Febbraio 6th, 2015 Riccardo Fucile
LA PROSSIMA SETTIMANA LE RIFORME APPRODANO IN AULA: SE BERLUSCONI NON RICOMPONE IL PATTO DEL NAZARENO, VERDINI CALERA’ LA MASCHERA
C’è un motivo se, quando Berlusconi lo ha chiamato giovedì, lui ha garbatamente declinato l’invito a
pranzo.
Nè ha accettato l’invito ad Arcore per questo week end.
Perchè per Verdini non è una questione di mozione degli affetti. Certo, la voce mielosa di Silvio gli ha fatto piacere, segno che il rapporto umano resta.
Ma il chiarimento che vuole è politico. Per la prima volta, tra i due, aleggia l’ombra di una rottura. Anche se non immediata.
E c’è una dead line temporale, nella testa del toscanaccio che conosce troppo bene Silvio e sa che è capace di clamorose inversioni tattiche e sconfessioni di se: “Denis aspetta una settimana, poi si muoverà per tutelare il Patto del Nazareno”.
È questo che sussurra un parlamentare che lo ha sentito più volte.
Il segnale, uno dei tanti, lo ha dato il senatore di Gal Giuseppe Ruvolo, detto Peppe: “Il mio pronostico è che nascerà il gruppo del salva-patto del Nazareno”.
Berlusconi e Verdini si scrutano, ponderano le mosse.
Con l’attenzione di chi non vuole fornire all’altro il pretesto per un affondo. È così che l’ex premier pare aver messo il silenziatore a quelli del cerchio magico.
Giovanni Toti ha disdetto la partecipazione a Otto e Mezzo prevista per giovedì, la Rossi non dà più interviste.
Perchè la prima cosa che Denis vuole vedere in questa settimane è se continueranno gli attacchi verso di lui dalle donne del cerchio magico, che definisce in modo assai poco signorile.
E se sul Nazareno Berlusconi passerà dagli sfoghi ai fatti, dando l’ordine di votare contro le riforme da martedì alla Camera.
Perchè le parole sono incendiarie. Dopo che gli hanno portato la notizia dell’emendamento su Mediaset e sul falso in bilancio, ha pronunciato frasi di fuoco con Renzi, questo “ragazzo” che prima ha tradito i patti e poi si è messo a usare metodi da “dittatore”.
Con il cerchio che gli sta attorno — sempre pronto ad applaudire — si è pure detto certo che si voterà ad ottobre, che sarà in campo e batterà Renzi. E quindi, linea dura.
Tanto che ha chiamato parecchi esponenti dell’ala a lui vicina di Ncd, per capire quando strapperanno col governo.
Ecco, se da un lato Verdini ha i suoi “responsabili” di governo, Berlusconi prepara i “responsabili” di opposizione: “Certo — andava dicendo l’ex premier – con l’umore di chi si prepara alla pugna – che Salvini è stato geniale a Porta a Porta. Quando Alfano gli ha detto abbiamo votato Mattarella per la persona, Matteo gli ha risposto ‘ma quale persona, lo avete votato per la poltrona”.
C’è tutto un gruppo legato a Cicchitto, Lupi, Quaglieriello e Nunzia De Girolamo che spinge per portare Ncd a un appoggio esterno o a un’apertura della crisi.
Mentre sempre dentro lo stesso partito c’è un gruppo di 11 senatori legati a Castiglione e Viceconte che fece sapere che avrebbe votato Mattarella a prescindere. E che ora ha a cuore il prosieguo della legislatura. Molti del gruppo sono legatissimi a Denis Verdini.
Quelli di Gal al Senato, il gruppo di Ncd.
Più girano le voci di strappi più aumentano i soccorritori, come sa bene innanzitutto Renzi. E come sa l’inventore del metodo responsabili, Verdini. Il quale sa anche che un passo falso oggi lo farebbe additare a Corte come l’ennesimo traditore e come uno che trama alle spalle.
E invece l’obiettivo, fino a martedì quando le riforme approderanno in Aula, è ricomporre il Patto del Nazareno. E se Renzi ci prova con le cattive, mandando segnali su Mediaset e non rispondendo a telefono ai nuovi mediatori tipo Toti o Romani o la Bergamini, ci sono i vertici aziendali che ci provano con le buone.
Ennio Doris, uno che parla solo nei momenti cruciali, al Corriere dice: “Il patto tra Berlusconi e Renzi è cosa buona per il paese”.
E Confalonieri in questi giorni gioca di concerto con Letta e Verdini, il “duo tragico” messo sotto accusa da Maria Rosaria Rossi.
E chissà se in fondo su questa storia la verità non sta nell’analisi che fanno del giro stretto del premier: “Tutto questo casino è perchè Toti, Romani e la Bergamini vogliono prendere il posto di Verdini nel negoziato con Renzi. Quindi è un problema di riflettori, non di politica. Certo che Berlusconi, se non lo capisce, sta messo malissimo. Peggio per lui, noi i numeri ce li abbiamo”.
