Ottobre 4th, 2017 Riccardo Fucile
DALL’UNITA’ D’ITALIA A OGGI 80 CONDONI… ESATTORI IN TILT: SI INCASSA SOLO L’ 1,13% DELLE SOMME DA RISCUOTERE, CONTRO IL 17% DELLA MEDIA EUROPEA
Coprire le spese sanitarie della nazione per un anno intero. Oppure mettere in sicurezza tutto il
patrimonio edilizio italiano.
O ancora, tagliare almeno un quinto delle tasse.
Lasciamo alla fantasia ciò che si potrebbe fare con più di cento miliardi. Quei soldi appartengono solo alla sfera dell’immaginario.
Secondo i calcoli della commissione governativa sull’economia sommersa sono i denari che ogni dodici mesi sfuggono al fisco. Sottratti alla collettività da un esercito di evasori: quel che è più grave, senza colpo ferire.
Perchè qui lottare contro i furbetti è come svuotare il mare con il colabrodo. In Italia si riscuote appena l’1,13 per cento del carico fiscale affidato all’esattore, contro una media Ocse del 17,1 per cento.
Anno dopo anno, infatti, il maltolto aumenta: 107,6 miliardi nel 2012, 109,7 nel 2013, 111,7 nel 2014
E sia pure in diminuzione i dati provvisori del 2015, contenuti nella nota di aggiornamento al Def, non fanno presagire un cambio sostanziale di rotta come ha anticipato qualche giorno fa il nostro Roberto Petrini.
Il calo risulterebbe infatti di 3,9 miliardi e non c’è ancora una valutazione esatta del mancato introito Irpef dei lavoratori dipendenti irregolari, pari nel 2014 a 5,1 miliardi. Ben che vada, si tornerebbe quindi ai livelli del 2012.
Una situazione tale da far dire ieri al presidente dell’Istat Giorgio Alleva che la lotta all’evasione “è strategica”. Ovvio.
Il problema è come farla. Perchè il sostegno al conseguimento del risultato è corale, come fa capire una relazione del sostituto procuratore di Pistoia Fabio Di Vizio, uno dei più esperti magistrati del ramo evasione, riciclaggio & affini.
Quelle 50 pagine piene di numeri e tabelle scritte in occasione di un suo intervento alla bolognese InsolvenzFest, organizzata ogni anno dall’Osservatorio sulla crisi d’impresa, tracciano lo scenario di un Paese che in tutte le sue componentei ha coscientemente deciso che la lealtà fiscale non fa parte dei valori della convivenza civile.
È bastato mettere in fila circostanze, fatti e dati per nulla riservati, rintracciabili negli atti e nei documenti ufficiali. A patto, naturalmente, di saperli e volerli leggere.
Si scoprirebbe, per dirne una, che la propensione a evadere l’Irpef da parte del lavoro autonomo ha raggiunto nel 2014 un impressionante 59,4 per cento.
Significa che entrano nelle casse pubbliche solo quattro euro su dieci delle imposte sul reddito dovute da chi esercita un’attività non dipendente.
Il 3,5 per cento non viene versato, ma il 55,9 per cento neppure dichiarato.
Trenta miliardi e 736 milioni evaporati ogni anno, ma la cosa davvero preoccupante è che in cinque anni l’aumento di questa evasione, dicono i dati della commissione presieduta da Enrico Giovannini, ha superato il 50 per cento.
Nel 2010 la calcolatrice si era fermata a 20 miliardi e 149 milioni.
Per non parlare dell’Iva. Qualche giorno fa da Bruxelles è arrivata la brutta notizia che l’Italia è il Paese europeo che detiene il record dell’evasione di questa imposta.
Ma purtroppo non è una notizia nuova, perchè è così da sempre. Il differenziale fra l’Iva dovuta e quella effettivamente pagata sfiora il 30 per cento: 29,7, esattamente. Altri 40,1 miliardi sfumati. Cinque anni prima erano 37,4.
È colpa della crisi, deduzione ovvia. Ma fino a un certo punto.
Perchè la crisi da sola non spiega il fatto che l’Italia rappresenti quasi un quarto dell’evasione Iva dell’Unione europea, contro il 15,3 per cento della Francia e il 3,9 per cento della Spagna, che dalla stessa crisi non sono state certo risparmiate.
Se a quelli delle imposte dei lavoratori autonomi e dell’Iva si aggiungono i buchi sui redditi d’impresa, dell’Irap e dei contributi previdenziali, arriviamo appunto ai 111,7 miliardi cui sopra. Una cifra enorme.
Che in più si riferisce per oltre due terzi alle tasse non pagate dai fantasmi: cioè da coloro che per il fisco nemmeno esistono.
