Settembre 17th, 2017 Riccardo Fucile
NEL 2017 I DECESSI SALITI DEL 5,2%… INVESTIMENTI NELLA PREVENZIONE FERMI AL PALO
Quando basta un po’ di ripresa economica, accompagnata da un maggior utilizzo di lavoratori
over 60, per far risalire il numero di infortuni e di morti sul lavoro, si torna inevitabilmente a dubitare dei progressi realizzati dal nostro Paese per mettere in sicurezza fabbriche e cantieri.
Per la prima volta da un quarto di secolo, incidenti e morti aumentano entrambi nei primi sette mesi dell’anno: rispettivamente dell’1,3 e del 5,2 per cento.
Se dopo gli innegabili progressi del passato, prevenzione e controlli subiscono una battuta d’arresto – e questo sembra sia successo durante gli anni della crisi – è ovvio attendersi (adesso che la crisi è passata) che il maggior numero di ore lavorate ci consegni un proporzionale aumento di incidenti.
Difficile che il disoccupato di lungo corso che trova finalmente lavoro, anche se precario, si metta a questionare se in un cantiere c’è scarsa protezione contro le cadute dall’alto, o se in fabbrica la pressa meccanica che lavora le lamiere non ha sistemi di trattenimento in caso di guasto.
Le storie dietro ai numeri
Fatto sta che alla fine la lista delle morti, definite inspiegabilmente “bianche”, torna a infittirsi allungando un’ombra sinistra sulla ripresa economica. Sei settembre, Settimo Milanese: schiacciato da una pressa in un’azienda di componenti meccanici. Stesso giorno a Roccavione (Cuneo): stritolato dal macchinario di una cartiera. Nove settembre, Presicce (Lecce): precipitato da otto metri mentre stava lavorando sul tetto di un capannone.
Stesso giorno a Oppeano (Verona): colpito dal gancio metallico sospeso di un’acciaieria. Undici settembre, Milano: schiacciato da un ponteggio crollato improvvisamente all’interno di un cantiere edile.
Dietro queste storie maledette, sono le statistiche dell’Inail, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a testimoniare la recrudescenza di questa interminabile strage.
Tra gennaio e luglio gli incidenti sul lavoro denunciati (ma non ancora riconosciuti come tali) sono stati 380.236, contro i 375.486 degli stessi mesi di un anno fa. I morti sono saliti da 562 a 591, ventinove in più. Quindici di questi sono legati a due note vicende del gennaio scorso: la frana sull’hotel di Rigopiano e la caduta dell’elicottero di soccorso nei pressi di Campo Felice.
Le vittime invisibili
Dunque: cinquecentonovantuno morti in sette mesi, quasi tre al giorno. La maggior parte di loro (431) ha perso la vita sul posto di lavoro, gli altri 160 (in forte crescita) durante il tragitto da casa alla fabbrica o al cantiere.
Ma non per tutte queste tragedie i superstiti riceveranno un indennizzo dall’Inail (in genere pari a metà della retribuzione): bisognerà dimostrare che l’infortunio è legato al lavoro svolto. E soprattutto che il lavoratore fosse iscritto all’Inail prima di perdere la vita. Di solito viene riconosciuto un 65% dei casi denunciati. Si presume dunque che saranno alla fine circa 380 gli incidenti mortali indennizzabili per i primi sette mesi dell’anno. Ma lo sapremo solo tra un anno.
«È come se il 35-40% di quei morti sparisse», commenta Carlo Soricelli, che da Bologna cura da anni un osservatorio indipendente che monitora gli infortuni mortali sul lavoro.
«Questo succede perchè molti non sono iscritti all’Inail o sono in nero. Solo un esempio lampante: i pensionati schiacciati dai trattori in campagna. Sono già 105 dall’inizio dell’anno, ma ufficialmente non esistono». Del resto, non è una novità che moltissimi incidenti non solo non vengono indennizzati ma sfuggono del tutto alle stesse statistiche nazionali: infatti manca in Italia un ente pubblico incaricato di registrare la totalità degli infortunati, e non solo quelli iscritti all’Inail.
La maledetta ripresa Ma torniamo ai motivi che hanno interrotto quella che i dati ufficiali hanno finora definito una caduta storica delle morti sul lavoro, anche se contestata dall’Osservatorio di Bologna.
