Gennaio 26th, 2015 Riccardo Fucile
“USA ARMI DI DISTRAZIONE DI MASSA PER NON INTERVENIRE SULLE COSE CHE CONTANO”
Una grande toga come Gian Carlo Caselli legge le parole di Renzi e subito, nella sua voce, si avverte
stupore e contrarietà .
Poi, con la puntigliosità che ha contraddistinto la sua vita nelle indagini sul terrorismo e sulla mafia, ribatte punto per punto.
La polemica sulle ferie, Maddalena contro il governo, Renzi contro Maddalena. Che ne pensa?
«L’intervento di Maddalena è di ben 19 pagine, fitte fitte. Dove si parla di un’infinita di argomenti, spesso con un taglio critico anche nei confronti della magistratura. Reagire esclusivamente sulle ferie significa fare ancora una volta black propaganda, con scopi di distrazione di massa».
Ma sulle ferie chi ha ragione, Renzi o Maddalena?
«L’intervento di Maddalena è molto argomentato e lo condivido. Lui lamenta che, nelle priorità del governo, la prima riforma da varare nei primi cento giorni, poi diventati mille, avrebbe dovuto essere la prescrizione. Invece la prima è stata la riduzione delle ferie.
Che, “non solo e non tanto per i contenuti, ma per il modo in cui è stata attuata, addirittura per decreto, ancor ci offende”. Maddalena cita Orwell e Dumas. Salvo che siano proibite l’ironia e le buone letture, fermarsi alle citazioni sarcastiche significa non parlare nel merito delle cose che davvero contano».
La riforma delle ferie serve?
«Definire le ferie un privilegio di casta significa usare un argomento falso. Dire che i magistrati non lavorano abbastanza è falso. Dire che con meno ferie lavorerebbero di più è falso, e lo ha dimostrato Davigo. Ma soprattutto è falso dire che la riforma delle ferie renderà la giustizia più rapida, perchè ci vorrebbe ben altro».
Lanciare accuse sulle ferie è un modo, come dice l’Anm, per nascondere l’inefficienza del governo?
«Queste tesi servono per impressionare la gente con argomenti facili, ma soprattutto per parlare di meno, o quasi per niente, dei problemi veri, ricacciandoli sotto il tappeto. Quelli veri, di cui tutti i colleghi hanno parlato, sono la prescrizione, il falso in bilancio, le recenti leggi sulla corruzione e l’autoriciclaggio che, appena varate, hanno rivelato gravi imperfezioni, e la cosiddetta manina del 3%. Oltre al pessimo funzionamento del sistema processuale che va riformato in radice e non affrontato con qualche palliativo».
Che impressione le ha fatto quel riferimento ai magistrati uccisi?
«A me sembra che invocare i morti, ricordarsene per parlare male dei vivi o zittirli, sia ingiusto e di pessimo gusto».
È accettabile che da Renzi, come da altri del Pd, arrivi l’invito a tacere?
«Chi non sopporta che anche i magistrati partecipino al dibattito sui problemi della giustizia, esercitando un loro diritto- dovere, di solito dice che devono stare zitti e parlare solo con le sentenze. Mai nessuno aveva messo in dubbio la legittimità , in sede di apertura dell’annogiudiziario, di fare riflessioni sullo stato di salute della giustizia, basate sull’esperienza diretta».
Come se lo spiega?
«Il fatto è che piacciono gli interventi che si riducono a qualche slide autocelebrativa, quelli con impostazioni burocratiche e autoreferenziali, che non si fanno carico della realtà pulsante e della domanda reale di giustizia del Paese».
Renzi parla di giudici «bravi». Che le viene in mente?
«Benissimo, perfino banale, ma sarebbe sbagliato sostenere che tra i giudici “non” bravi rientrino anche quelli che osano criticare il governo. Il premier non lo dice esplicitamente, ma attenzione a non ingenerare equivoci e confusioni in un campo che investe la credibilità e l’indipendenza della magistratura».
Lei è stato di Md per anni. Le correnti sono davvero il male della magistratura?
«In tutte le sedi, gli interventi per l’anno giudiziario sono stati di alto profilo. Non si possono liquidare con qualche tweet, anche perchè ovunque le critiche sempre motivate si sono ispirate ad argomenti unanimemente condivisi. Tanta unanimità non si è mai registrata in passato. È la prova provata che le correnti non c’entrano niente».
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 26th, 2015 Riccardo Fucile
LE RIPRESE TV RESTERANNO OFF LIMITS
C’è una telecamera-ombra che da qualche mese, silenziosamente, accompagna Matteo Renzi. E’ la telecamera di palazzo Chigi, “guidata” da un operatore dell’ufficio stampa e che segue il presidente del Consiglio in tutte le sue trasferte.
Un’usanza non solo italiana, anche se ogni tanto, ecco il tocco originale, l’ingresso in alcuni luoghi viene interdetto alle telecamere delle tv e le uniche immagini sono quelle prodotte da palazzo Chigi, che poi provvede a “regalarle” a chi vuole.
Immagini che restano a disposizione anche dei cittadini sul sito di palazzo Chigi, www.governo.it.