In media, 75 miliardi e mezzo l’anno. Somma pari al 15 per cento di tutte le entrate tributarie.
Basterebbe questo per mettere in dubbio la tesi di chi assolve l’infedeltà fiscale considerandola alla stregua della legittima difesa contro uno Stato ingordo.
E assolvendola, per giunta, dai vertici dello Stato stesso.
“L’evasione di chi paga il 50 per cento dei tributi non l’ho inventata io. È una verità che esiste. Un diritto naturale che è nel cuore degli uomini”: sono le parole memorabili pronunciate da Silvio Berlusconi ai microfoni di Radio Anch’io il 18 febbraio 2004.
Ripetute più volte dal Cavaliere prima, durante e dopo le sue permanenze a palazzo Chigi. Senza che in tutti quegli anni la pressione fiscale sia calata e gli evasori si siano dati una regolata.
Sul fatto che in Italia l’imposizione fiscale sia per tutti troppo pesante, davvero non ci piove.
La stessa Corte dei conti certifica un dato mostruoso che era stato già calcolato da Confartigianato: su un’impresa di medie dimensioni grava un carico fiscale complessivo del 64,8 per cento, superiore di quasi 25 punti alla media europea (40,6). Nè le cose vanno meglio per il cuneo fiscale, che con il 49 per cento oltrepassa di dieci punti il valore medio continentale (39).
E se la pressione del fisco, che statisticamente si è aggirata negli anni più recenti intorno al 43 per cento (decimale più, decimale meno), risulta inferiore a quella di Danimarca, Francia, Belgio, Finlandia e Austria, non si può non considerare che a sostenerla è una platea di contribuenti in proporzione nettamente più ridotta.
Per non parlare della qualità dei servizi offerti con quel costo ai cittadini italiani.
Ma ciò non può giustificare affatto quanti si sottraggono ai propri obblighi verso la collettività . Nè, a maggior ragione, giustificare chi li giustifica.
Certo, qualcuno potrebbe tirare in ballo questioni che sconfinano nell’indole degli italiani.
Come la storica avversione per le tasse, oggetto persino di proverbi popolari.
Ma se quel sentimento esiste, va detto pure che è stato sempre coccolato dalla politica, fin dai tempi antichi. Con i condoni.
Il primo è del 118 dopo Cristo. Autore l’imperatore di origini iberiche Adriano, che rinunciò a riscuotere le tasse ancora non pagate dai cittadini dell’impero nei 16 anni precedenti: 900 milioni di sesterzi. Ricorda Di Vizio che dall’unità d’Italia a oggi si possono contare 80 (ottanta) condoni fiscali sotto varie forme. Anche la rottamazione delle cartelle esattoriali, a modo suo, può rientrare in questa fattispecie.
E per avere un’idea del rapporto fra gli italiani e il fisco basti dire che ne 2016 erano 21 milioni i residenti con una pendenza aperta a Equitalia: che in ogni caso, per il 54 per cento di loro, non superava i mille euro. Il fatto è che all’evasione contribuisce un sistema pubblico obeso e inefficiente che affoga nelle follie burocratiche.
Cervellotico e strampalato al punto da imporre a chi vuol pagare le tasse rateizzandole un interesse di dilazione pari al 4,50 per cento, cioè addirittura più alto rispetto a quello di mora a carico di chi le imposte non le paga affatto: 3,50.
E questo semplicemente perchè quei tassi sono fissati da due leggi diverse, che nessuno ha mai pensato di rendere coerenti l’una con l’altra. Troppa fatica.
Succede così, sottolinea Di Vizio nel suo studio, che in un Paese nel quale l’economia sommersa vale il 21,1 per cento del prodotto interno lordo e l’evasione fiscale incide per il 24 per cento sul gettito potenziale, siano necessarie mediamente 269 ore l’anno per adempiere a tutti gli obblighi fiscali, contro le 173 della media europea.
Mentre il sistema di riscossione fa acqua da tutte le parti. Inaccettabile il balletto che avviene fra l’accertamento e la riscossione. Dal 2000 al 2016 gli enti creditori hanno affidato a Equitalia 1.135 miliardi di euro da riscuotere: una cifra pari alla metà dell’attuale debito pubblico.
Di questi, una parte è stata annullata dagli stessi creditori e una piccola fetta riscossa negli anni, con un residuo contabile che oggi ammonta a 817 miliardi. Ma 147,4 riguardano soggetti falliti, 85 i morti, 95 i presunti nullatenenti, 348 posizioni per cui si è già tentato invano il recupero, 26,2 sono oggetto di rateizzazioni e 32,7 non sono riscuotibili a causa di norme favorevoli ai debitori.