Negli ultimi sedici anni i decessi si sono più che dimezzati. E la maggior parte di questo crollo è avvenuto nell’ultimo quinquennio. Merito del maggiore livello di conoscenza e di consapevolezza.
Merito della crescente automazione produttiva. E ad abbassare la frequenza degli incidenti ha contribuito anche la crisi economica. Ma se questo è l’andamento degli ultimi decenni, che cosa sta succedendo adesso? Perchè per la prima volta aumentano sia la totalità degli infortuni sia le morti sul lavoro?
«È chiaro — dice Franco Bettoni, presidente dell’Anmil, l’associazione dei lavoratori mutilati o invalidi del lavoro — che la preoccupante crescita degli infortuni di questi mesi, concentrata soprattutto nelle attività industriali e nelle aree più produttive del Paese (Nord Ovest, Lombardia in testa, e Nord Est), debba in qualche misura ricondursi ai segnali di ripresa dell’economia». Insomma, più si lavora e si produce, più si è esposti al rischio di infortuni. Ma siamo sicuri che è tutta colpa della crescita?
Quei corsi inutili
Un modo per capire se e in che misura entrano in gioco altre cause, è quello di andare a vedere quante sono le morti sul posto di lavoro per ogni milione di occupati. Ossia tener fuori dal calcolo l’aumento dell’occupazione che si è verificato nell’ultimo anno. Nei primi sette mesi del 2016 — si legge nel rapporto dell’Osservatorio sicurezza sul lavoro di Vega Engineering — le morti erano 18,6 per ogni milione di lavoratori. Nello stesso periodo di quest’anno sono salite a 19,2.
Questo significa che gli infortuni mortali sono cresciuti anche a prescindere da quel po’ di ripresa che stiamo conoscendo.
«La ripresa — dicono all’Inail — potrebbe avere avuto un ruolo, ma ci sono motivi più importanti per spiegare questo aumento degli infortuni, che tuttavia — è bene chiarirlo — non inverte affatto la caduta storica conosciuta negli ultimi decenni. Uno di questi motivi è l’età sempre più avanzata dei lavoratori, per via delle riforme pensionistiche: i riflessi e la lucidità diminuiscono, i rischi aumentano. Bisognerebbe ripensare all’organizzazione del lavoro nelle imprese, con regole nuove». In effetti quest’anno gli over 60 hanno subìto duemila infortuni in più e il 2% in più di morti sul lavoro.
È possibile inoltre — dicono molti osservatori — che soprattutto durante gli anni della crisi le imprese abbiamo investito meno nei sistemi di prevenzione. O si siano limitate ad organizzare corsi sulla sicurezza di scarsa utilità perchè quasi sempre astratti, impartiti lontano dalle fabbriche e dai cantieri. Se a questo si aggiungono i limiti evidenti delle ispezioni e dei controlli pubblici, il quadro è quello di una politica anti-infortunistica ancora piena di buchi.
(da agenzie)
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Settembre 17th, 2017 Riccardo Fucile
LAND GRABBING E PROFUGHI: CHI GRIDA “AIUTIAMOLI A CASA LORO” SI INFORMI SU COME LI STIAMO AIUTANDO
Alcuni commenti al mio precedente post mettevano in dubbio alcuni dati da me citati, in particolare il ruolo svolto dalle aziende italiane nel Land grabbing, l’accaparramento delle terre fertili da parte di grandi multinazionali o di interi Stati, in Africa.
Per superare ogni dubbio è sufficiente cliccare su Web of transnational deals e quindi Italy (con il browser Internet Explorer non funziona) e sarà possibile osservare come sono ben 1.017.828 gli ettari acquistati da industrie italiane attraverso il Land grabbing, terreni quasi tutti collocati in Africa, tranne circa 36mila ettari in Romania. Questi dati sono stimati per difetto, perchè fanno riferimento unicamente ai contratti già chiusi nel 2015; molte altre trattative erano allora ancora aperte ed altre sono state avviate recentemente.
Cliccando su Show all outbound deals è possibile, poi, vedere la lista delle aziende italiane coinvolte in tale pratica, aggiornata al 2015.
Quelli indicati come Secondary investor indicano l’azienda con sede in Italia che sta dietro i primi acquirenti (primary investor). Questi ultimi, in genere, fungono da prestanome locale: sono aziende collocate nel Paese in cui si trova il terreno, utili a superare le leggi nazionali che vincolano gli investimenti italiani.