Il noi comprende anche Verdini. Che si prepara a un capolavoro.
Osservare da dentro Forza Italia la nascita di un “gruppo salva patto”.
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 6th, 2015 Riccardo Fucile
AL POSTO DELLA LANZETTA GIRANO I NOMI DELLA PARIS, DELLA FINOCCHIARO O DELLA ASCANI
Un posto nel governo val bene la lealtà sulle riforme. 
Mentre il patto del Nazareno traballa, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha bisogno di un Pd compatto sulla riscrittura della Costituzione.
E così mette sul piatto il ministero degli Affari Regionali, che fa gola a parecchi nel partito, a cominciare dai Giovani Turchi, l’area che fa riferimento a Matteo Orfini e al ministro della Giustizia Andrea Orlando.
Ma anche i bersaniani scrutano con attenzione l’evoluzione degli eventi.
“Si tratta di una questione che riguarda la maggioranza del partito”, liquida il discorso un deputato vicino a Pier Luigi Bersani.
Tuttavia un altro autorevole esponente del partito rivela: “Tra Mattarella e riforme, alcuni chiederanno una ricompensa”, alludendo proprio alla casella liberata da Maria Carmela Lanzetta.
Peraltro il progetto di Renzi prevede l’ampliamento delle funzioni degli Affari Regionali, che diventerà il ministero del Mezzogiorno.
Un piatto che ingolosisce ancora di più le correnti del Pd, tagliando fuori l’ipotesi di trasferire un’altra renziana nel governo.
A Palazzo Chigi stanno ragionando sui poteri da attribuire al nuovo dicastero, che prima di tutto avrebbe un ruolo simbolico per il rilancio del Sud.
Il dossier, comunque, è sul tavolo dell’ex rottamatore che ha già approntato la strategia: prima vuole il via libera alle riforme senza troppi capricci; dopo manterrà la promessa.
Una donna per il su
Dalla teoria dei posti da occupare, si passa ai nomi delle aspiranti ministre.
Il derby sarà tutto al femminile, giocato tutto sul versante sinistro.
Nella partita i Giovani Turchi vogliono avere un ruolo da protagonisti: dopo essersi contati sul voto per il Colle e dopo aver fatto esercizio di fedeltà , cercano la monetizzazione. In questo quadro presentandola candidata naturale: Valentina Paris, 33 anni, attuale responsabile Enti Locali nella segreteria del Pd.
L’identikit della candidata, del resto, è stato tracciato: serva una donna — per mantenere inalterata la presenza femminile nel Consiglio dei ministri -che sia meridionale e possibilmente giovane.
Appaiata a Paris c’è la siciliana Anna Finocchiaro, che riceverebbe un riconoscimento per aver gestito il percorso delle riforme nella commissione del Senato della quale è presidente.
“Per lei la ricompensa sarebbe più che giustificata…” sintetizza un esponente della minoranza.
La “ditta” in stand-b
Una cosa è certa: i bersaniani non faranno pressioni sul nome di Finocchiaro, che dopo i suoi trascorsi da fedelissima dalemiana è sulla strada della conversione al renzismo.
Una posizione che la allontana dall’area riconducibile all’ex segretario del Pd. Che per ora attende passi avanti dal presidente del Consiglio sulla trattativa. Peraltro nessuno vuole correre il rischio di scommettere su una parlamentare di lungo corso, penalizzata dal dato anagrafico.
“Finocchiaro non rappresenta di certo il nuovo, come vuole Renzi. E potrebbero spiegarle che è fondamentale che segua l’iter delle riforme lasciandolo a mani vuote”, spiegano fonti interne al Pd.
Ma questo non si può dire ora: bisogna evitare i mal di pancia prima delle riforme.
Sui nomi che circolano, comunque, arrivano conferme indirette dall’area renziana: “I profili sono corrispondenti a quello che occorre”.
Tra le pretendenti, nelle vesti di outsider, c’è Enza Bruno Bossio, calabrese di rito dalemiano ormai riconducibile all’area dei Giovani Turchi.
Una soluzione a metà strada tra le anime del Pd. “Una dalemiana turcheggiante”, viene definita la parlamentare da un suo collega di partito. Forse un buon compromesso.
Enrico può stare seren
Il jolly, infine, è Anna Ascani, deputata fedelissima di Enrico Letta.
Si tratta di un asso nella manica renziana: la parlamentare, componente della commissione Cultura a Montecitorio, è giovanissima con i suoi 27 anni.
Ma in questo passaggio contano molto i sommovimenti interni al Pd.
I Giovani Turchi e i bersaniani andrebbero su tutte le furie di fronte alla nomina di una lettiana, che essendo umbra è anche troppo poco “meridionale” per il ministero del Mezzogiorno.
Infine, Letta— come D’Alema — non è disponibile a recuperare il rapporto con Renzi. “Non sono mai stato meglio in due anni”, ha confidato Letta ad alcuni interlocutori in Transatlantico nei giorni del voto per il Quirinale.
Un messaggio per dire che lui sta bene così, non necessita di altro.