Di quella enorme massa, grazie anche al contributo dei ricorsi tributari che hanno visto nel 2016 l’amministrazione soccombente in terzo grado nel 62 per cento dei casi, restano così aggredibili 51,9 miliardi, con una previsione di concreto realizzo che si riduce a 29 miliardi.
Nella migliore delle ipotesi potrebbe rientrare il 3,5 per cento. Da chiarire come ciò si possa conciliare con i roboanti risultati nella lotta all’evasione (una ventina di miliardi introitati, secondo Maria Elena Boschi).
E veniamo ai controlli.
Di Vizio segnala che nel 2016 gli accertamenti dell’Agenzia delle entrate sono calati del 33,8 per cento, passando da 301.996 a 199.990. Logico, perciò, che gli introiti siano diminuiti del 17,2 per cento, da 7,4 a 6,1 miliardi. Al netto, va precisato, della cosiddetta “voluntary disclosure”.
Qui sta il bello. Perchè dietro a quelle due paroline inglesi apparentemente misteriose si nasconde la spiegazione di dove sparisce una bella fetta dei soldi rubati al Paese. Ma questa è un’altra storia.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 4th, 2017 Riccardo Fucile
UN BUSINESS MILIONARIO SULLA PELLE DEI PROFUGHI
«Mi vergogno. È brutta. E poi vedrai anche la mia pancia».
Slaccia piano la cintura. Slip azzurri, solleva la camicia. Ci sono troppi specchi del salotto buono di una casa di amici iracheni migrati a Colonia.
La cicatrice gli spezza il fianco destro dalla schiena all’addome. «Te l’avevo detto». Bakhtiar, ex soldato di Sulaymaniya, di brutto ha anche quel che l’esplosivo di un kamikaze dell’Isis gli ha fatto all’intestino. Sei operazioni, le schegge da rimuovere, tratti maciullati, suture veloci e il baricentro di ogni corpo umano, l’ombelico, spostato di dieci centimetri da un lato.
Al risveglio da una di quelle anestesie, un bruciore nuovo sotto nuove garze. «Ma qui?» chiede all’infermiera dell’ospedale privato di Ankara dove lo hanno portato dopo il visto negato per curarsi in Germania.
«Sono stati chiamati due chirurghi esterni, qualcuno in clinica riteneva di non aver ricevuto i soldi per le sue cure», rileva un medico al telefono. È una prova.
Secondo i referti iracheni i reni erano quelli belli di un ragazzone di trentacinque anni. Ragazzone a cui le cartelle turche non sono mai state consegnate.
Pochi giorni dopo l’ultima operazione un uomo è entrato nella sua stanza e ha cominciato a staccare i quadri: «La clinica trasloca, te ne devi andare».
Sul telefono, la foto di quell’insegna rossa illuminata. « Me lo hanno rubato, il rene. Gli farò causa» dice mentre scorre le foto coi tubi che gli uscivano dalla pancia, la faccia gialla, una ragazza taciturna come interprete: «All’inizio erano diffidenti, pensavano fossi dell’Isis perchè avevo la barba lunga».
Non riesce a sorridere. «Secondo te i medici rimangono impassibili quando sanno che chi operano, il rene l’ha rubato a un altro?».
Ha deciso di raccontare la sua storia per denunciare che quel che è capitato a lui non è un fenomeno isolato.
Bakhtiar, soldato peshmerga di Sulaymanyya, città a sud Kurdistan iracheno, due anni fa è rimasto ferito da un’autobomba dell’Isis.
Le schegge e i gravi danni all’intestino gli sono stati quasi fatali. Dopo le cure negli ospedali del suo paese, è stato trasferito in una clinica privata di Ankara, in Turchia. Qui, operato da medici che non conosceva, alla fine di una delle numerose operazioni a cui è stato sottoposto, si è svegliato senza il rene destro.
«Voglio portarli in tribunale. Il mio rene era sano»- spiega. Ma mentre la giustiza accerterà i fatti, in Turchia e in Egitto, paesi già meta di turismo sanitario, la crisi siriana e i flussi di profughi stanno alimentando il fenomeno del mercato illegale di organi. Soprattutto reni.
Questo è un commercio speciale rispetto al sesso o alle migrazioni. Se è un furto, l’anima te la rubano. Se ti uccidono, l’anima te la strappano. Se è un contratto, l’anima la vendi e sei un “mangiatore di te stesso”.
Ed è l’unico in cui si è disperati in due: chi vende per vivere, chi compra per non morire.
Il mercato nero degli organi interessa solo il 10 per cento dei trapianti.
