente il voto è sempre segreto, e dunque non sapremo mai chi fu a passare dall’altra parte.
Eppure, osservando con gli occhi di oggi la tecnica, i protagonisti e il risultato, potremmo dire che quella fu assai probabilmente la prima “Operazione Libertà ” organizzata da Silvio Berlusconi, tredici anni prima di lanciare quella per la caduta del secondo governo Prodi, comprando il senatore Sergio De Gregorio con tre milioni di euro.
Poi Previti si occupò anche del Grosso Guaio: i numeri per la fiducia.
Ma quella fu una manovra più raffinata, ad amplissimo raggio e con tutto il campionario degli argomenti persuasivi.
Ce n’era uno oggettivo, limpido: Berlusconi aveva vinto la sfida con la «gioiosa macchina da guerra» della sinistra, perciò aveva il diritto politico di governare.
Questa tesi aveva convinto tre senatori a vita, Cossiga, Leone e Agnelli, ma non altri cinque: Andreotti, De Martino, Valiani, Spadolini e Taviani, e dunque le cose si stavano mettendo male.
Bisognava che qualcuno, invece di votare no, votasse sì. O almeno che uscisse dall’aula, facendo abbassare il quorum (e il numero dei no). E quel qualcuno arrivò.
La mattina del 18 maggio, quando Palazzo Madama votò la fiducia, quattro senatori del Ppi non risposero all’appello.
Il primo era Luigi Grillo: già , proprio quello che era rimasto «impressionato» dalla capacità persuasiva di Previti.
Gli altri erano Stefano Cusumano e Tommaso Zanoletti. Più il produttore Vittorio Cecchi Gori, la cui assenza fece perdere le staffe al più flemmatico dei suoi compagni di partito, Romualdo Coviello: «Diceva sempre: gli faccio un culo così. E poi al momento di votare se ne va al festival di Cannes».
Fu così che il primo governo Berlusconi ebbe la fiducia: 159 voti contro 153, più due astensioni (che al Senato valgono come voto contrario).
Se i quattro parlamentari mancanti fossero stati al loro posto, e avessero votato no, il governo sarebbe stato bocciato.
Ma cosa era stato offerto, in cambio di quelle preziose assenze?
«Lo abbiamo fatto per il Paese, non avremo poltrone» risposero in coro Cusumano, Zanoletti e Grillo.
Effettivamente, nessuno dei primi due ottenne un incarico. Grillo, invece, fu premiato con una poltronissima: sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
C’è gente che passa la vita sui banchi del Parlamento, una votazione dopo l’altra, sperando di far carriera con lo stakanovismo presenzialista, e invece a lui era bastato uscire dall’aula, per dare una svolta alla sua storia politica.
Delle spese folli di Berlusconi per comprare i senatori disposti a buttare giù il secondo governo Prodi, grazie a De Gregorio sappiamo già tutto, o quasi.
Ma è difficile allontanare il dubbio che anche il primo governo Prodi sia stato abbattuto con lo stesso metodo dell’«Operazione Libertà ».
Si votò, stavolta alla Camera, il 9 ottobre 1998.
Il presidente del Consiglio ulivista era convinto in anticipo che la differenza sarebbe stata di un solo voto. A favore suo, però.
Doveva mettere nel conto, gli avevano fatto sapere gli alleati diessini, l’assenza del diniano Silvio Liotta, il quale pareva tormentato dai dubbi.
Ma anche senza Liotta il governo dell’Ulivo poteva farcela.
C’era solo un problema: la Pivetti, anche lei diniana, aveva partorito dodici giorni prima, e i doveri dell’allattamento la trattenevano a Milano. Prodi la chiamò al telefono la sera prima, per accertarsi che venisse. Sembrava fatta.
Quello che Prodi non sapeva è che in quelle stesse ore anche Berlusconi stava chiamando tutti gli avversari tentennanti. Compresa la Pivetti. Compreso Liotta.
Lo confessò lui stesso, subito dopo il voto decisivo, senza però rivelare quali argomenti avesse usato. «Ho chiamato Liotta e anche altri. Ma non ho fatto avances. Ho detto che le porte di Forza Italia per loro sono aperte».