E quindi la sua piccola area del Pd non è interessata a trattare per un posto di governo.
Stefano Iannaccone
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 6th, 2015 Riccardo Fucile
NON VOGLIO DIFENDERMI DA SOLA, VOGLIO ESSERE DIFESA DA CHI HA IL DOVERE DI FARLO, NON VOGLIO CHE CHI UCCIDE UN UOMO DIVENTI UN EROE NAZIONALE, NON VOGLIO UN FAR WEST DOVE IMPROBABILI SCERIFFI DECIDANO SULLA VITA DEGLI ALTRI
Chi uccide un altro essere umano non è mai un eroe. In nessun caso, a maggior ragione se lo ha fatto per sbaglio e di quello sbaglio risponderà alla legge e alla sua coscienza.
Chi spara sa quello che fa, sa che le conseguenze della sua azione potrebbero rivelarsi ben più gravi di quanto ipotizzi premendo un grilletto.
Chi rompe paga, e i cocci, purtroppo, sono suoi.
Non può essere legittimato, almeno nel mio paese, un uomo che si difende sparando.
Anche se ha un fucile legalmente detenuto, anche se è lui per primo vittima degli spari di un gruppo di rapinatori cialtroneschi. Se lo fosse non sarebbe l’Italia: sarebbe il Far West.
E nel Far West quella che vigeva era la legge del più forte, di quello che aveva la mira migliore, quello più veloce a estrarre la pistola dalla fondina.
Chiunque oggi innalzi quel benzinaio a eroico giustiziere, in una discutibile logica del chi fa da sè fa per tre, non capisce che Dottor Jeckyl e Mr Hide erano le due facce della stessa medaglia, erano la traduzione letteraria di un bipolarismo che in un paese civile non può essere ammesso. Per nessuna ragione. Il rischio che si corre, legittimando politicamente quello che è accaduto in Veneto, è autorizzare (più o meno consapevolmente) ogni cittadino a impallinare chiunque violi la sua proprietà .
Ci sono poliziotti e carabinieri e giudici e legislatori chiamati a tutelare i diritti di ognuno, non servono revolver e furore.
E non vale l’attenuante dell’esasperazione che arma la mano delle persone perbene: pacifici cittadini che in un giorno di ordinaria follia si fanno giustizia da sè.
Non vale nemmeno la scusa di uno Stato distratto, della burocratica lentezza (dovuta ad una garantista presunzione d’innocenza) dei tribunali e della scaltra intelligenza di bravi avvocati.
Perchè poi, a voler essere onesti, coloro che oggi hanno fatto di questo assassino per errore l’eroe dell’operoso Triveneto, sono gli stessi che invocano il rispetto delle leggi da parte di tutti, in primo luogo di tutti gli altri.
Come se a loro spettasse il compito di stabilire quando è giusto e quando non lo è rispettare quella serie di norme alle quali siamo tutti sottoposti.
Come se esistesse una sospensiva del Codice Penale se a imbracciare un fucile e uccidere un essere umano è qualcuno che loro reputano legittimato a farlo.
Nei messaggio di solidarietà a un uomo che ne ammazza un altro si nasconde, e neanche tanto bene, un incitamento alla violenza inaccettabile da un privato cittadino, inammissibile da un personaggio politico.
È una questione di responsabilità e se chi mi amministra, o ambisce a farlo, non ne è dotato che si dedichi ad altro.
Non a gettare il mio paese e la mia vita nella confusione di un’anarchica giustizia secondo la quale io ho il diritto di difendermi da sola.
Io non voglio difendermi da sola: io voglio essere difesa dalle persone che hanno il dovere di farlo.
Io non voglio che in Italia chi uccide un uomo, anche per errore, diventi un eroe nazionale.
Io non voglio che i rapinatori finiscano ammazzati per strada, circondati da un’aureola di sangue. Io voglio che vengano arrestati, processati e condannati a una pena insindacabile.
Io non voglio che la rabbia trasformi l’Italia in un Far West dove una serie di improbabili sceriffi piantano i loro sudici stivali sul diritto alla vita di ognuno di noi.
Deborah Dirani
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 6th, 2015 Riccardo Fucile
ARRESTATO SEI VOLTE PER TANGENTOPOLI, OGGI E’ SOTTO INDAGINE PER CORRUZIONE: MA AD ALESSANDRIA LO PREMIANO METTENDOLO AL VERTICE DI UNA SOCIETA’ PUBBLICA
Corsi e ricorsi storici, in un paese che sembra incapace di smarcarsi dai suoi difetti. 
Perchè è difficile non rimanere stupiti di fronte alla nomina di Bruno Binasco al vertice di una fondazione pubblica piemontese.
Durante Mani Pulite Binasco ha fatto avanti e indietro da San Vittore.
Era lui l’uomo che per conto del potente imprenditore delle autostrade Marcellino Gavio gestiva i rapporti con la politica, quegli leciti e quelli meno: in un solo anno è stato arrestato sei volte. Tra l’altro, descrisse al pool la consegna di un miliardo di lire a Primo Greganti, il celebre Compagno G tornato sulla scena per le mazzette dell’Expo.