Una “tratta”che genera da 840 a 1,7 miliardi di dollari l’anno e in cui il coinvolgimento di “mediatori” ha prodotto un aumento anche del 500 per cento del prezzo di un trapianto illegale.
La crisi siriana è l’ultima piazza di questo mercato, insieme alla tratta dei migranti: gli organi, reni in particolare, vengono “donati” da Libano, Giordania, Siria, Turchia, Iraq, nord Africa.
Certi pazienti dai Paesi del Golfo, ma anche Russia, Israele, Stati Uniti ed Europa, raggiungono Turchia ed Egitto per le operazioni.
Questi, già mete di turismo sanitario, con il Libano hanno accolto quattro milioni di siriani che, dal 2012, qui e a Damasco in 20.000 avrebbero venduto un rene.
Interpool e governi ricostruiscono tratte frammentate e non inchiodano mai “reti criminali transnazionali” perchè le testimonianze sembrano più verosimili che vere, hanno giurisdizioni diverse da mettere d’accordo, filoni di “prove” che si interrompono, reati che ne camuffano altri e procedure di “ripulitura degli organi”. Perchè è illegale comprare e vendere un organo, ma legale è pagare per organizzare un trapianto.
E legale è il sentimento della vergogna segreta che si prova ma che perde sempre se si batte con la paura. Vale per tutti, poveri e ricchi
«Il giorno dopo sono voluto andare a casa. Ma sanguinavo e avevo paura dell’infezione. Mi ha pagato la segretaria della clinica con i soldi in una busta. Erano meno del previsto. Non so chi abbia comprato e non ho più visto i broker. Volevo che nessuno sapesse quello che mi era successo».
Età ideale, tra i 20 e i 35 anni. Anche fegato e cornee, ma il 99 per cento del commercio riguarda i reni: è un’operazione veloce, massimo 4 ore.
Se non c’è la laparoscopia, si taglia. L’organo espiantato si pulisce pompando via tutto il sangue e se possibile si impianta entro un’ora.
Centinaia di piccole cliniche private, dove si praticano anche aborti, operano spesso di venerdì.
L’Egitto dal febbraio 2010 vieta vendita, trapianto da donatori deceduti, autorizza l’operazione solo tra cittadini egiziani e infligge anche la pena di morte ai trasgressori. Le vittime delle 60 persone tra medici universitari, infermieri, intermediari che componevano i sodalizi sgominati dalla polizia de Il Cairo ad agosto e nel dicembre scorso, erano egiziani.
Ma i “clienti” migliori sono gli eritrei, i somali, i sudanesi dei flussi verso l’Europa.
E i siriani. Per tutti, status complicato, niente reddito, niente speranze. Certe organizzazioni di trafficanti collaborano con questo business: se i migranti non hanno contanti, possono vendere.
La rete egiziano-sudanese svela la “legalizzazione”. Capitale divisa in zone: Maadi, Downtown Cairo, Dokki, Heliopolis, Nasr City.
Qui gli intermediari curano i rapporti con laboratori e ospedali attrezzati. In strada, nei mercati, negli alberghi e nelle caffetterie intanto, piccoli broker fanno reclutamento, convincono, persuadono.
Si vende per sopravvivere o per far viaggiare un familiare. Trovato il donatore, concordano la percentuale e incontrano l’intermediario. È lui che conosce il “borsino” del periodo e in due settimane fa fare al donatore tutti i test diagnostici necessari per abbinarlo a un compratore.
Appena succede, non si torna indietro: si viene accompagnati in ospedale per la nefrectomia. Il laboratorio o l’ospedale richiedono prima il nulla osta al trapianto inviando al comitato etico dell’Egypt Syndicate Medical i documenti di paziente e donatore specificando che di “donazione” si tratta.
Tra quelli del donatore c’è un affidavit, una dichiarazione di consenso firmata secondo le istruzioni del broker oltre a un modulo che solleva la clinica da eventuali accuse. «L’aspetto criminale è esternalizzato – spiega Seà¡n Columb, ricercatore dell’Università di Liverpool – Il pagamento è versato alla clinica da un intermediario. È contabilizzata solo l’operazione. Il resto va ai soggetti coinvolti nella trattativa».
Prezzi: dai 20 ai 100 mila dollari di cui solo 3-5 mila al donatore.
Sotto i diecimila dollari poi il versamento su un conto corrente non desta sospetti.
Il restante transita attraverso paesi come Francia, Germania e Stati Uniti tramite piccoli pagamenti coi servizi di money transfer, difficili da tracciare.
«Gli ospedali egiziani fanno dieci, dodici trapianti a settimana. Un milione di dollari di profitto circa. E se è così tutte le settimane, sono 15 milioni di dollari per ogni chirurgo all’anno – aggiunge Campbell Fraser, ricercatore della Griffith University in Australia – Con esperti di riciclaggio stiamo analizzando i flussi. Il timore è che finanzino il terrorismo».