Il risultato fu che l’indomani le cose non andarono come Prodi aveva previsto.
La Pivetti, che sarebbe dovuta arrivare con l’aereo militare, non arrivò mai. Spuntò invece, lasciando tutti a bocca aperta, Liotta.
E disse subito in aula: «Non voterò la fiducia”.
Berlusconi sorrise. Prodi impallidì, realizzando in quell’istante quale sarebbe stato il risultato finale: 312 sì, 313 no, il suo governo non c’era più.
Cosa era stato promesso, a Liotta? Nulla, giurò lui. «Nessuno mi ha promesso nulla, non ho chiesto nulla e non ho avuto nulla». Fatta eccezione, si capisce, per la rielezione al Senato nel collegio di Partinico sotto il simbolo della Casa delle Libertà .
Un seggio in Parlamento. Dodicimila euro al mese. Più i viaggi gratis. Più i rimborsi. Più il portaborse.
Può essere una buona ragione per cambiare opinione? Chissà .
E’ lo stesso premio che alle elezioni di febbraio Domenico Scilipoti e Antonio Razzi hanno chiesto e ottenuto alla luce del sole da Berlusconi, dopo avergli salvato il governo alla fine del 2010.
Ricordate? Fini aveva messo in calendario il 14 dicembre le mozioni di sfiducia.
Senza i voti dei finiani, il Cavaliere non poteva più farcela.
Le cifre parlavano chiaro. Eppure lui ostentava un inspiegabile ottimismo.
«Avremo la fiducia » dichiarò il 6 dicembre alla radio.
«Escludo che Berlusconi ottenga la fiducia» gli rispose subito Fini, dopo aver controllato un’ultima volta i numeri. Non poteva farcela, il governo. Eppure ce la fece.
Alla vigilia del voto, tre deputati dell’opposizione uscirono allo scoperto e passarono dalla sua parte.
Il primo era proprio Scilipoti, eletto con l’Idv. Il secondo era Antonio Razzi, anche lui — come Scilipoti, e come De Gregorio — eletto grazie a Di Pietro.
Il terzo invece veniva dal Pd, ed era stato addirittura il capolista nel Veneto: Massimo Calearo, ex presidente degli industriali vicentini.
E Berlusconi scampò alla sfiducia proprio per tre voti, 314 contro 311.
Anche allora, come era successo dopo il salto di De Gregorio, in Parlamento si sparse l’odore dei soldi. Di Pietro denunciò i due traditori alla Procura della Repubblica.
«Io non ho preso neppure un centesimo, solo un abbraccio e l’amicizia del presidente Berlusconi » ha garantito Razzi.
E Scilipoti è stato ancora più categorico: «Se qualcuno ha documenti che dimostrano che ho preso soldi da Berlusconi, li consegni alla magistratura. Chi si vende venga arrestato e si butti via la chiave».
Certo, solo loro (e Berlusconi) conoscono la verità .
Ma resta agli atti la motivazione con cui Scilipoti abbandonò al loro destino il manipolo di voltagabbana che proprio lui aveva trasformato in gruppo parlamentare: “I responsabili”.
«Sono solo un’accozzaglia di persone — dichiarò al “Fatto” — che hanno pensato solo ai loro interessi. Si vergognavano di chiamarsi Responsabili però poi andavano da Berlusconi a fare ricatti».
Che gente.
Sebastiano Messina
(da “La Repubblica“)
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Marzo 9th, 2013 Riccardo Fucile
IL PATTO CON I MONTIANI… SPUNTA LANZILLOTTA PER IL SENATO
Due “ambasciatori” che verranno scelti in queste ore e ufficializzati lunedì, alla prima
assemblea degli eletti del Pd. Pier Luigi Bersani ha deciso di anticipare i tempi con Beppe Grillo.
Non aspetterà l’apertura delle Camere fissata per venerdì.
Già all’inizio della prossima settimana il Partito democratico avrà una delegazione “autorizzata” che chiederà un incontro a tutti i gruppi parlamentari prima della seduta inaugurale.