Ma Binasco da Tangentopoli è uscito con la fedina penale immacolata: tra assoluzioni e prescrizioni, se l’è cavata con un’unica condanna definitiva.
Per la quale è stato formalmente riabilitato, grazie alla procedura di legge.
Non è che le sue frequentazioni con i tribunali appartengano al passato. Ora è sotto processo per corruzione a Monza, per quello scandalo di bustarelle, appalti ed autostrade che ha travolto il leader lombardo del Pd Filippo Penati.
E nello stralcio torinese di quella vicenda, nell’ottobre 2013, è stato condannato in primo grado a otto mesi per appropriazione indebita: per i giudici avrebbe prelevato soldi da società dei Gavio per versare una liquidazione in nero a Giorgio Ardito, ex politico Pd ed ex dirigente della Sitaf, che gestisce l’autostrada Torino-Bardonecchia.
«Abbiamo fatto appello e siamo in attesa del processo, abbiamo fiducia», afferma l’avvocato Umberto Giardini che lo difende insieme al collega Alessandro Mazza.
Vicende sulle quali in tanti ad Alessandria hanno preferito chiudere gli occhi.
Perchè i rappresentanti di enti locali, camere del commercio e della fondazione della Cassa di risparmio cittadina lo hanno scelto per il vertice della Slala, organismo che si occupa della logistica e dei trasporti in quelle che sono le zone dei Gavio.
L’idea di nominare Binasco è emersa nel consiglio generale del 17 novembre scorso.
L’ex presidente della Provincia di Genova e attuale vicepresidente della Carige Alessandro Repetto stava lasciando la presidenza della Slala e Pier Angelo Taverna, presidente della Fondazione della Cassa di risparmio (“azionista” di peso), ha proposto l’affidamento del ruolo al manager, «figura professionale nota e di grande esperienza nel settore logistico e già in passato dirigente di importanti imprese del settore», si legge nel verbale.
Nessuno dei consiglieri ha sollevato rilievi particolari.
Tuttalpiù qualcuno ha chiesto la nomina di un presidente proveniente dagli enti locali, mentre Rocchino Muliere, sindaco Pd di Novi Ligure, ha evidenziato «che per cercare il dialogo con gli operatori privati la nomina di Bruno Binasco sarebbe certamente determinante».
Non una parola sulle inchieste per corruzione del passato e sui processi in corso.
Lo ha fatto invece il consigliere comunale di Alessandria Domenico Di Filippo (M5S) che ha chiesto al sindaco Rita Rossa, presente a quella riunione della Slala, «quali siano stati i criteri che hanno determinato l’appoggio del Comune di Alessandria all’elezione del Presidente di Slala, nome significativo dell’imprenditoria, purtroppo anche delle cronache giudiziarie riguardanti i legami fra il mondo degli affari a quello della politica».
Rita Rossa è una veterana della politica piemontese, scena che cavalca sin dai primi anni Novanta grazie all’esperienza del padre Angelo, un esponente di punta del Psi e presidente del consiglio regionale.
Lei è stata vicepresidente della provincia e infine è stata eletta sindaco con il sostegno di tutto il centrosinistra. Ma sul nome di Binasco è convinta di avere rispettato ogni norma.
«Innanzitutto è una carica non onerosa, non percepisce il gettone. È una forma di servizio al territorio – dichiara a “l’Espresso” – Poi la fondazione fa solo programmazione, non maneggia finanziamenti nè media con la politica».
Rossa sostiene che siano stati rispettati requisiti «molto severi», basati su quelli delle governance bancarie, controllati dal prefetto: il presidente non deve trovarsi in situazione di decadenza e ineleggibilità , non deve essere sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza, e non deve avere condanne passate in giudicato o sentenze di applicazione della pena.
«All’atto di presentazione ci è stato detto che questi criteri sono stati rispettati», conclude.
Andrea Giambortolomei
(da “L’Espresso”)
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Febbraio 6th, 2015 Riccardo Fucile
IL FRATELLO DI RICCARDO: “MIO NONNO ERA UN GRANDE CARABINIERE, NON COME QUEI QUATTRO CIALTRONI CHE HANNO AMMAZZATO MIO FRATELLO”
“Giovanardi? Dice falsità . E’ un vigliacco, perchè prima insulta e poi si nasconde dietro l’immunità parlamentare”.
Sono le parole pronunciate a “La Zanzara” (Radio24) da Andrea Magherini, fratello di Riccardo, l’ex calciatore di 39 anni, morto nel marzo 2014 durante un arresto.
Andrea risponde alle dichiarazioni choc fatte dal senatore Ncd Carlo Giovanardi proprio ai microfoni della trasmissione radiofonica (“Riccardo Magherini è morto perchè era strafatto di coca”).