Al Cairo anche una rete di broker turchi tratta venditori da Libia, Somalia, Eritrea.
E i siriani, che arrivano dai sobborghi e dai campi profughi del Libano. Qui il broker pianifica il viaggio fornendo documenti e alloggio nelle “case sicure“, appartamenti in cui rimangono in attesa di un acquirente compatibile.
Acquirente che in Turchia fa l’accordo, le analisi e gli accertamenti, poi li raggiunge per l’operazione.
Una volta ricevuto il rene, appena possibile lascia la clinica per avere cure post operatorie adeguate in Turchia. C’è il rischio di rigetto. Il venditore invece, dopo l’espianto, viene ricucito e in pochi giorni deve andarsene.
La convalescenza spezza lo spirito e implica dolori, sanguinamenti, immobilità . I soldi finiscono quasi subito. Molti non potranno più lavorare. Anche Ankara vieta la vendita e autorizza solo le donazioni tra consanguinei. «Ho finto di essere la cugina di un uomo saudita. I documenti erano falsificati e l’operazione è stata fatta ad Ankara. Ho preso i 5 mila dollari e li ho spediti ai miei figli» racconta una donna. Piange.
I siriani dei sobborghi di Gaziantep, Adana, Istanbul ricevono la proposta o cercano i contatti giusti in rete.
Gli stranieri che portano un loro donatore si operano qui senza andare in Egitto. Molti sono russi. «Chi ti ha dato il mio nome?» chiede il broker al primo incontro, spesso in hotel di Istanbul o di Ankara.
Fa domande mediche precise e la seconda volta chiede 10 mila dollari, per capire che fa sul serio. Sono loro a fare “revisione etica” dell’operazione aiutando a falsificare i documenti di identità del donatore. Gli ospedali possono ritenersi “ingannati”: verificare l’identità di uno straniero non è sempre immediato.
Dieci piccoli broker
Organizzazioni transfrontaliere e reti locali. E gerarchie: capi-intermediari, reclutatori. Broker per compratori e venditori. Questi ultimi guadagnano meno, a volte fanno un altro lavoro, hanno una famiglia, sono giovani. E reclutano dopo aver venduto essi stessi un rene. In certi casi sono stati i medici a proporre loro di trovare altri donatori in cambio di 500 dollari a transazione. Anche chi acquista un organo può diventare a sua volta broker.
«Non so dove portino gli organi espiantati e non mi interessa cosa succede loro, dopo l’operazione» ha spiegato alla Bbc un broker di Beirut. Il Libano è un paese di transito.
Grandi ospedali controllati e donazione solo a consanguinei. Ma lavorano una decina di broker a cui si rivolgono anche i palestinesi dei grandi campi profughi.
Non organizzano viaggi in Egitto: li accompagnano a fare i test, il giorno dell’operazione li conducono in luoghi segreti attrezzati e li assistono nella settimana post intervento.
Ma in Libano, come in Libia, sedicenti Ong svolgerebbero compiti di segnalazione e reclutamento anche per i trafficanti che organizzano i viaggi in Europa. È anche l’epilogo del noto business dei rapimenti con riscatto di Khartoum, in Sudan. Qui lavorano broker cinesi che organizzano viaggi di sudanesi e somali. In Somalia invece sono operativi broker turchi.
L’Iraq e l’ombra dell’Isis
«Allah ti ha dato due reni. Così se un fratello musulmano ha bisogno di aiuto, poi dargliene uno», dicono alle persone meno istruite, poveri e rifugiati in Iraq e nel Kurdistan iracheno.
Anche qui il ricevente deve essere un parente. I medici controllano il documento di consenso alla donazione e la certificazione di parentela del ricevente, che viene falsificata. Pagamento a fine intervento. Dai 4 ai 7 mila dollari a rene. Gli acquirenti sono iracheni, turchi o sauditi.
Un rapporto esclusivo, firmato dall’organizzazione Jtip – Heartland Alliance International con l’Independent Human Right Commission del Kurdistan, parla di vittime nei campi profughi, indica le storie di alcuni acquirenti e pubblica il nome dei medici che li hanno operati a Erbil e a Baghdad.
E rende nota la testimonianza di una vittima di tortura che rivela la presenza di un’organizzazione criminale specializzata nel reclutare disabili per falsi trattamenti medici: li destinerebbe a espianti e attacchi suicidi.