L’obiettivo principale naturalmente sono i 5stelle che hanno già i capigruppo designati: Roberta Lombardi (Camera) e Vito Crimi (Senato).
Sul tavolo c’è la formazione del governo.
E un passaggio preliminare, uno snodo-chiave per capire il futuro della legislatura: la presidenza delle Camere.
«Proponiamo al Movimento e agli altri un confronto aperto per arrivare ad assetti istituzionali plurali – spiega il segretario del Pd – . In parole povere, non vogliamo lottizzare il Parlamento, non vogliamo trasformarlo in un piano regolatore. Ci si confronta e si decide assieme».
I nomi degli emissari (o kamikaze?) non sono ancora noti, una potrebbe essere la neosenatrice Laura Puppato.
C’è una sola certezza: non toccherà ai capigruppo uscenti Dario Franceschini e Anna Finocchiaro.
Entrambi in corsa per le presidenze delle Camere, non sono i più adatti a trattare su se stessi.
La difficoltà del dialogo con il comico lascia pensare che i prescelti verranno pescati tra i fedelissimi bersaniani e tra i più convinti dell’intesa con 5stelle.
Ma lo screening del segretario è appena partito.
Sarà questo il passaggio decisivo? Non è detto, ma il Pd ha deciso di seguire la strada indicata da Grillo: eletti che parlano con eletti, Parlamento sovrano, leader in disparte. Almeno ufficialmente.
In attesa delle “consultazioni” tra parlamentari, il gioco delle presidenze è in fase di stallo.
Questo non vuol dire che partiti e protagonisti stiano fermi, tutt’altro. Ma le variabili sono veramente troppe per mettere un punto fermo.
Chi, dentro al Pd, non crede al successo dell’accordo con Grillo, scommette su una soluzione: Franceschini a Montecitorio e Mario Monti a Palazzo Madama.
Il primo ha sulla carta 340 voti e l’elezione in tasca. Il secondo potrebbe vincere al ballottaggio.
Se n’è parlato in maniera superficiale anche giovedì durante il colloquio tra Bersani e il Professore. Ma c’è uno scoglio gigantesco.
Con una crisi lunga, il premier deve rimanere a Palazzo Chigi, non può trasferirsi in altri palazzi.
Il cambio è possibile. In caso di elezione al Senato, il suo posto verrebbe preso dal ministro dei Rapporti col Parlamento Piero Giarda.
Ma Giorgio Napolitano accetterebbe questa confusione?
Dopo l’incontro di Palazzo Chigi, che non ha avuto intoppi,
Pd e Scelta civica concorderanno passo per passo le scelte future.
Compresa quella più lontana ma fondamentale dell’elezione del nuovo capo dello Stato.
Incarico per il quale Romano Prodi rimane tra i favoriti anche grazie a un ottimo rapporto, non sbandierato, con il mondo grillino.
Significa Gianroberto Casaleggio, il fondatore, ma anche l’informazione vicina ai 5stelle.
Dai blog ai giornali. Se per Monti ci fosse l’ostacolo del governo, i centristi non hanno molte altre carte da giocare a Palazzo Madama.
Casini non è della partita visto il pessimo risultato elettorale.
Rimangono Pietro Ichino e Linda Lanzillotta.
La presidenza del Senato s’intreccia a una lotta interna piuttosto feroce dentro Scelta civica: seguaci di Italia Futura contro montiani e fedelissimi di Andrea Riccardi. I montezemoliani rivendicano il grosso dei voti e quindi delle poltrone.
Lanzillotta non è dei loro ma si fa notare quanto sia vicina a Montezemolo.
Questo scenario può cambiare completamente se si trova un’intesa coi 5stelle. Anna Finocchiaro diventerebbe la favorita per Palazzo Madama (con la variabile Piero Grasso) e un grillino andrebbe a Montecitorio.