L’off limits si è materializzato qualche sera fa: Matteo Renzi ha accompagnato Angela Merkel in visita al museo degli Uffizi e le telecamere delle televisioni pubbliche e private non sono state fatte entrare.
C’era solo quella di palazzo Chigi e successivamente – dopo apposito montaggio e scelta delle immagini – si è provveduto a far pervenire il “pacchetto” alle emittenti interessate.
Immagini suggestive, inevitabilmente “patinate”, che tutte le tv hanno preso e poi trasmesso nei vari tg.
Sono rarissime le occasioni nelle quali l’accesso è totalmente off limits, circoscritto soltanto all’operatore di palazzo Chigi.
Per esempio nelle visite alle scuole. Inizialmente non c’erano limitazioni all’accesso, ma dopo l’”incidente” di Siracusa (la canzoncina per il premier), è cambiato registro e le uniche immagini accessibili sono quelle girate da palazzo Chigi.
Soltanto immagini ufficiali in occasione della visita, ai primi di gennaio, del presidente del Consiglio negli Emirati Arabi Uniti, dove gli operatori di Rai e Sky non sono mai riusciti a inquadrare Renzi e le uniche immagini dell’incontro con il Principe Ereditario sono state quelle fornite da palazzo Chigi, non si è capito se per ragioni di protocollo.
Qualche problema, molto interno, anche in occasione del discorso pronunciato dal presidente del Consiglio all’Europarlamento di Strasburgo.
In quel caso palazzo Chigi aveva preso il “segnale” del Parlamento, ma poichè la regia strasbrurghese indugiava sui contestatori (Salvini in particolare), è stato chiesto a Roma di utilizzare un proprio segnale, concentrando la telecamera sul presidente del Consiglio.
Foto selezionate ed ufficiali sono anche quelle rilanciate su Instagram da Filippo Sensi (portavoce del presidente del Consiglio) che ogni tanto “fissa” immagini di lavoro, di ministri e dirigenti del Pd, colti in pose evocative.
Novità della stagione renziana che non hanno nulla a che fare con tentazioni censorie – se non altro per la quantità ridotta di occasioni – ma che segnalano una vocazione del premier e del suo portavoce Sensi a dare una forte impronta al “racconto”, un plot che va incoraggiato, ogni tanto, con l’utilizzo di immagini esclusive ed “ufficiali”.
Fabio Martini
(da “La Stampa”)
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Gennaio 26th, 2015 Riccardo Fucile
NEL 2010 UNA INFORMATIVA DELLA MOBILE NE CHIEDEVA LA CUSTODIA CAUTELARE
Un ministro antimafia e un ex consigliere regionale che la Mobile di Reggio Calabria voleva arrestare
per scambio di voti con la ‘ndrangheta.
Dopo oltre due mesi dalle elezioni regionali, il governatore della Calabria Mario Oliverio ha composto la nuova giunta in cui trovano spazio l’ormai ex ministro Maria Carmela Lanzetta e l’ex consigliere regionale del Pd Nino De Gaetano.
Alla prima, che lascia Palazzo Chigi per Palazzo Alemanni a Catanzaro (sede della giunta regionale), Oliverio ha dato la delega alle Riforme istituzionali e Semplificazione amministrativa, mentre Nino De Gaetano si occuperà delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Gli altri due assessori sono Enzo Ciconte (vicepresidente con delega al Bilancio, Personale e Patrimonio) e Carlo Guccione, il consigliere regionale di Cosenza più votato al quale Oliverio ha affidato l’assessorato al Lavoro.
Il primo elemento importante di questa giunta, però, resta la nomina della Lanzetta. Renzi fa fuori così un suo ministro e chiede al governatore della Calabria Mario Oliverio di poterla parcheggiare a Catanzaro.
Una trattativa che dura da giorni e che ha trovato le maggiori resistenze proprio nell’ormai ex ministro Lanzetta, prima civatiana e poi fulminata sulla via di Renzi.
Il premier, infatti, aveva chiesto al governatore calabrese di darle la vicepresidenza e su questo c’erano state le rassicurazioni anche del suo fedelissimo segretario regionale e renziano doc Ernesto Magorno.
Uomo di D’Alema e Cuperlo, Mario Oliverio però ha risposto picche a Renzi e ha assegnato all’ex ministro Lanzetta un assessorato minore che non gestisce nè soldi nè potere in Calabria.
A destare più clamore, però, è la nomina di De Gaetano, il cui nome compare nell’inchiesta “Il Padrino” contro la cosca Tegano di Archi, una delle principali famiglie mafiose di Reggio Calabria.
Nel rifugio del latitante Giovanni Tegano, boss di Archi e protagonista della seconda guerra di mafia, la squadra Mobile ha ritrovato parecchia documentazione elettorale relativa alle regionali del 2010 quando De Gaetano si presentò con Rifondazione comunista.
Secondo la polizia, in quel covo c’erano “troppi santini” per pensare che si trattasse di un caso.
Piuttosto erano così tanti da pensare che “potessero essere utili anche ad una campagna promozionale in favore del politico”.
“Si registra — scrivono i magistrati — l’avvio della campagna elettorale di Pellicano Giovanni (arrestato a dicembre nell’operazione “Il Padrino”) in favore dell’on. Nino De Gaetano, con la raccolte delle promesse elettorali da parte dei ‘compari’ di San Luca”.