E spiega: “Giovanardi cita la consulenza tossicologica che a un certo punto si discosta totalmente dall’autopsia, firmata dal medico legale, che parla di asfissia. Questa perizia tossicologica è stata fatta da un farmacista, il professor Mari, e da sua moglie, la dottoressa Bertol, che è una biologa. Entrambi quindi non possono esprimersi sulle cause di morte, non essendo medici. E non solo: la Bertol lavorava come consulente di Giovanardi”.
Andrea Magherini puntualizza: “Io e Riccardo siamo cresciuto nel culto di mio nonno, che è stato carabiniere e ha fatto due anni di campo di concentramento con la divisa. Un grande carabiniere, non come questi 4 cialtroni che hanno ammazzato mio fratello. Lui quella notte chiedeva solo aiuto, era terrorizzato, addirittura ha abbracciato i carabinieri quando sono arrivati”.
E aggiunge: “”Excited delirium”? E’ una sindrome che in Italia non è mai esistita, hanno fatto morire anche Federico Aldrovandi di questa sindrome “politica” inventata negli Usa per motivare i fermi violenti della polizia. Io non nego che mio fratello facesse uso di cocaina, ma non era strafatto, come dice Giovanardi: aveva solo lo 0,3% di droga nel suo corpo”
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 6th, 2015 Riccardo Fucile
CASO KYENGE-CALDEROLI, LA RETROMARCIA DI RENZI: “RIBALTARE IN SENATO IL VOTO IN GIUNTA”
A porte chiuse difendono il leghista Roberto Calderoli, in Aula ribalteranno il voto. 
Il Pd, insieme a Fi, Ncd, Lega Nord e Autonomie, nella Giunta per le immunità del Senato ha votato contro la richiesta del magistrato di procedere per istigazione razziale contro il leghista che aveva definito “orango” l’ex ministro Cècile Kyenge. Ora il voto passa all’Aula, ma dopo le polemiche i vertici democratici a Palazzo Madama fanno sapere che probabilmente rovesceranno la decisione votando a favore della richiesta del magistrato.
La difesa ha creato non pochi imbarazzi nel Partito democratico: l’eurodeputata ha chiesto le scuse dei colleghi di partito, che sono arrivate nel corso della giornata. Addirittura è intervenuta la presidente della Camera Laura Boldrini: “Condivido la sua amarezza”.
Il leghista in un comizio a Treviglio il 13 luglio 2013 aveva detto: “Quando vedo la Kyenge penso a un orango”.
Parole che nel giro di poche ore avevano provocato la condanna di tutte le forze politiche, dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all’ex presidente del Consiglio Enrico Letta.
Mercoledì 4 febbraio però i parlamentari di Pd, Forza Italia, Ncd e Autonomie hanno cambiato idea e hanno votato contro il processo.
“La condanna politica resta”, si è giustificato il capogruppo Pd in giunta Giuseppe Cucca, “però non ci sono le basi per l’istigazione razziale. E il magistrato non può procedere per diffamazione perchè non c’è stata la querela da parte del ministro”.
La condotta di Calderoli è stata ritenuta insindacabile in quanto coperta dal primo comma dell’articolo 68 della Costituzione, in base al quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.
La questione dovrà ora essere sottoposta al voto dell’Aula. Relatore del caso sarà Lucio Malan, di Forza Italia.
Una vicenda simile è successa anche in Emilia Romagna, ma con un risultato diverso. A inizio gennaio il consigliere regionale leghista Fabio Ranieri è stato condannato per aver pubblicato su Facebook un fotomontaggio delle stessa Kyenge con un orango. Ora i gruppi in Regione, dove è stato eletto nei mesi scorsi, chiedono che rassegni le dimissioni.
La giunta delle Immunità invece si è appellata all’articolo 68 della Costituzione. “Avevo proposto”, protesta Crimi, “che si procedesse, non sussistendo alcun nesso funzionale tra le dichiarazioni del senatore Calderoli e l’attività politica. La Giunta invece ha rigettato la mia relazione. Eppure a suo tempo Calderoli era stato condannato unanimemente da tutte le forze politiche: dal Capo dello Stato ai presidenti delle Camere e lo stesso Letta (allora presidente del Consiglio) ne aveva auspicato le dimissioni da vicepresidente. E ora tutti pronti a salvarlo, compresa una parte del Pd. Quando in un comizio pubblico si fanno dichiarazioni come quelle di Calderoli, non ci sono scusanti che tengano, meno che mai quella di essere un senatore. Attraversiamo un periodo storico in cui l’attacco politico è sempre più forte, ma non è comunque tollerabile che si sconfini nell’odio razziale e nella discriminazione”.
Dura condanna alla decisione dei colleghi è arrivata dal deputato Pd Kalid Chaouki: “Gravissima la decisione della giunta delle immunità parlamentari. Ci lasciano sgomenti e senza parole le motivazioni dei senatori che hanno minimizzato le frasi razziste di Calderoli derubricandole a mera satira. La condanna politica e morale oggi per noi è un elemento imprescindibile, anche al netto del percorso della giustizia ordinaria. Confidiamo in una presa di posizione netta del Senato affinchè si corregga l’errore prodotto dalla giunta”.