«Si può fare a Erbil o Suleymaniya. All’epoca di Saddam Hussein l’Iraq aveva buoni ospedali privati per fare i trapianti, ma oggi è ritenuto poco sicuro» spiega Fraser, che lo definisce: «Un grosso centro di raccolta di organi». «Molti medici iracheni, oggi residenti all’estero, stanno rientrando. Il mercato potrebbe crescere». C’è l’ombra di medici stranieri invece sul caso Isis.
Due anni fa gli Stati Uniti rivelano l’esistenza di una fatwa dello Stato Islamico, datata 31 gennaio 2015, che autorizza l’estrazione di organi prima o dopo la morte su prigionieri e infedeli. Secondo l’analista iracheno Hisham al Hashimi, donazioni forzate di sangue, espianti di cornee e altri organi sarebbero state eseguite a Mosul su condannati a morte.
Le notizie dell’uccisione di 12 medici che rifiutavano di eseguire queste operazioni, di ritrovamenti di decine di cadaveri “aperti” e con gli occhi strappati, dell’esistenza di uno speciale reparto chirurgico guidato da un medico tedesco “che vive al secondo piano dell’ospedale di Ibn Sina, accanto alla sala operatoria senza lasciare mai l’edificio”, non sono state confermate.
E non è stata confermata neanche l’esistenza di una unità medica dotata di mezzi con celle frigorifere per trasporti in Siria e in Kurdistan e la recente vendita di 30 bambini ai trafficanti turchi per finanziare operazioni militari a Mosul.
Un filo spezzato fino all’Italia
«Noi siamo arrivati alla Svizzera. È li che arrivano molte indagini, come quelle del traffico di opere d’arte o flussi finanziari. Ma non si unisce mai la A con la Z, il filo si spezza. Quel commercio è in ogni guerra, lo abbiamo visto col Kosovo».
Una fonte investigativa parla di un vecchio dossier e indagini sul mercato illegale degli organi svolte a livello internazionale.
In Italia i controlli e la possibilità di scegliere la lista negli ospedali disinnesca il fenomeno. Ma liste non ufficiali, possibilità di “scalarle”, di cartelle che non vengono registrate, in Europa non sono leggende.
«I numeri del fenomeno non sono colossali, ma la verità è che non c’è un vero interesse a far luce, ci sono molti ricchi occidentali potenti che vogliono vivere».
Nel 2009 un traffico di cornee dal Belgio condusse al nome dei Casamonica, ma il tentativo di acquisto attraverso un falso acquirente non portò a nulla. «Al momento non ci sono molti casi di migranti arrivati da noi con un taglio da prelievo di rene» spiega la fonte.
Ma in Libia, un noto uomo d’affari serbo e commerciante di armi sta acquistando cliniche e piccoli ospedali: «Un cambio di attività . I medici serbi fanno queste operazioni. Se non è già accaduto, potrebbe succedere».
(da “L’Espresso”)
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Ottobre 4th, 2017 Riccardo Fucile
SI SCATENA LA SOLITA FOGNA: “VENDUTO! MAFIOSO! SERVO DEI PARASSITI!”
La relazione complicata tra i fan del MoVimento 5 Stelle e chi dice quello che pensa su Roma
prosegue.
Dopo Anna Foglietta, stavolta a finire sotto gli strali dei grillini è Lino Banfi per il suo intervento a DiMartedì da Giovanni Floris.
Nel primo intervento, dedicato a Roma, dice che «c’è un degrado, raghezzi… Ogni sindaco dice che ha trovato un casino prima di lui e dice che faremo di più. Di più qui ci sono solo i topi che sono più pesanti di prima»
La sua pagina Facebook si riempie di insulti: lo dipingono come alleato “con la mafia, un vecchio mafioso, pidocchioso che non ama Roma e i giovani”, tanto per cominciare.
C’è anche chi lo accusa di essere corrotto e di non avere “un briciolo di dignità ”.
E c’è anche chi esagera: “vecchio rincojonito hai mentito a chi ti ha dato soldi e notorietà pur facendo dei film da terzo mondo, i topi sono i tuoi film che nessuno conosce fuori dall’italia e ti sei messo contro 10 milioni d’italiani che vogliono il vero cambiamento per il futuro dei loro figli, ritirati perchè la tua carriera è finita qua noi NON DIMENTICHIAMO”.
Su Facebook la marea montante: «Mi hai profondamente deluso , sei anche tu un servo di sti parassiti , ma dove eri gli anni passati , non ti accorgevi di niente ? VERGOGNA , adesso che X fortuna c’è una persona onesta e valida siete tutti ( i leccaculo) a dargli addosso , avete paura e fate bene perchè alle prossime elezioni sarete scancellati X sempre!»
In attesa di essere “scancellati” sarebbe opportuno che Minniti facesse il suo dovere: facendo visita a casa a questa fogna che insulta e minaccia, come accade nei paesi civili.