Nel corso di una conferenza stampa tenuta nel dicembre 2014 il procuratore Federico Cafiero De Raho aveva ribadito come sul punto fossero ancora in corso accertamenti. Intanto, sempre nel provvedimento di fermo, riferendosi all’appoggio elettorale della cosca Tegano ricevuto dall’ex consigliere regionale Nino De Gaetano, i magistrati la definiscono “una incresciosa vicenda, che squarcia in modo violento alcuni retroscena legati alle discutibili metodologie di appoggio e promozione politico-elettorale adottate in questo capoluogo da esponenti delle cosche mafiose in favore di alcuni candidati in occasione delle amministrative tenutesi nell’anno 2010”.
Genero di Giuseppe Suraci (medico dei Tegano), il politico “è stato, tra l’altro, presidente della Commissione contro il fenomeno della mafia in Calabria”.
Qualche anno fa, il neo assessore ai Trasporti e alle Infrastrutture della Calabria ha rischiato anche di essere arrestato. In un’informativa della squadra Mobile, firmata dal dirigente Gennaro Semeraro e dal suo ex vice Francesco Rattà , gli investigatori della polizia di Stato avevano sottolineato a carico di Nino De Gaetano “i gravi indizi di colpevolezza” che “consentono per la loro genuinità , di prevedere l’idoneità a dimostrare la responsabilità dei medesimi e come tali, attesa la natura dei delitti ipotizzati, che sussistano senz’altro a loro carico, le esigenze cautelari”.
“Vorrei ringraziare di cuore il presidente Mario Oliverio per avermi nominato assessore — è stato il commento su facebook di Nino De Gaetano — darò il massimo per cambiare la nostra amata Calabria. Infine vorrei ringraziare i tantissimi compagni e amici che mi hanno sostenuto con forza in questi mesi”.
Oltre all’aspetto giudiziario, c’è da capire quello politico.
Prima di comporre le liste per le regionali, il governatore Mario Oliverio si era opposto alla ricandidatura di Nino De Gaetano e di altri consiglieri regionali uscenti poichè aveva alle spalle “addirittura” due legislature.
Troppe per il “rinnovamento” diversamente renziano del presidente della Regione disponibile, però, a nominarlo assessore ai Trasporti e alle Infrastrutture.
Lucio Musolino
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 26th, 2015 Riccardo Fucile
SPESE MILITARI, IL RUOLO DELLE LOBBY
A chi strepita quando si paventano tagli agli armamenti suggeriamo di andare a vedere che cosa è successo alle 8,30 di martedì 20 gennaio alla commissione Difesa della Camera.
Dove si è accertato che quasi un terzo del costo previsto per il rinnovo della flotta della Marina militare sarebbe servito a coprire gli interessi sui mutui per finanziare il tutto: 1,6 miliardi su 5,4. Ossia il 29,7 per cento.
Lo 0,1 per cento del pil, e solo per ripagare il costo del denaro necessario a comprare sei pattugliatori e una nave d’altura dalla Fincantieri.
Spesa inutile, dato che i soldi in bilancio ci sono. E ancora più inutile se è vero che l’ipotesi del finanziamento bancario era già improvvisamente svanita in commissione Bilancio quando qualcuno aveva avanzato la fatidica domanda: «Quale banca?».
Ragion per cui si stabilisce in Parlamento che tutti quei soldi non si spenderanno per gli interessi ma semmai per altri investimenti. E pazienza se qualcuno mastica amaro.
Dice tutto, questa vicenda, su quanto grasso ci sia in certe commesse militari.
Ne sa qualcosa pure l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, secondo cui le nostre spese per la Difesa sono di 3,2 miliardi superiori al «benchmark», ovvero il punto di riferimento ideale europeo.
Il che consentirebbe, diceva la sua proposta, di risparmiare almeno due miliardi e mezzo entro il 2016. Ipotesi che non aveva certo aumentato la popolarità di Cottarelli presso generali e ammiragli. E forse non solo.
Ma la storia del programma navale che abbiamo appena raccontato spiega pure l’origine dei contrasti crescenti fra le alte sfere militari, la burocrazia del ministero e un pezzo del Parlamento. Con riflessi non trascurabili dentro lo stesso Pd, che esprime il ministro della Difesa.
Due anni fa, durante il governo Monti, passa una legge che prescrive per la prima volta il parere vincolante del Parlamento sui programmi militari.
Relatore è l’attuale capogruppo del Pd in commissione Difesa, Gian Piero Scanu, che non si dev’essere fatto molti amici negli Stati maggiori. Ed è qui che si rompe il giocattolo. Come dimostra il caso del programma navale.
Non per questo le lobby militari si danno per vinte. Ma almeno adesso c’è l’obbligo di far vedere tutte le carte.
Prima di quella norma deputati e senatori si dovevano accontentare di dare una sbirciatina al dèpliant di un carro armato senza conoscerne la reale utilità , nè il reale valore rispetto ai costi.
E dicevano sempre sì. Il loro parere era semplicemente consultivo e il ministero, cioè i vertici militari, potevano benissimo non tenerne conto.