Sulla questione interviene anche il presidente dell’associazione Articolo 21 Stefano Corradino: “E’ inaccettabile la strumentalizzazione dell’articolo 21 della Costituzione, fatta da alcuni esponenti di partiti del centrodestra, per fare rientrare le affermazioni pronunciate dal senatore leghista nella libertà di espressione — dichiara — L’istigazione all’odio razziale non è un’opinione ma è un reato ed è ancora più grave quando a pronunciarlo è un alto rappresentante delle istituzioni”.
“I senatori non dovevano giudicare Calderoli, ma le sue parole – ribadisce Cecile Kyenge ai microfoni di Radio Popolare – . Il tribunale aveva già deciso di procedere d’ufficio, quindi le sue parole erano già considerate istigazione all’odio razziale. Loro avevano semplicemente l’obbligo di mettere anche dentro la politica una linea tra un’offesa e l’immunità parlamentare. Il Pd ha fatto un errore molto grande. Per fortuna nel mio partito non la pensano tutti così, ma mi rammarica molto quello che è successo: adesso si dovrà votare in aula al senato, mi auguro che questo sia stato un incidente di percorso. Il Pd deve essere chiaro e netto. Nessuno mi ha mai chiamato per spiegarmi il perchè di quel voto, ma questa non è una questione personale – ha aggiunto l’ex ministro – riguarda il peso di quelle parole: un tribunale dice che associare il colore di una persona a un orango è istigazione all’odio razziale, per la politica no: così rende legittimo qualsiasi linguaggio, e si aprono le porte alla violenza”.
Tanto per essere chiari: in un altro Paese occidentale un politico che avesse pronunciato questi insulti il giorno dopo sarebbe stato cacciato dal suo partito e dal parlamento per indegnità , in Italia partecipa alla discussione sulla riforme.
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Febbraio 6th, 2015 Riccardo Fucile
COMMISSIONI CHE DURANO UN MINUTO, SEDUTE FANTASMA O SU TEMI PRETESTUOSI: TUTTI I TRUCCHI DEI POLITICI PER AUMENTARSI LO STIPENDIO
A Torino la Guardia di finanza ha consegnato una corposa relazione che accusa alcuni consiglieri di circoscrizione di aver fatto finta di essere presenti alle riunioni.
A Gravina di Puglia diciassette consiglieri comunali incrociano le dita e sperano di non essere rinviati a giudizio la prossima settimana perchè accusati dalla procura di Bari di essere i furbetti delle commissioni, cioè di aver intascato il gettone per non fare nulla.
Ad Agrigento invece le Fiamme gialle hanno fatto irruzione in Comune al grido di «dateci i dati sui lavori delle commissioni fatte» sospettando che in quelle 1.133 sedute registrate anche a Natale, con annessi gettoni per 300 mila euro, si sia solo perso tempo.
Agrigento e Gravina distano quasi duemila chilometri da Torino, ma da Nord a Sud il malcostume degli acchiappa gettoni sembra diffuso.
Non a caso il costo complessivo dei consigli comunali rimane sempre a quota 558 milioni di euro all’anno, al di là di spending review e di tagli ai costi della politica annunciati: alla fine tutti cercano di raggiungere il massimo dello stipendio consentito, partecipando a più sedute di consigli e commissioni possibili.
Per evitare di perdere troppo in busta paga fioccano le convocazioni di riunioni di commissioni.
Ad Agrigento i cittadini sono scesi in piazza per protestare contro i consiglieri comunali apparentemente più stakanovisti d’Italia, che però oltre alle riunioni non hanno prodotto un solo atto degno di nota, ma a Bari si punta a eguagliare il record dei siciliani.
Nel Comune pugliese negli ultimi quattro mesi si sono svolte 50 sedute di commissioni a settimana, 220 al mese.
A questo ritmo supereranno le 2 mila convocazioni in un anno surclassando Agrigento.
I consiglieri pugliesi per ogni seduta ricevono un gettone di 72 euro lordi, che al mese diventano 2.400 euro.
Certo, per giustificare le sedute gli ordini del giorno devono essere tanti e spesso si va quasi di fantasia: a Bari la commissione Pari opportunità si è riunita per affrontare il tema del cani randagi, quella all’Ambiente ha pensato bene di ascoltare un gruppo di medici per affrontare l’annosa questione dell’influenza stagionale.
Loro però non si riuniscono il sabato a differenza dei colleghi palermitani.
Qui i consiglieri lo scorso anno si sono riuniti il sabato per ben 157 volte facendo scattare, oltre al gettone, anche il rimborso al datore di lavoro per l’assenza.
In anni di tagli imperanti alcuni Comuni hanno annunciato con gran clamore di aver ridotto il numero delle commissioni consiliari.
A Massa le hanno sì ridotte, tagliando il gettone ma aumentando il numero di componenti, mentre a Campobasso è stata bocciata la proposta di «garantire il gettone solo a chi partecipa alle commissioni per almeno i due terzi della riunione ».