A Largo del Nazareno sono sempre ottimisti. «Grillo non vuole andare a votare e il suo sogno è sparare su un governo Pd-Pdl – sottolineano i bersaniani – . Bene, mercoledì, in direzione, gli abbiamo fatto capire che non succederà mai. Adesso deve cambiare strategia». Ma finora non sono arrivati segnali di ripensamento dal comico.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 9th, 2013 Riccardo Fucile
IL PROCESSO MEDIASET IN CASSAZIONE A FINE ANNO
Il danno grosso deve ancora venire. Si materializzerà con le condanne definitive, quando arriveranno.
E arriveranno presto, come quella per il caso Mediaset. Fine 2013, primi mesi del 2014. L’incubo del Cavaliere ha un nome preciso, si chiama “interdizione dai pubblici uffici”.
Già prevista dai giudici di primo grado proprio per Mediaset, 5 anni di totale esclusione da qualsiasi incarico pubblico.
L’immediata esclusione dal Parlamento per due anni, visto che gli altri 3 sono cancellati dall’indulto del 2006.
La fine della carriera da leader. Niente più candidature come premier.
Berlusconi come Cesare Previti, cancellato dalla vita politica nel 2007 con la perdita dello scranno di deputato.
Questione di mesi, dai dieci alla dozzina al massimo. Poi l’ultimo giudizio davanti alla Corte di Cassazione.
È per questo che, ormai da giorni, Berlusconi è tornato a riproporre lo slogan della giustizia negata a Milano, ma garantita a Roma.
Per questo l’attacco alla magistratura in generale si è trasformato in quello «a una certa magistratura».
Pm e giudici di Milano, quelli sono i colpevoli.
A Roma invece le supreme toghe si comportano in tutt’altro modo.
Berlusconi le blandisce. Sa, perchè gliel’hanno spiegato fino alla noia i suoi legali, che da loro dipende il suo destino politico.
«In Cassazione avrò giustizia » ripete Berlusconi.
Questa è anche la profonda convinzione del suo avvocato Niccolò Ghedini.
Il quale, più di una volta pubblicamente, ha valutato come singolari ed eccezionali i tempi strettissimi in cui è stato fissato l’appello per Mediaset.
Il 26 ottobre 2012 la sentenza, il 18 gennaio la prima udienza d’appello.
Ghedini sa bene che il medesimo scatto in avanti si può verificare tra appello e Cassazione.
Il calcolo è presto fatto. Legittimi impedimenti permettendo, la sentenza d’appello per Mediaset dovrebbe arrivare entro la metà di aprile.
Era prevista per il 23 marzo, ma a questo punto “l’uveite” dell’ex premier gioca a suo favore.
A Milano sono tutti convinti che i 4 anni per frode fiscale chiesti in primo grado saranno confermati.
A quel punto il Cavaliere entra in una zona estremamente a rischio, in cui l’incastro dei mesi conta molto.
Le scadenze sono poche. Innanzitutto le motivazioni della sentenza, e ci vorranno al massimo due mesi per scriverle, ma anche di meno se prevale la logica dell’accelerazione per evitare che Mediaset venga prescritta entro il giugno nel 2014.
Siamo tra la fine di maggio e giugno. Agli avvocati spettano 30 giorni per presentare il ricorso. Ma a quel punto cominciano le lunghe vacanze dei magistrati.
Se ne riparla dalla metà di settembre in avanti.
A quel punto, con un processo che corre verso la prescrizione, è buona regola alla Suprema corte che l’udienza si faccia e la decisione sia presa in fretta per evitare il rischio che la mannaia del tempo scaduto dell’azione penale annulli tutto il lavoro fatto fino a quel momento.
Per la fine di quest’anno, al massimo i primi mesi del prossimo, il processo sarà chiuso.
Con l’assoluzione, secondo Ghedini e Berlusconi; con la piena condanna, sostengono i giudici.
Il dramma del Cavaliere si gioca qui.
Il suo problema non sarà l’eventuale conferma della condanna a 4 anni, di cui 3 sono comunque coperti dall’indulto dell’ex Guardasigilli Mastella.
E poi Berlusconi, come ultrasettantenne, gode della legge Cirielli che esclude dalla galera chi ha superato giusto i 70 anni.
Ma è l’interdizione dai pubblici uffici che, una volta confermata, diventa una tagliola dalla quale non ci si può in alcun modo sottrarre.