Nel corso degli anni si sono così accumulati ben 86 programmi di armamenti: talvolta dettati soltanto da una sconsiderata logica di concorrenza fra le varie Forze armate, senza serie valutazioni economiche.
L’indagine conoscitiva di 1.024 pagine sfornata a maggio scorso della commissione Difesa della Camera dice che si tratta di una partita giocata tutta dentro gli apparati, in perfetta sintonia con gli interessi delle industrie.
Con il ruolo della politica ridotto a quello di semplice spettatore.
Per dirne una, mentre manteniamo l’impegno a comprare 90 caccia F35 dall’americana Lockheed Martin continuiamo a partecipare al programma del caccia europeo Eurofighter, anche se con fondi non della Difesa, ma del ministero dello Sviluppo.
Ecco che cosa c’è scritto nell’indagine: «L’assenza di un organismo di controllo sulla qualità degli investimenti ne circoscrive le valutazioni all’interno di un circuito chiuso rappresentato dai vertici industriali e dai vertici militari. L’autoreferenzialità è accentuata dal fenomeno ricorrente costituito dalla presenza di figure apicali del mondo militare che vanno ad assumere posizioni di rilievo al vertice delle industrie della difesa».
Più chiaro di così.
Da questo si capisce perchè quella legge che impone il parere vincolante del Parlamento sia tanto indigesta.
E lo è ancora di più per un altro principio che viene affermato lì dentro: quello secondo cui le spese militari dovranno essere ripartite al 50% per il personale e al 25% rispettivamente per l’esercizio e gli armamenti.
Quote che oggi sono ancora ben lontane dall’essere rispettate.
Se si considera l’ammontare totale degli stanziamenti, nel 2014 sono stati destinati ai sistemi d’arma 5 miliardi e 650 milioni, cioè 2,1 miliardi più dei 3,5 che rappresenterebbero il 25% del bilancio della Difesa.
E senza garanzie, stando all’indagine parlamentare, su qualità , costo e soprattutto logica degli investimenti. Le sovrapposizioni fra le varie Forze armate, per esempio.
Che a dispetto dei propositi non ci sia nessuna voglia di razionalizzazione, si capisce da piccoli ma significativi dettagli.
Basta dare un’occhiata al sito internet del ministero della Difesa, che espone un monumentale organigramma degli uffici di diretta collaborazione del ministro Roberta Pinotti, la quale nel precedente governo di Enrico Letta aveva l’incarico di sottosegretario.
Una struttura che allude alla presenza forse di centinaia di collaboratori, dove il capo di gabinetto ha ben quattro vice: uno per la Marina, uno per l’Esercito, uno per l’Aeronautica e uno per i Carabinieri.
C’è poi un aiutante di campo per l’Esercito, uno per i Carabinieri, un aiutante di volo e un aiutante «di bandiera». Tutti generali, ammiragli e alti ufficiali a presidiare con il bilancino il campo di gioco.
La legge di stabilità ha ora previsto una riduzione del 20% degli sterminati organici del gabinetto della Difesa.
Anche se, forse per bilanciare quel modesto sacrificio, la medesima legge ha stabilito l’ampliamento dei margini di manovra di una società per azioni controllata dal ministero proprio nel momento in cui dovrebbe partire la grande operazione di cessione di immobili e alloggi militari.
Si chiama «Difesa servizi» e gestisce alcune attività collaterali, dai panelli fotovoltaici sui tetti delle caserme alla valorizzazione dei marchi delle Forze armate.
La sua nascita, fortemente voluta dall’ex ministro del centrodestra Ignazio La Russa, era stata impallinata dal Pd
Roberta Pinotti, all’epoca ministro ombra del partito, c’era andata giù pesantissima, definendola una iniziativa «grave e inaccettabile», tesa a «stravolgere completamente il funzionamento del ministero» con un «blitz per costituire una società privata per la gestione dei beni del demanio militare e per controllare gli appalti del settore».
Ma una volta ministro deve aver cambiato radicalmente opinione.
Al punto da nominare amministratore delegato della società un ex deputato del Pd rimasto senza seggio, già capo della sua segreteria: Pier Fausto Recchia.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 26th, 2015 Riccardo Fucile
IL CENTROSINISTRA DI TO POTAMI NON CI STA…LA GRECIA HA UN GOVERNO
Accordo al primo colpo. Almeno secondo quanto riferito da Panos Kammenos, il leader del partito Greci
Indipendenti, la destra di Anel, al termine del colloquio con Alexis Tsipras, fresco trionfatore delle elezioni politiche.
“Il partito Greci Indipendenti sosterrà il governo che sarà formato dal presidente incaricato Tsipras. Da questo momento il Paese ha un nuovo governo” ha dichiarato Kammenos.
Non ci sarà invece il sostegno di To Potà mi, che “non parteciperà al governo Syriza nè gli darà il suo appoggio esterno dal momento che esso sarà formato con il partito Greci Indipendenti” ha detto Stavros Theodorakis, leader della formazione di centro-sinistra.
Con la quasi totalità dei voti scrutinati, il partito di sinistra radicale Syriza ha ottenuto il 36,34% e 149 seggi, mentre Nea Dimokratia (ND, centro-destra) il 27,81% e 76 seggi.