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 4th, 2017 Riccardo Fucile
AGHI LUNGHI DIECI CENTIMETRI SPARATI DA UN’AUTO NEL QUARTIERE POPOLARE DI SAN PAOLO
La scorsa settimana cinque persone sono rimaste ferite da aghi lunghi una decina di centimetri sparati da un’auto di passaggio a Torino.
Molto simili, spiega oggi La Stampa agli «Sprotte» che vengono utilizzati negli ospedali per le iniezioni.
Sono stati tutti colpiti in zona San Paolo: area semicentrale, da qualche tempo in sofferenza per i problemi legati ad una sempre più massiccia presenza di disagio sociale.
All’inizio tutti hanno temuto fossero aghi infetti. Le analisi di laboratorio però lo hanno escluso: l’unico pericoloso è rappresentato dalle piccole ferite che ciascuno ha trovato dopo essere stato colpito. Il quotidiano spiega che è mistero anche sullo strumento utilizzato per spararli.
Con cosa? Nessuno, probabilmente, lo saprà mai. Ma, per lanciare oggetti di pochissimi grammi, con così tanta precisione e facendoli diventare dei proiettili in grado di fare male, non bastano le mani.
Le possibilità sono due. La prima è che sia stata adoperata una pistola ad aria compressa: facile da usare e da reperire. Ma in ballo c’è anche un attrezzo decisamente più sofisticato e pericoloso.
Ovvero una pistola sparachiodi a gas, magari modificata con un pezzo di tubo attaccato all’uscita: «In modo da imprimere un maggiore stabilità e direzione certa agli aghi». Ecco, la storia è tutta qua. I feriti sono stati visitati e medicati, e immediatamente dimessi. L’auto con i folli a bordo non ha più colpito.
Ma negli ospedali se ne parla con gran preoccupazione: «Perchè potevano essere aghi usati da tossici e poi riciclati come proiettili».
Ma per adesso non ci sono prove che sia andata così. Una pistola sparachiodi usata per bucare muri e cemento costa oltre 400 euro.
(da agenxie)
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Ottobre 4th, 2017 Riccardo Fucile
SOLO MENTI MALATE E RAZZISTI POSSONO PENSARE A TASSARE IL VOLONTARIATO: “BLOCCHEREMO I SERVIZI SOCIALI SUL TERRITORIO, BASTA COPRIRE I VUOTI CHE SPETTEREBBERO AL COMUNE”
Non siamo un albergo. Ma se il Comune ci tratterà come tale, bloccheremo i nostri servizi sul
territorio: addio volontariato dei richiedenti asilo e stop alle attività caritatevoli degli enti ecclesiastici.
Suona così, la reazione dura e indignata del variegato mondo dell’accoglienza dei migranti di Genova. Cooperative, consorzi, comunità legate alla Chiesa: il terzo settore impegnato nell’ospitalità dei richiedenti asilo (che a Genova sono circa 2.500) risponde all’attacco del Comune innalzando il livello dello scontro.
Perchè hanno fatto sobbalzare, le parole dell’assessore alla Sicurezza Stefano Garassino che sta studiando un’ordinanza per colpire e disincentivare l’apertura dei centri. “Il business dei migranti ci ha rotto le palle”, ha scandito lo sceriffo della giunta Bucci, promettendo un’ordinanza inattaccabile dal punto di vista legale, ispirata a quella del primo cittadino leghista di Pontinvrea, Matteo Camiciottoli, che equipara le cooperative ad alberghi tassandole di conseguenza, e pretende un contributo compensativo all’ente locale per le spese di sicurezza e welfare.
“Se fosse il Comune di Genova a dover fornire una compensazione economica a tutte le attività degli enti caritatevoli – incalza Enrico Costa, presidente del Ceis, il centro di solidarietà di Genova – andrebbe rapidamente in default”.
I rapporti tra la giunta Bucci e la Chiesa sono, in questi giorni, ai minimi termini per la vicenda di Multedo: con Garassino che ha definito “nemico pubblico numero uno” chi gli crea problemi sul territorio, riferimento neanche troppo velato a don Giacomo Martino, direttore dell’Ufficio Diocesano Migrantes che si occupa dell’accoglienza dei 50 migranti all’ex asilo Govone.
La stoccata, dunque, arriva da una delle realtà più impegnate sul territorio, il Ceis appunto: “Il Comune – scandisce Costa – dovrebbe tenere conto di tutte le attività non a carico dei contribuenti che parrocchie e centri ecclesiastici svolgono: dalle mense all’ospitalità dei senza dimora, per non parlare delle bollette Iren pagate per aiutare chi non arriva a fine mese. Non solo: se dovessimo dare un valore ai lavori che i richiedenti asilo svolgono come volontari per la città , sarebbe l’amministrazione a dover versare un contributo”.