La storia di Previti si ripete identica e Berlusconi rivede il film del suo amico costretto comunque a fare un passo indietro.
A quel punto il Cavaliere è finito.
Daniela Santanchè, neo deputato del Pdl, è pronta ad esorcizzare il pericolo. È convinta che il Pdl, e non Berlusconi da solo, debba contrapporsi alle toghe nella manifestazione del 23: «Gli italiani devono capire che c’è una giustizia domestica solo per il nostro candidato premier ».
È un chiaro invito alla ribellione.
Perchè, dicono nel Pdl, «è inaccettabile che il nostro premier sia fatto fuori politicamente per via giudiziaria».
Liana Milella
(da “la Repubblica“)
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Marzo 9th, 2013 Riccardo Fucile
IL PD CHIEDE A GRILLO DI CHIARIRE SULLE SOCIETA’ NEL PARADISO FISCALE
Diventa un caso politico lo scontro tra Beppe Grillo e “l’Espresso” che ha rivelato gli
affari nei paradisi fiscali caraibici dell’autista-factotum del leader di M5S.
La vicenda infiamma la rete, con i grillini che gridano alla «macchina del fango», e gli antigrillini che chiedono «chiarezza al M5S».
«In Costa Rica la sa, “sociedad anonima”, equivale alla nostra Spa», puntualizza nel suo blog Grillo.
E Walter Vezzoli, il suo autista e factotum, precisa – in una dichiarazione al Fatto ripresa dal blog del leader M5S – che il resort nei Caraibi era «solo un sogno».
«In realtà – ha spiegato – si trattava di una trentina di abitazioni autosufficienti dal punto di vista energetico e per questo il progetto si chiamò “Ecofeudo”».
«Ma non ho mai trovato gli investimenti – ha aggiunto Vezzoli – e così Ecofeudo rimane un sogno nel cassetto, quello che potrebbe cambiare il mondo, ma non si è realizzato ».
A proposito della società “Armonia Parvin” dedicata alla moglie di Grillo, il factotum del leader 5Stelle dà la sua versione: «Era un negozio di prodotti biologici di 20 metri quadri, poi chiuso perchè non produceva guadagni. Parvin è il nome della moglie di Grillo, ma la titolare del negozio era appunto la sorella di Parvin. Poteva semplicemente piacerle il nome».
Ma perchè in Costa Rica? «Vivevo là dove ci è cresciuto mio figlio. Io ero il proprietario di una discoteca: dove avrei dovuto registrare le società ?».
E Beppe Grillo? «Non è mai stato in Costa Rica», assicura.
Immediata la controreplica de “l’Espresso”.
«Contrariamente a quello che sostiene il blog di Grillo – sostiene il settimanale – non abbiamo mai parlato di “società anonime” aperte da Walter Vezzoli in Costa Rica. Noi abbiamo scritto che là l’autista di Grillo risulta amministratore di 13 società tuttora attive».
«In Costa Rica – afferma ancora “l’Espresso” – per le “sociedad anonima”, così come per tutte le altre società , non c’è trasparenza su azionisti e bilanci. Proprio come succede, per esempio, in Svizzera».
«Fino al 2009 – prosegue la nota del settimanale – quando vennero create le 13 società di Vezzoli, il Costa Rica era anche inserito nella lista nera dell’Ocse e dell’agenzia delle entrate come paradiso fiscale. Quanto al progetto Ecofeudo, la società omonima creata da Vezzoli, dalla cognata di Grillo e da Simone Pennino risulta ancora attiva, così come il documentatissimo sito web che propaganda il progetto per la costruzione di un resort».
Sul fronte politico, la vicenda ha acceso una polemica anche tra Pdl e Idv, che difendono Grillo, e Pd che lo attacca.
«Grillo come Berlusconi – dichiara Antonio Leone, deputato Pdl – . Come uno assurge alla notorietà , viene attaccato».
Sulla stessa linea Antonio Di Pietro, leader dell’Idv: «Il calvario che ho vissuto io ora sta succedendo a Grillo».