Al terzo posto si è piazzato il partito di estrema destra Chrysi Avghì (Alba Dorata) con il 6,28% e 17 seggi.
Seguono nell’ordine To Potà mi (Il Fiume, centro-sinistra) con il 6,05% con 17 seggi, il Partito Comunista di Grecia con il 5,47% e 15 seggi, Greci Indipendenti (Anel) con il 4,75% e 13 seggi e il Pasok (socialista) con il 4,68% e 13 seggi.
Oggi Tsipras sarà ricevuto dal presidente della Repubblica Karolos Papoulias che gli conferirà l’incarico di formare il governo.
Benchè agli antipodi politicamente le due formazioni sono uniti dal fronte comune anti-austerità .
Anel è nata nel 2012 da una scissione dei conservatori di Nea Dimokratia.
L’intesa apre quindi all’affidamento a breve dell’incarico di formare il governo a Tsipras da parte del presidente uscente Karolos Papoulias.
Potendo contare già su un totale di 162 voti su 300 (149 di Syriza e i 13 di Anel) Tsipras potrebbe gia essere al lavoro con un esecutivo nel pieno dei poteri già da mercoledì mattina, come prevede la legge che concede tre giorni di tempo al premier incaricato.
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Gennaio 26th, 2015 Riccardo Fucile
SYRIZA VOLA AL 36% E CONQUISTA 149 SEGGI SU 300… I CENTRISTI DI “TO POTAMI” DISPONIBILI A UN APPOGGIO ESTERNO
Syriza di Alexis Tsipras a un passo dalla maggioranza assoluta nelle elezioni politiche in Grecia (dove ha votato oltre 63% degli aventi diritto, a giugno 2012 era il 62,5% ): Il partito di Tsipras, col 78% delle schede scrutinate, ha 149 seggi su 300.
La maggioranza assoluta è di 151 seggi.
Le percentuali: Syriza è data al 36,21%. I conservatori di Nuova Democrazia sono nettamente indietro al 27,99% con 77 seggi.
Il terzo partito greco è invece ufficialmente l’estrema destra di Alba Dorata col 6,32%, pari a 17 seggi. Solo quarti i centristi di To Potami al 5,98% (16 seggi).
Seguono i comunisti del Kke al 5,46% con 15 deputati.
A seguire i socialisti del Pasok al 4,72% (13 seggi), ultimi i Greci Indipendenti (scissionisti di Nuova Democrazia) al 4,70% (13 seggi).
Il 40enne Alexis Tsipras, al momento della formazione del nuovo governo, diventerà il più giovane premier greco degli ultimi 150 anni.
Dopo ore di attesa, quando i dati sono quasi definitivi, Alexis Tsipras parla alla folla che lo acclama sotto la sede di Syriza ad Atene: « Oggi il popolo greco ha fatto storia. I popolo greco ha dato un ordine molto chiaro: la Grecia volta pagina, abbandona l’austerità , la catastrofe, lascia la paura dietro di se, lasca 5 anni di sofferenze e chiude circolo vizioso dell’ austerità , annulla l’accordo di austerità con la troika che è il passato».
Queste le parole del leader che continua illustrando i piani per il futuro: «Troveremo con l’Europa una nuova soluzione per far uscire la Grecia dal circolo vizioso (dell’austerità ) e per far tornare a crescere l’Europa. La Grecia presenterà ora nuove proposte, un nuovo piano radicale per i prossimi 4 anni».
« Il nuovo governo greco negozierà «una soluzione finanziaria giusta e vantaggiosa per tutte le parti», ha detto ancora Tsipras.
Il leader della formazione centrista e filo-Ue ‘To Potami’ (il fiume in greco), Stavros Theodorakis, ha annunciato di essere pronto a sostenere con un appoggio esterno un eventuale governo guidato da Alexis Tsipras, leader di Syriza.
Ma senza entrare nel governo, a prescindere se Syriza supererà la soglia dei 151 seggi su 300
“Potami è qui. Diremo sì alle proposte che condivideremo e ci opporremo quando la sicurezza del Paese sarà messa a rischio”, ha chiarito l’ex giornalista, spiegando che intende “fare di tutto per scongiurare nuove elezioni”, come accade nel 2012, quando si votò a maggio e poi a giugno.
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Gennaio 25th, 2015 Riccardo Fucile
VERDINI E LOTTI ALL’OPERA PER IL CONTROLLO DEL VOTO
Nel Nazareno, inteso come patto del Nazareno, è scattata l’ora del terrore. Del “controllo” totale dei
parlamentari.
Quando, due giorni fa, Raffaele Fitto ha convocato la sua la conferenza stampa, ha chiesto ai suoi di essere presenti in sala: “Fatevi vedere — ha spiegato a chi lo chiamava — perchè dobbiamo dire ‘eccoci”, metterci la faccia di fronte alle pressioni che stiamo ricevendo. Vogliono farci rientrare con le buone e con le cattive”.
Più di un parlamentare gli ha raccontato che Denis Verdini si è rimesso a lavorare per portare deputati alla Causa, come ai tempi delle grandi conte per far cadere governi o compensare scissioni interni.