Scorrendo fino in fondo la colonna Intention of investment, appare evidente come circa solo un terzo dei terreni acquistati con Land grabbing sono stati destinati all’agricoltura; confrontando la colonna Intended size ha (le dimensioni previste in ettari dei terreno da acquistare) con la colonna Contract size ha (la quantità di ettari di terreno già acquistati) si può osservare come già allora erano avviate le trattative per l’acquisto di circa un altro un milione di ha di terreno in Africa da parte di industrie con sede in Italia.
Siamo quindi di fronte ad un fenomeno in continua crescita e del quale molti aspetti restano ancora sconosciuti e nascosti anche per ragioni commerciali e fiscali.
Come già scritto nel post precedente, tra le conseguenze del Land grabbing vi è l’abbandono delle terre da parte di migliaia e migliaia di contadini destinati a precipitare in una condizione di ulteriore drammatica povertà che li porta ad emigrare verso nord spesso fino alle sponde del Mediterraneo con tutte le conseguenze che conosciamo.
Ecco perchè non ha alcun senso dire “aiutiamoli a casa loro” se contemporaneamente non vengono bloccate pratiche quali il Land grabbing.
Chiarito questo punto, rispondo brevemente anche ad altre obiezioni che mi erano state rivolte:
1. Non penso certo che “800 milioni di Africani devono venire da noi” nè che “non dobbiamo aiutarli a casa loro”; sostengo molto più semplicemente che non li stiamo aiutando a casa loro e che i politici che usano lo slogan “aiutiamoli a casa loro” usano questo slogan solo per contrastare le politiche di accoglienza e per realizzare politiche di respingimento e finanziare governi e bande armate che gestiscono e costruiscono veri e propri lager nei quali rinchiudere i migranti prima che giungano sulle coste del Mediterraneo.
2. E’ evidente che le responsabilità sulla vendita delle armi o sul land grabbing non sono direttamente del singolo cittadino italiano. Con l’uso della prima persona plurale, ad esempio “Vendiamo armi” intendo riferirmi al sistema Italia, al governo — che per altro viene eletto da noi — e alle aziende/multinazionali italiane.
3. E’ ampiamente documentato che anche in Italia vi sono grandi differenze economiche, e infatti la gran parte dei post che ho pubblicato nel mio blog è dedicata ad esempio alla difficoltà di curarsi per chi è povero.
Ed è altrettanto risaputo che le differenze economiche nel nostro Paese sono drammatiche. Contemporaneamente, vi è un piccolo gruppo di individui (nel mondo dell’industria, della finanza eccetera) che dalla crisi trae grandi vantaggi a danno di altri. Ad esempio la chiusura di migliaia di piccole aziende agricole familiari in Italia e nel sud dell’Europa è diretta conseguenza delle politiche delle grandi multinazionali dell’agrobusiness sostenute dai sussidi dell’Unione europea.
Sarebbe quindi molto più logico (e intelligente), anzichè individuare nei migranti e negli africani i nostri nemici, comprendere che coloro che stanno depredando quel continente sono gli stessi che stanno mandando in miseria milioni di italiani ed europei.
Ma nessun governo italiano, nè quello attuale, nè i precedenti, ha mai chiesto di rimettere in discussione i sussidi alle multinazionali europee dell’agricoltura, tanto per fare un esempio.
4. Chi vende le armi lo fa sperando che queste siano usate in modo tale da poterne vendere altre e quindi ha solo vantaggio a fomentare i conflitti. Ovviamente, un’enorme responsabilità hanno molti governi ed èlites africane che scatenano le guerre pensando solo a arricchire se stesse lasciando in miseria i loro popoli. Ma a maggior ragione, i nostri leader politici, che ben conoscono tutto ciò, non dovrebbero commerciare armi con tali governi.
Se invece i nostri governi e le èlites economiche finanziarie continueranno ad applicare l’antica massima pecunia non olet è bene che si sappia che le migrazioni continueranno ad aumentare senza sosta.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 17th, 2017 Riccardo Fucile
ANCHE LE MONDE RILANCIA LE ACCUSE CONTRO L’ITALIA… PER I RADICALI SI PUO’ IPOTIZZARE L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE
Sulla presunta trattativa tra Governo italiano, quello di Tripoli guidato da Sarraj e il “principe
degli scafisti” Ahmad Dabbashi viene chiamata in causa la procura di Roma. I Radicali hanno presentato una denuncia per valutare se sussistano reati, tra cui anche quello di associazione a delinquere, negli accordi siglati dall’esecutivo, e in particolare dal ministro dell’Interno Marco Minniti, e le autorità libiche.