«Quella di Grillo – attacca il pd Francesco Boccia – è una difesa penosa, tipica di un professionista dell’elusione. Aspettiamo sempre la sua vita fiscale online. Il quadro dipinto dall’Espresso, se fosse vero, sarebbe di una gravità inaudita».
Alberto Custodero
(da “La Repubblica“)
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Marzo 9th, 2013 Riccardo Fucile
DOPO LA PERIZIA DEL CONSULENTE DEL TRIBUNALE, I GIUDICI NON HANNO CONCESSO IL LEGITTIMO IMPEDIMENTO…GHEDINI RINUNCIA ALL’ARRINGA, COSI’ PREPARA IL TEATRINO DI PIAZZA
Non sussiste un “impedimento assoluto” alla partecipazione di Silvio Berlusconi al
processo Mediaset.
Ovvero, in altri termini, la congiuntivite dell’ex premier non è una giustificazione abbastanza forte per non presentarsi all’udienza.
Lo ha stabilito il medico fiscale al termine della visita disposta dalla corte d’appello di Milano per controllare le condizioni di salute del Cavaliere, ricoverato ieri al San Raffaele per una infiammazione agli occhi.
Non si è fatta attendere la reazione dell’avvocato Niccolò Ghedini, uno dei difensori dell’ex premier, che ha chiesto di sentire in aula i consulenti nominati dai giudici.
Ma la corte d’appello di Milano ha respinto la richiesta della difesa del Cavaliere di sentire i consulenti medici.
Il processo va quindi avanti, con l’inizio e l’immediato stop dell’arringa dei legali di Berlusconi. Il difensore di Berlusconi ha infatti deciso di rinunciare alla sua arringa e ha così commentato: “La volontà di andare avanti anche con l’imputato malato la trovo straordinaria”.
La difesa dell’ex premier ha poi previsto che i giudici della seconda sezione penale della corte d’appello condanneranno Berlusconi imputato nel processo sui diritti televisivi, ma auspica che l’assoluzione del Cavaliere possa arrivare in Cassazione. “Mi attendo una sentenza di condanna, l’ho detto anche ai giudici”, ha detto Ghedini. Alla decisione della corte d’appello di effettuare la visita fiscale, che ha seguito l’istanza di rinvio del processo per legittimo impedimento dovuto a motivi di salute del leader del Pdl, Ghedini l’aveva definito un “provvedimento al di fuori di ogni logica”, spiegando di non avere “alcuna preoccupazione”.
“Che vadano a fare gli accertamenti”, aveva detto, “noi abbiamo una certificazione medica che attesta l’assoluta necessità del ricovero”.
E aveva poi aggiunto: “Non riusciamo a capire tutta questa fretta, anzi la capiamo benissimo: si vuole arrivare in tempi brevi a una sentenza”, anche se “la prescrizione è nel 2014″.
E, mentre il medico fiscale ha stabilito che non c’è legittimo impedimento, anche il primario di oculistica e oftalmologia del San Raffaele di Milano, Francesco Bandello, ha lasciato un commento sullo stato di salute dell’ex premier. “Chiedo al presidente Berlusconi di restare in ospedale almeno fino a domani”, ha detto il medico.
I giudici della corte d’appello nel disporre la visita fiscale con urgenza hanno accolto la richiesta del pg di Milano, Laura Bertolè Viale, per stabilire se l’impossibilità di Berlusconi a presentarsi fosse “assoluta e totale”.
Così sono stati incaricati un medico legale, Carlo Goj, e uno specialista del Policlinico, il professor Pasquale Troiano, docente anche all’università degli studi di Milano.
A differenza di quanto accaduto ieri al processo Ruby, i giudici d’appello in camera di consiglio hanno quindi deciso di concedere la visita fiscale per il Cavaliere ricoverato al San Raffaele.
Il pg non solo ha domandato la visita fiscale ma ha anche fatto rilevare, tra l’altro, che l’imputato può venire in Aula ed esporsi alle luci del Tribunale che “non sono poi così forti”.
Per Silvio Berlusconi il procuratore aveva chiesto la conferma della condanna di primo grado a quattro anni di carcere per frode fiscale.