Dall’operazione Sergio De Gregorio a quella “responsabili” con Razzi e Scilipoti.
Un lavoro che terminerà con la compilazione di una “Nazareno’s list”, così è stata ribattezzata dagli oppositori, frutto dell’incrocio dei dati di Verdini e quelli di Luca Lotti, il braccio destro del premier incaricato a compilare l’elenco dei buoni e dei cattivi.
Nel Palazzo in molti hanno visto la sua mano dietro la pubblicazione, sul Foglio, di “una lista importante che gira a palazzo Chigi, piena di numeri, di appunti, di calcoli su quella che sarà la sfida delle sfide, l’elezione del presidente della Repubblica”.
Verdini e Lotti si incontreranno lunedì mattina ed è l’appuntamento nell’ambito della trattativa tra Renzi e Berlusconi.
Perchè consentirà ai due, quando si incontreranno il giorno successivo nella sede del Pd, di identificare il candidato e la strategia — eleggerlo alla prima o quarta votazione — in base a numeri certi.
Ecco perchè in queste ore si è intensificata la caccia all’incerto, all’opportunista, al timoroso.
Sul Fatto, in un articolo di Fabrizio D’Esposito, è riportato lo sfogo di un parlamentare dem, a proposito di come avviene il controllo del voto: “Il premier scatenerà l’Armageddon minacciando le elezioni anticipate se non votiamo il presidente del Nazareno. E a chi verrà comprato di noi, con la promessa di una ricandidatura, sarà chiesta la prova di fedeltà ”.
Sempre secondo il Fatto, la prova di fedeltà sarebbe uno scatto del voto col telefonino, nel segreto dell’urna presidenziale.
Sia come sia è chiaro che il timore di molti è che la lista di “sicuri”, in “bilico”, “persi” sul Quirinale coincida con le prossime liste elettorali: sicuramente candidati, in bilico, fuori dalle liste.
Insomma, l’aria è pesante. P
ier Luigi Bersani è tornato a casa per il week end. Ma il suo telefono è bollente: “Al momento — ha detto a uno dei suoi — non vedo da Renzi segnali di apertura reale”.
Al netto delle rassicurazioni a parole (“Si partirà dal Pd”), nei fatti l’interlocuzione fondamentale resta con Berlusconi.
E l’ex segretario del Pd si è convinto che “Matteo” non ha cambiato lo schema originario: un Avatar al Quirinale da eleggere con Berlusconi, in cambio della “salva-Silvio”.
Non è un caso che l’incontro con Berlusconi, martedì, è stato fissato alle sette di sera, quanto il voto al Senato sull’Italicum sarà terminato.
Significa che Berlusconi non ha intenzione di alzare la posta neanche un po’ usando il suo potere negoziale sul Senato. E che c’è quella “profonda sintonia” sbocciata anche all’incontro di un anno fa.
L’Avatar può essere anche del Pd. L’importante è che sia Avatar. Anzi starebbe proprio qui la malizia dell’operazione.
Ci sono dei nomi che si prestano al tempo stesso a non “oscurare” il manovratore e a dire, alla minoranza: “Come fate a dire no?”.
I nomi in questione, sono: Graziano Delrio, Paolo Gentiloni, Sergio Chiamparino, Piercarlo Padoan. Soprattutto Graziano Delrio. Stimato nel Pd, mite, ottimi rapporti con sindaci e autonomie (ovvero i componenti del nuovo Senato) compirà 55 anni ad aprile. È uno spot perfetto: il più giovane presidente della Repubblica italiana nell’era del più giovane presidente del Consiglio.
Per lo spot serve la sicurezza dei numeri.
Al momento i voti sicuri di Forza Italia, su 130 grandi elettori, sono un’ottantina. Dentro il Pd, secondo il Foglio, i voti sicuri sono 275 voti sicuri, 99 a rischio, 41 persi.
Sulla carta la platea elettorale del “patto del Nazareno” è di 758 grandi elettori.
Per affossarla sono necessari 253 franchi tiratori. Senza il recupero dei “parlamentari a rischio” ci sono.
L’ora del terrore è scattata: “Controllate i parlamentari”.
(da “Huffingtonpost“)
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Gennaio 25th, 2015 Riccardo Fucile
I DUE TOSCANI DIETRO IL NEGOZIATO
Poi, alla fine, arriverà il tramonto di martedì: e Silvio Berlusconi varcherà , per la seconda volta, il portone di largo del Nazareno.
Ma le ore in cui si decide tutto sono queste
È un lavoro diplomatico e politico complesso. Occorrono astuzia e cinismo, sveltezza, freddezza e cattiveria. Molti millantano, giurano d’essere dentro ai giochi. Bluffano.
Per rinnovare gli accordi di base del celebre patto e stabilire chi possa essere il nuovo presidente della Repubblica, buttare giù qualche candidatura più credibile e solida di altre e quindi trattare, ricattare e promettere a nome e per conto del Cavaliere e del premier, sono in queste ore al lavoro due sole persone.
Soltanto due. Luca Lotti e Denis Verdini (in rigoroso ordine alfabetico).