“Con questo esposto chiediamo di accertare se in Libia sia accaduto quanto sostengono ormai diverse testate nazionali e soprattutto estere: cioè se l’Italia abbia pagato perchè i flussi di migranti fossero fermati al costo di gravissime violazioni dei diritti umani, del diritto internazionale e italiano”, dichiara Riccardo Magi, leader dei Radicali.
E continua: “Siamo di fronte ad accordi sconosciuti al Parlamento italiano e ai cittadini, sia per quanto riguarda il loro contenuto, che la forma. Il rischio è che sulla base di questi non meglio precisati accordi si stiano commettendo reati gravissimi.
Se il governo e l’opinione pubblica di un paese democratico non intendono fare chiarezza su questa vicenda, allora significa che la tenuta democratica delle nostre istituzioni – che proprio attraverso l’accordo con la Libia il ministro Minniti ha affermato di voler tutelare – è già gravemente compromessa”, ha dichiarato Magi.
L’esposto trae spunto da alcuni articoli di giornale che hanno raccontato i retroscena della trattativa “Stato-Libia”. Dopo le notizie, tutte smentite dalla Farnesina, di un accordo preso dal governo italiano direttamente con i trafficanti libici riportate da Reuters e Associated Press, a tornare sulla vicenda è stato il Corriere della Sera con un reportage dal suolo libico.
E oggi anche Le Monde apre la prima pagina con un articolo sui migranti: “Italia è accusata di aver trattato con i trafficanti libici”.
“Roma – scrive Le Monde tornando con grande evidenza su accuse già apparse nelle ultime settimane su alcuni media internazionali e smentite dal governo italiano – è sospettata di aver pagato i servizi delle milizie libiche per fermare l’afflusso di migranti sulle sue coste. Il governo smentisce. Le imbarcazioni vengono intercettate in mare. Conseguenza: il numero di traversate del Mediterraneo verso Lampedusa è crollato ad agosto. Alcune associazioni umanitarie denunciano trattamenti crudeli e accusano l’Unione europea di lasciar prosperare un ‘sistema predatorio’. Di fronte a questa situazione, chi aspira all’Europa cerca altri punti di ingresso, in particolare attraverso la Romania”.
A pagina 2, con una grande foto del ministro Marco Minniti, l’articolo: “Fra Libia e Italia piccoli accordi contro i migranti”. “C’è un accordo fra gli italiani e la milizia di Ahmed Al-Dabbashì – dice a Le Monde, dietro anonimato, una personalità di Sabratha, città costiera della Tripolitania, raggiunta al telefono -. L’ex trafficante oggi fa la guerra contro il traffico” di esseri umani.
Ma l’esposto dei Radicali trae spunto soprattutto dal reportage di Lorenzo Cremonesi sul Corriere: “Nel reportage si riferisce che il governo italiano avrebbe pagato un importo compreso tra i 5 e i 10 milioni e mezzo di euro per contribuire all’iniziativa”, di cui avrebbe beneficiato Dabbashi, considerato “principale responsabile del trasporto dei migranti in mare, capo di violenti gruppi armati noti con il nome di Anis Dabbashi – birgata da lui personalmente comandata – e Milizia 48 – brigata affidata al comando del fratello Mehemmed, detto Al Bushmenka”.
Al di là della possibile violazione della Costituzione (articolo 80) e di norme internazionali, si legge nell’esposto presentato da Riccardo Magi, leader dei Radicali, “l’affidamento pià o meno segreto del compito del controllo delle migrazioni a organizzazioni criminali, note per i loro comportamenti illeciti, implicherebbe l’accettazione e la condivisione di tali comportamenti, potendosi addirittura arrivare ad ipotizzare il reato di associazione per delinquere e innumerevoli reati fine in associazione”.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 17th, 2017 Riccardo Fucile
QUINDICI INTERVENTI DI ONG E GUARDIA COSTIERA: ABBIAMO FINITO DI PAGARE I CRIMINALI LIBICI?… MSF DENUNCIA: “IN LIBIA VIOLENZE E SOPRUSI”
Le prime avvisaglie c’erano già state nei primi giorni di settembre. Poi, venerdì, il Mediterraneo centrale si è nuovamente affollato di gommoni e barchini come non accadeva da tempo: 15 interventi di salvataggio in poche ore, cui si devono aggiungere alcuni del giorno precedente e altri di ieri: circa 1800 persone salvate nel fine settimana, con l’aiuto delle navi militari e di quelle delle poche Ong rimaste davanti al mare della Libia e il coordinamento della Guardia costiera italiana.