Per contro, la difesa dell’ex premier ha presentato un certificato medico firmato dal primario dell’ospedale, che afferma la persistenza dei sintomi e l’impossibilità di Berlusconi a presentarsi in aula. Berlusconi, dicono i medici del San Raffaele, è affetto da uveite bilaterale, un disturbo oftalmologico.
E l’avvocato Niccolò Ghedini ha spiegato in aula che l’ex premier resterà ricoverato “fino a lunedì”. L’ex premier ha comunque passato una “notte tranquilla” all’ospedale San Raffaele, nonostante l’infiammazione a entrambi gli occhi.
Ieri in serata è arrivato da Parigi, dove si trovava per un congresso, anche il direttore della clinica oculistica dell’ospedale di via Olgettina, Francesco Bandello, che lo ha visitato già due volte, ieri sera e stamattina, oggi dovrebbe dare un aggiornamento sulle condizioni di Berlusconi e comunicare se si è deciso di dimetterlo o di prolungare ancora il ricovero.
La decisione della corte d’appello va in direzione contraria a quella presa ieri al processo Ruby, in cui è stato accolto il legittimo impedimento per motivi di salute. Anche il procuratore aggiunto Ilda Boccassini aveva chiesto la visita fiscale spiegando che si trattava di “una strategia per evitare la conclusione del processo”.
La decisione della corte d’appello ha scatenato una pioggia di critiche tra i fedelissimi del Cavaliere, da Angelino Alfano a Sandro Bondi. “Oggi con la richiesta della visita fiscale hanno sfondato il muro del ridicolo, qualcosa di comico che si dica al leader di una forza politica, che ha preso milioni di voti, che occorra controllare che fisicamente si trovi al San Raffaele”, ha detto il segretario del Pdl, “e se, a fronte di varie certificazioni mediche, si trovi davvero in condizioni di difficoltà di salute agli occhi”.
Dure, dall’altra parte, anche le parole dell’Associazione nazionale magistrati riguardo le posizioni espresse da Berlusconi sulla giustizia.
”Qualsiasi generalizzazione, qualsiasi attacco alla magistratura, idea di manifestazioni dirette contro di essa costituiscono una sfida a principi che sono fondamento della nostra Costituzione e delle democrazie mature”, ha avvertito il presidente Rodolfo Sabelli a margine di un incontro a Catania, sottolineando che “il principio di autonomia e di indipendenza della magistratura non è soltanto uno dei principi fondamentali ai quali si ispira l’azione dell’Anm, ma è uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di qualsiasi sistema democratico maturo”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 9th, 2013 Riccardo Fucile
LA GIOVANE BRASILIANA RENATA BUENO, IL POTENTE ARGENTINO RICARDO MERLO, L’IMPRENDITRICE AMERICANA ANGELA FITZGERALD
«Renato è al Senato», annuncia sul suo sito il neo senatore del Pd Renato “Ron”
Turano (sessant’anni, tre figli, nove nipoti), anche se per ora sta a Chicago a pensare alle le tre fabbriche di pane (oltre seicento dipendenti) che si chiamano come lui (Turano) e sfornano prodotti freschi e congelati per 500 tonnellate al giorno.
Ileana Calabrò detta la Morocha, invece, rimarrà a Buenos Aires a fare la soubrette e, chissà , fingere di nuovo orgasmi in tv come da video su YouTube: il suo mentore, controverso senatore ex Pdl Juan Esteban Caselli, non ce l’ha fatta a farla planare in Parlamento, nonostante la bella presenza e il tanto rilievo sui media italiani.
E’ riuscita invece, a sorpresa, Renata Bueno, trentaquattrenne brasiliana, avvocato e già consigliera comunale, figlia di un politico del Partito socialista brasiliano, candidata all’ultimo momento nella lista civica Usei da Eugenio Sangregorio, che aveva messo in piedi l’Unione sudamericana emigrati italiani per finirci lui, seduto alla Camera.
E invece no, niente da fare, si consolerà forse coi rimborsi cui ha diritto.