Provate ad avvicinarvi a Lotti e a chiedergli quanto si senta potente: vi prenderà sottobraccio, i boccoli biondi con dentro uno sguardo gelido, e vi spiegherà con parole dolci e il tono persuasivo che non bisogna mai andare dietro a ciò che scrivono i giornali, i giornalisti inventano, lui è solo un semplice sottosegretario alla Presidenza, certo la sua grande amicizia con Matteo Renzi gli permette forse di sapere qualcosina in più e così, lentamente, proprio perchè sei tu, mezza parola qua, mezza là , comincerà a fingere di rivelarti in via eccezionale qualche informazione riservata.
Chi gli crede, va a sbattere regolarmente.
Fate la stessa domanda a Verdini. Quanto si sente potente? Coraggio, non faccia il modesto. Il senatore Verdini ti osserverà immobile come il personaggio d’un film di Sergio Leone e resterà muto, lo sguardo che è un miscuglio di compiacimento e disprezzo, un uomo di potere che non nega di avere potere, ma che non proverà neppure per un istante a dimostrare di esserti amico; lo vedrai allontanarsi nel corridoio e ti resteranno impressi i suoi mocassini di camoscio blu con le nappine e il suo orologio d’oro massiccio.
Lotti ha 32 anni, Verdini 63. Entrambi sono toscani: Lotti di Montelupo, Verdini di Fivizzano.
Detestano partecipare ai talk-show, rilasciare interviste, essere contraddetti (un mese fa, a Palazzo Grazioli, fecero appena in tempo a togliere dalle manone di Denis il terrorizzato Brunetta. Che, però, gli aveva anche detto: «E non sputare quando parli!»).
Verdini ha un controllo quasi militare del suo esercito (una volta, durante un voto, ordinò a Cicchitto di restare in Aula e trattenere la pipì), conosce a memoria tutti i fittiani ribelli e, in tanti anni, ha sbagliato una sola volta: quando spiegò al capo che Alfano se ne sarebbe andato con quattro gatti, e quelli invece furono abbastanza per tenere in piedi il governo Letta al Senato.
Lotti, che ha meno esperienza, s’aiuta ancora con i foglietti: questo è renziano, questo fa il furbo, questo è bersaniano, con questo ci parlo domani, questo lo faccio chiamare dalla Boschi.
Mentre Verdini lavora in totale solitudine, dopo aver mandato in frantumi il «cerchio magico» berlusconiano – sparita, da settimane, Mariarosaria Rossi; la signorina Francesca Pascale che posa solitaria su motociclette da dark-lady; Capezzone ormai d’osservanza fittiana: «Per caso viene anche Denis?» – ecco, mentre Verdini li ha limati via tutti, Lotti continua a collaborare, sul piano delle strategie, con il ministro Maria Elena Boschi.
Di lei, si fida. Ma solo di lei (quando Renzi entrò a Palazzo Chigi, il gruppo del «Giglio magico» era più folto: Delrio, Nardella, Bonafè…).
Come avrete intuito, nonostante uno possa essere il figliolo dell’altro, Luca e Denis hanno molto in comune: compresa, ovviamente, l’enorme ostilità della minoranza del Pd.
Ci sono bersaniani che parlando di Lotti usano termini irriferibili. Mettono su facce allibite, ti dicono che loro guidavano dicasteri mentre Lotti allenava la squadra di calcio femminile del suo paesino.
E, appena possono, ti raccontano il solito aneddoto (trovatene altri, please). «Sai come sono diventati amici lui e Renzi? Allora, era il giugno del 2006 quando Matteo, che all’epoca era presidente della Provincia di Firenze, manda un sms a un suo consigliere. Sull’sms, c’è scritto: “Quel Luca che m’hai presentato alla festa della ceramica, ha mica voglia di fare esperienza in Provincia? No, perchè se ha le ‘palle’, come mi hai detto, in poco tempo te lo formo a dovere”. Capito da che razza di scuola politica arriva Lotti?».
Commentando invece le vicende giudiziarie di Verdini – rinviato a giudizio nell’inchiesta P3 e per la gestione della banca Credito cooperativo fiorentino – una volta Rosy Bindi quasi si sentì male. «Scusate… se continuo a parlare, svengo».
Ultima cosetta: martedì, nè Verdini nè Lotti parteciperanno all’incontro del Nazareno.
Sublime, chicchissima dimostrazione di potere.
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 25th, 2015 Riccardo Fucile
VENDOLA LANCIA LA DOPPIA MILITANZA, MA GLI OSPITI DEM FRENANO
La “sala parto” di Milano non ha funzionato. 
Complice anche la vigilia delle elezioni per il Quirinale, la tre giorni “Human Factor” di Sel non ha partorito il nuovo partito di sinistra da schierare contro Renzi nel nome di Tsipras.
Ma, tanto per restare in ambito ginecologico, è difficile persino scorgere l’embrione della nuova sinistra, fortemente voluta da Vendola, uno dei potenziali genitori.
Mentre l’altro, la minoranza dem, ancora non se la sente. Troppo forte il cordone ombelicale con la vecchia Ditta Pd, anche se ha cambiato padrone e ragione sociale.