Quello di firmare la presenza e poi volatilizzarsi sembra essere d’altronde un’usanza molto “comune”.
A Genova sono stati costretti a mettere i badge per registrare le presenze dopo che Repubblica aveva sollevato il caso «del consigliere comunale che si è presentato alla seduta della commissione alle 14,48 e ne è uscito alle 14,49 senza neppure togliersi il casco della moto».
A Pescara i 5 Stelle la scorsa settimana hanno invece denunciato il caso di un consigliere che «durante due commissioni entrando alle 10,40 ha segnato sul registro le ore 10 per poter giustificare l’assenza dal lavoro per un’ora»: «Dopo la nostra denuncia – dice la capogruppo Enrica Sabatini – adesso l’orario d’ingresso viene scritto dal segretario. Ma basta un minuto di presenza per intascare il gettone, come nelle giostre ».
Chiaramente se i cugini più grandi danno questo esempio, i più piccoli non possono essere da meno.
Ed ecco così che a Torino la Guardia di finanza sta indagando per le riunioni fantasma delle circoscrizioni.
Da Nord a Sud, dove a Bari i consigli dei Municipi hanno chiesto e ottenuto di poter istituire anche loro delle mini commissioni speciali.
A Palermo invece una circoscrizione si è riunita perfino il 13 e il 19 agosto per discutere mozioni come quella, dal titolo abbastanza oscuro, «salviette e asciugamani nell’apposito contenitore ».
Argomenti irrilevanti per circoscrizioni che non hanno alcuna competenza, visto che il Comune non ha mai assegnato loro alcuna funzione.
Ma qui i consiglieri di circoscrizione possono dire a gran voce di essere i più pagati d’Italia: grazie alle tante sedute convocate arrivano a un compenso lordo mensile di 1.351 euro, più dei colleghi dei Municipi di Roma. A
Palermo si guadagna pure per chiacchierare un po’.
Antonio Fraschilla
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 6th, 2015 Riccardo Fucile
ALLORA IL PD E RENZI LO RIEMPIRONO DI IMPROPERI, ORA VA DI MODA
“Ora Renzi deve chiedermi scusa”. Il senatore forzista Domenico Scilipoti assapora la rivincita. 
Era il 14 dicembre 2010, quando l’agopunturista siculo uscì dall’Idv per votare la fiducia al governo Berlusconi, assieme agli altri “responsabili” Calearo e Cesario. Furono i tre voti decisivi, e su Scilipoti riversarono valanghe di improperi, soprattutto dal Pd. Ma adesso i Democratici cercano nuovi responsabili, proprio in Senato
Scilipoti, il tempo è galantuomo.
Furono usati termini fuori del normale contro di me, anche dall’attuale presidente del Consiglio. Ma alla luce di quanto sta accadendo dovrebbe fare una riflessione.
Le dovrebbe chiedere scusa.
Certo, Renzi dovrebbe scusarsi pubblicamente con il senatore Scilipoti. Ha detto di tutto e di più su di me.
Quale fu l’offesa più brutta?
Ho gettato quelle parole nel dimenticatoio.
Ne ha mai parlato con Renzi?
Quando viene in Senato faccio in modo di non incontrarlo. È un uomo che non fa quello che promette.
Condannò lei e adesso…
Sono quasi contento, perchè oggi quella mia scelta di fare gli interessi del Paese appare ancora più giusta. La rifarei cento volte: volevano imporci un presidente del Consiglio non eletto dai cittadini. Feci tutto nell’interesse del popolo.
Ora il Pd cerca voti in Senato. Lei ha notato questo scouting?
Certe scene sono davvero imbarazzanti per i miei colleghi.
Cosa ha visto?
Non mi faccia entrare nel dettaglio, sono cose che non mi toccano. Ma devo dire che i colleghi rispondono con diplomazia.
Il Pd è convinto di poter fare a meno di Forza Italia.
C’è una giovane ministra che lo dice. Io però me la ricordo, la Boschi, mentre chiedeva una mano sulle riforme al nostro capogruppo Romani. Lo pressava.
Lei le ha votate le riforme?
Sì, anche se erano un obbrobrio. Ma la maggioranza del partito decise così, e io mi attenni.
E la prossima volta?
Me lo chieda tra qualche giorno.
Luca De Carolis
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 6th, 2015 Riccardo Fucile
GENERATO DALLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO, POI SEPOLTO SOTTO LE CENERI DI TANGENTOPOLI, ADESSO POTREBBE RITORNARE RIMPOLPATO DI FONDI EUROPEI FINO AD ORA GESTITI DA DELRIO
Toh, chi si rivede! Nientemeno che il Ministero per il Mezzogiorno.
Sepolto sotto le macerie di Tangentopoli è ricomparso all’improvviso, come un fantasma della storia patria, per una questione di poltrone e poltroncine.
Matteo Renzi deve sostituire al ministro degli Affari Regionali Carmela Lanzetta, che ha licenziato due settimane fa.
Alla Lanzetta aveva dato un portafoglio di niente. Diciamoci la verità : più che un ministero era un effetto ottico, un modo per allungare una sedia e fare ciao.