Non ce l’ha fatta, ma ha raccolto in Europa la bellezza di 23 mila preferenze, Maria Darè Biancolin, presidente degli enologi italiani in Germania.
Segno dei tempi che cambiano, e quindi basta Carfagne, ma largo alle giovani donne impegnate? Può darsi.
Mentre nella politica regna il caos, e la cronaca si riempie di dettagli sulla presunta compravendita di senatori che portò alla caduta del governo Prodi, la nuova pattuglia della legione straniera è pronta a sbarcare a Roma.
Con le sue lunari diversità .
Il voto delle quattro circoscrizioni estere, infatti, è un’iniezione di equilibri tutti suoi: stravince il Pd, che col 29 e 30 per cento si porta a casa cinque deputati su dodici e quattro senatori su sei facendo l’en plein nella circoscrizione Africa, Asia, Antartide e Oceania, va bene la Lista Monti che è secondo partito con il 20 per cento, due deputati e un senatore; mentre sia il Pdl che il Movimento Cinque stelle restano inchiodati a un solo deputato – l’uscente Guglielmo Picchi, già bancario; Alessio Tacconi da Zurigo, 35 anni, ingegnere – e percentuali che per il partito del Cavaliere non superano il 15 per cento, e per quello di Grillo non arrivano nemmeno al dieci.
Tanto è pazzoide, l’equilibrio restituito dal mondo, che il vero vincitore di queste elezioni è però un altro. Ricardo Merlo, el dìputado, come c’è scritto sul suo sito web, fondatore e presidente del Maie, Movimento associativo Italiani all’estero, che presentandosi nella sola circoscrizione America latina ha raccolto due deputati e un senatore.
E che per se stesso ha messo insieme ben settantamila preferenze: un numero da vertigini, se si pensa che in tutto il Sudamerica i voti validi sono stati circa 300 mila.
Al secondo posto, il senatore Claudio Zin, sempre Maie, che ne ha raccolte 46 mila (mentre al terzo si piazza Aldo Di Biagio, ex deputato di Futuro e Libertà , sbarcato al senato con la lista Monti grazie a 43 mila preferenze in Europa).
Del resto il Movimento di Ricardo Merlo, nella circoscrizione America latina ha circa il 39 per cento dei voti, dodici punti percentuali in più del Partito democratico.
E, per di più, in parlamento potrà contare anche su un’altra eletta: la deputata Angela Rosaria Nissoli Fitzgerald detta Fucsia.
L’imprenditrice, che vive in Connecticut da 25 anni, marito, tre figli, e si definisce «da sempre impegnata nel sociale», pur essendo eletta con la Lista Monti è da tempo la coordinatrice Maie per il Nord America.
Quattro parlamentari son certo pochi, eppure dal senador Pallaro (peraltro ex sodale di Merlo) fino a Razzi e Scilipoti, è quanto meno viva la memoria della tarantella che da soli possono far ballare a un intero Parlamento.
La faccenda, peraltro, è ulteriormente complicata dal fatto che Ricardo Merlo, che ha imposto a Monti di non presentarsi in America Latina perchè già c’era lui (accordo di desistenza), risulta a sua volta essere responsabile Italiani nel mondo dell’Udc di Pier Ferdinando Casini. «Siamo un movimento culturale, per noi non esistono nè destra nè sinistra, soltanto le istanze degli emigrati italiani», sintetizza lui in un video.
Un programma chiarissimo. Del resto, a motivare Merlo basterebbero i rimborsi cui per la terza volta avrà diritto come titolare di un partito tutto suo.
E mentre si attendono gli esiti delle già ben avviate polemiche e denunce sulla regolarità del voto estero, nero su bianco restano numeri impressionanti. Intanto, quanto a numero di votanti: un milione, contro i tre milioni di aventi diritto nel mondo, vale a dire circa il 30 per cento (in Italia ha votato il 75 per cento degli elettori).
Poi, quanto a numero di schede bianche, nulle o non assegnate: circa 107 mila al Senato e 113 mila alla Camera, dunque il 10 per cento, ossia all’incirca otto volte tanto la media nazionale.
Susanna Turco
(da l’Espresso“)
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