E così, i quattro moschettieri dem che arrivano sul palco della Permanente di Milano, Civati, Cuperlo, Fassina e Pollastrini, gelano subito le aspettative della folta platea (migliaia di presenze nel weekend), chiarendo che sì, il dialogo con Sel va ricostruito, Renzi non ne azzecca una, ma “calmi, io non lascio il Pd”, come afferma Civati, dopo aver illuso i compagni affermando che “io qui mi sento a casa”.
Il deputato di Monza spera di poter recuperare terreno dentro il Pd, e così “ricostruire il centrosinistra con Sel, che si è rotto quando non si è votato Prodi al Quirinale nel 2013”.
“Io non sono minoranza, facciamole le primarie tra la nostra gente per sapere cosa ne pensa del patto con Berlusconi, voglio vedere come vanno a finire…”, insiste Civati, che accoglie la critica di Rodotà alla somma di frammenti di partito e spiega: “Dobbiamo partire da un progetto di governo, cosa farebbe la nuova sinistra sui temi più rilevanti dell’agenda?”.
Anche Fassina e Cuperlo, pur attaccando Renzi a più riprese, escludono rotture del Pd, e si limitano ad auspicare una collaborazione con Sel “che ci porti a una piattaforma comune pur restando ognuno nel proprio partito”, dice l’ex viceministro.
Vendola, nel suo lunghissimo intervento conclusivo, lancia l’idea di un “coordinamento” tra i vari soggetti riuniti a Milano, una “doppia militanza” che parta da iniziative comuni “sui temi dei diritti”.
“Non sarà un rassemblement di come eravamo o la somma algebrica delle sinistre del passato”.
A febbraio, secondo il governatore pugliese, i militanti delle varie forze dovrebbero lavorare insieme nei circoli e sui territori, per poi arrivare a un nuovo appuntamento comune “a primavera“.
“Dobbiamo realizzare un rimescolamento dei popoli, spartire insieme il pane della buona politica”, propone il leader di Sel.
Ma Fassina e Civati nicchiano. “Lo vedo più come un discorso di ricerca e di analisi comune, anche con iniziative e campagne insieme”, dice il primo.
E Civati ricorda come, nei fatti, la collaborazione tra Sel e minoranza Pd sia già in atto, “anche in Parlamento”.
“La doppia militanza facciamola in modo intelligente, condividendo battaglie comuni, come abbiamo già fatto a dicembre con i 10 punti per un nuovo centrosinistra, firmati anche da Sel”, spiega Civati ad Huffpost.
“Dobbiamo stare leggeri, concentrati sui contenuti, evitiamo di eccedere con la burocrazia e i coordinamenti”.
“Good luck e camminiamo insieme”, chiude Cuperlo. “dentro il Pd c’è una comunità che intende battersi a viso aperto e che è capace di innovazione profonda”.
Sono quei circoli e quegli iscritti di cui parla anche Fassina. E che vengono citati da Giuliano Pisapia.
Il sindaco di Milano spinge Sel a mescolarsi con il popolo delle feste dell’Unità “che non ama le larghe intese e vuole allearsi con noi. Io credo che questa sia la vera maggioranza del Pd”.
E lancia alcune stoccate al suo partito: “L’Italia non è la Grecia, lì c’è stato un lavoro di anni e anni, qui veniamo dai fallimenti della Lista Arcobaleno, di Ingroia, e anche la lista Tsipras non è andata oltre il quorum”.
Di qui la frustata di Pisapia, l’invito all’autocritica: “Bisogna avere l’obiettivo di vincere e governare, non di superare il 4%, dobbiamo essere più innovativi”.
C’è anche una stoccata al leader, l’invito alla “rotazione degli incarichi” e a “cambiare cavallo”.
Più incoraggianti Landini e Cofferati, che mandano due messaggi.
“Continueremo a camminare insieme”, scrive il leader Fiom. “Un’altra storia è vicina”, dice l’ex leader Cgil uscito dai democratici pochi giorni fa.
A Vendola tocca la chiusura, durissima con Renzi, “giovane leader del populismo conservatore”, che “rispetto al Parlamento si comporta ancor peggio di Berlusconi”. “Non sciolgo Sel, ma ai miei dico che dobbiamo fare molti passi avanti”, sono le parole finali, per dire che “questi tre giorni non sono stati un episodio, ci rivedremo presto, non è stato il ballare di una sola giornata”.
Per ora è difficile pensare a un doppio tesseramento di massa. Più facile immaginare una cooperarazione rafforzata in Parlamento tra Sel e minoranza dem, dalle riforme ai dossier economici.
Ma il voto sul Quirinale può rompere tutti gli schemi, frenare o anche accelerare il nuovo processo a sinistra. In queste ore, alla vigilia dell’incontro di Renzi con i gruppi parlamentari (previsto per lunedì mattina), la minoranza dem punta le sue fiches su un accordo dentro il Pd per il Colle.
E per questo in parte schiva l’abbraccio di Nichi e compagni. “Voglio archiviare il passato e cercare una convergenza”, dice Fassina a margine dell’evento di Sel.
Solo due giorni fa aveva definito Renzi il capo dei 101. Il 29 gennaio si vota per il dopo Napolitano, non è il momento per strategie di lungo periodo.
(da “Hufffingtonpost”)
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