Oggi, invece, si vorrebbe far divenire quell’ufficio preziosa merce di scambio, mezzo utile per far defluire potere dalle mani di chi non è più nel primo livello del giglio magico.
La gestione del flusso dei fondi europei che sono destinati alle aree sottosviluppate del Paese (i cui quattro quinti si trovano a Sud) è l’incarico a cui, con una fortuna altalenante, si è finora cimentato Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza.
Nel piccolo intervento di chirurgia plastica Renzi dovrebbe alleggerirgli l’incombenza e, lavorando per sottrazione, ridurlo a semplice fante.
Da qui l’invenzione: un bel Ministero per il Mezzogiorno a cui spostare risorse e competenze, come ai bei tempi.
In tema di revival democristiano l’idea è veramente geniale, perchè ci riporta indietro ai Remo Gaspari e Ciriaco De Mita, a Riccardo Misasi e Carlo Donat Cattin, Salverino De Vito e Giovanni Goria.
Il Pantheon dello scudocrociato che questo Parlamento, per più di un terzo sotto la soglia dei quarant’anni, ha letto (se ha letto) sui libri di storia contemporanea.
La perfezione è raggiunta perchè dal novero delle (pochissime) cose buone fatte dal governo di Mario Monti vi era il Ministero per la Coesione territoriale, il termine esatto per indicare che non esiste sviluppo senza equità , non esiste Nord senza Sud, non c’è l’Italia senza gli italiani.
Quel ministero è stato retto egregiamente da Fabrizio Barca, un tecnico che nella sua vita non ha fatto altro che costruire mappe, monitorare la quantità e la qualità dei flussi. Invece niente.
Saltando all’indietro nel tempo, Barca è andato sott’acqua, e il Mezzogiorno — inteso come Ministero — è tornato in auge.
Matteo Salvini se l’è cavata con una battuta non propriamente sapida, come invece il suo lessico imporrebbe, stante forse il desiderio di penetrare nel cuore dei sudisti, ora amiconi ed ex terroni sudici: “Se ne sentiva proprio la necessità !”, ha ironizzato. Romano Prodi, la cui biografia è legata alla Cassa per il Mezzogiorno, altra ferraglia storica, ha subito puntualizzato: “Se non ha coordinamento (cioè la gestione del portafogli) diventa un dicastero di serie B. In caso contrario è estremamente utile”. Dire che del Mezzogiorno a nessuno frega più nulla è poco.
È stata azzerata la questione meridionale, tema delegato oramai a saggisti (uno su tutti: Pino Aprile), e definitivamente statuita la inutilità di approfondire il tema del sottosviluppo.
C’è una data utile che segna il crac politico: il terremoto dell’Irpinia (23 novembre 1980).
L’Italia assiste a un flusso possente di danaro (la cifra non è conosciuta nella sua esattezza ma per dimensioni è biblica, più di sessantamila miliardi di lire) che invece di restituire decoro e sviluppo nei territori martoriati risulta una passerella macroscopica di devianze e abusi.
Iniziano le campagne giornalistiche (ricordate l’Irpiniagate?) e su quelle salta la nascente Lega di Umberto Bossi: il primo manifesto leghista raffigura il Nord, nelle sembianze di una mucca che viene munta e un Sud che ingordo beve.
Lo scandalo politico che ne segue, insieme alle rendite di posizione di singoli califfati meridionali, rende defunta la questione.
Viene cancellato il Sud e piuttosto disonorati i meridionali.
In un bel libro (Leghisti & sudisti, Laterza) Isaia Sales, uno dei più lucidi meridionalisti, spiega come il carburante leghista è frutto tipico del malgoverno a conduzione Dc-Psi.
Nel tempo che segue, una sciagurata legge, la 488 del 1992, produce altri sprechi.
Immaginata per dare un aiuto alle imprese, diviene una strabiliante cassa a cui migliaia di questuanti chiedono di partecipare.
Decine di inchieste, decine di libri raccontano lo strazio di soldi buttati a mare, dilapidati in un arraffa-arraffa.
Aree industriali brulle, capannoni vuoti, falsificazioni di fatture, arresti e processi. Pier Luigi Bersani, ministro dell’Industria del primo governo Prodi, decide giustamente di mandarla al macero.
Eppure la Cassa per il Mezzogiorno, il fortino economico da cui poi discenderà il Ministero per il Mezzogiorno, è stata un’idea saggia, iniziativa deliberata da De Gasperi nel 1950.
L’Italia del dopoguerra non riusciva ad essere unita senza dare un po’ di pane a intere popolazioni affamate.
E tra il 1960 e il 1970 formidabili opere di ricostruzione territoriale (acquedotti, strade provinciali, i primi consorzi industriali) sono servite a tenere in vita il Sud, spolpato da ogni suo avere, e costretto, negli anni della rivoluzione industriale, a fare la valigia per Milano o per Torino.
Antonello Caporale
(da “il Fatto Quotidiano”)
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