A questi, si devono aggiungere i migranti degli «sbarchi fantasma» sulle coste dell’Agrigentino e pure a Lampedusa, poco meno di duecento solo negli ultimi giorni.
I primi 371 sono sbarcati ieri a Trapani dalla «Aquarius», la nave di Sos Mèditerranèe su cui opera anche il team sanitario di Medici senza Frontiere, la Ong che ha invece interrotto l’attività della propria nave dopo aver deciso di non firmare il codice di comportamento del Viminale.
Altri 589, a bordo della «Vos Hestia» di Save the Children, sbarcheranno stamattina a Catania: «Sono stati recuperati tra 30 e 50 miglia dalla Libia – spiega la portavoce di StC, Giovanna Di Benedetto -. Questa è la zona dove noi e le altre Ong stiamo operando adesso in sicurezza, dopo che è stata istituita laSar libica che riteniamo pericolosa».
La nave militare irlandese «Yeats» ha preso a bordo altri 552 migranti e tre cadaveri, e arriverà oggi ad Augusta.
Altri 120 migranti sono su una nave della Marina che dovrebbe attraccare a Messina o a Pozzallo. Drammatici, ancora una volta, i racconti di chi è arrivato in Sicilia, come i 371 di ieri a Trapani che la «Aquarius» ha soccorso con tre differenti interventi: 142 nel primo salvataggio, 120 nel secondo e altri 109 trasferiti da un’altra nave e da una motovedetta libica. Arrivano da Marocco, Nigeria, Camerun, Gambia, Senegal, Sierra Leone, Guinea, Mali e dalla Siria. Tra loro, dieci bambini sotto i 5 anni, 54 minori non accompagnati e cinque donne incinta.
I volontari di Medici senza Frontiere hanno riferito un terribile elenco di violenze e soprusi subiti dai migranti in Libia. Una donna nigeriana ha raccontato di avere tentato il viaggio per raggiungere il marito che è in Italia dal 2014 ma di cui non ha notizie da un anno; in Nigeria ha lasciato i suoi due figli. Per due mesi è rimasta a Tripoli in un campo profughi dove è stata violentata due volte e picchiata ripetutamente: «In Libia ti addormenti con un fucile puntato e ti svegli con un fucile puntato, pure quando mangi ti possono sparare – ha raccontato -. Se vai a prendere l’acqua, gli uomini cercano di catturare le ragazze per farle prostituire. Ti vendono e ti chiudono in una connection house ma noi siamo scappate».
C’è poi un ragazzo che arriva dall’Africa occidentale, ha entrambe la gambe fasciate e profonde ferite ai piedi. Ha raccontato di essere stato rapito e rivenduto due volte, in Libia, e di essere stato torturato e pure colpito con un’ascia.
Un’altra donna, del Camerun, ha cercato di fuggire dalla Libia due mesi fa ma durante la traversata è finita in mare con i suoi tre figli di 1, 3 e 5 anni. Lei si è salvata ma i bambini sono annegati.
La donna e gli altri sopravvissuti – racconta ancora Msf – sono stati riportati in Libia e rinchiusi in una prigione. Ora, al suo secondo tentativo, è salva a Trapani: «Ma ho perso i miei bambini e faceva male vedere gli altri bambini che giocavano sulla nave». Ieri mattina la nave «Open Arms» della omonima Ong spagnola ha soccorso in mare 120 migranti poi trasferiti su una nave militare: «Dopo che dalla zona a est di Tripoli, Sabratha, Zawiya, le milizie impediscono le partenze – spiega Riccardo Gatti, capo missione di Proactiva Open Arms – le navi delle Ong si sono spostate a ovest e lì stiamo facendo i salvataggi. Ma ultimamente ci sono molte navi militari, italiane e di EunavforMed, che navigano in quell’area e da ovest le chiamate di soccorso sono molto diminuite».
(da “La Repubblica”)
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