Contesta innanzitutto il metodo di Palazzo Tursi, Marco Montoli de Il Ce.Sto, protagonista di un’accoglienza diffusa in appartamento e delle attività sociali ai Giardini Luzzati: “Genova è considerata un’eccellenza per la gestione dei migranti – ragiona Montoli – prima di proclami di questo tipo, bisognerebbe quindi partire da dati concreti: c’è una analisi seria di quello che funziona o meno nel settore? Perchè se ci fossero criticità , andrebbero discusse insieme, al forum del terzo settore”.
Secondo punto: il presunto business. Garassino parla di 40 euro al giorno a migrante, tra l’altro sbagliandosi, perchè la cifra corretta è di 32.
“Noi non siamo un albergo, forniamo servizi e riceviamo denaro per svolgere il nostro compito. Inaccettabile il pregiudizio secondo il quale tutti rubano”.
Quanto alla lista dei nomi dei richiedenti asilo ospitati da consegnare preventivamente a Palazzo Tursi, “di fatto è già a disposizione – sottolinea Walter Carrubba di Croce Bianca – e noi i nomi li veniamo a sapere nel momento in cui arrivano. L’assessore i nostri elenchi li ha già visti: possiamo fornire anche il numero di scarpe degli ospiti”. E sull’ordinanza allo studio, “ritengo sia illegittima, e se facessimo ricorso al Tar vinceremmo”.
Ecco infatti il punto è questo: rivolgersi alla magistratura e chiedere i danni: ma non al comune, ai politici razzisti.
“Noi versare 2.50 euro a profugo al giorno? Folle, così saremmo costretti a tagliare altri servizi – spiega Roberto Vinzoni, presidente de La strada giusta – e pensare che per i loro lavori di volontariato paghiamo di tasca nostra il materiale ai ragazzi per le pulizie sulla spiaggia di Voltri, la polizza Inail, la copertura assicurativa. Quanto al business, di cosa stiamo parlando? Per i ritardi ministeriali, devono pagarci ancora dicembre. E noi anticipiamo somme immense”.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 4th, 2017 Riccardo Fucile
PROVVEDIMENTO FORMALIZZATO STAMANE DOPO LA DIFFUSIONE SUI MEDIA DELLA FOTO
Un cittadino italiano è stato fermato dalla Squadra Mobile di Milano per la violenza sessuale a carico di una bambina cinese delle scuole elementari commessa l’11 settembre in via Bramante, zona China Town, Milano.
Ieri ne era stato diffuso l’identikit con una serie di fotografie prese dai frame delle telecamere che controllano la zona.
Negli scatti l’uomo cammina con passo deciso, col braccio destro stringe una giubbotto marrone, ha i capelli biondi rasati, indossa una maglietta nera a maniche lunghe, jeans e scarpe nere, è alto circa un metro e ottanta, ha la carnagione chiara e le orecchie sporgenti, è magro, ha tra i 30 e i 40 anni.
Gli investigatori della Squadra mobile e la Procura hanno deciso di diffondere le immagini riprese dalle telecamere installate in zona per accelerare i tempi dell’individuazione del presunto pedofilo.
La buona qualità dei filmati permette di poter essere molto precisi nel riconoscimento, il livello di definizione è tale da non consentire margine di errore.
Se è stata fornita la sua foto, spiegava ieri l’agenzia di stampa ANSA, significa che non è presente nel database delle forze dell’ordine e che questo episodio potrebbe essere l’unico consumato finora.
Che l’uomo nel video sia l’autore della violenza sulla bambina, spiegano dalla questura, non ci sono dubbi.
Il suo percorso è stato registrato passo a passo fino all’uscita dall’inquadratura. La violenza è avvenuta in pieno giorno, l’uomo ha trascinato la bambina cinese prima di essere messo in fuga dall’arrivo di condomini attirati dalle urla della vittima.
La piccola era stata molto precisa nel suo racconto, aveva parlato di un uomo di circa 40 anni, di corporatura grossa, vestito con un jeans e una maglietta blu.
Le immagini provengono da una telecamera che lo ha ripreso camminare in via Sarpi, una strada limitrofa a quella dove e’ avvenuto il fatto. La piccola era stata spinta nel cortile di un caseggiato quindi molestata: l’accusa era comunque di violenza sessuale.
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2017 Riccardo Fucile
PARLA LA RAGAZZA CHE HA DENUNCIATO PARENTOPOLI IN PARLAMENTO
Parentopoli in Parlamento: Mario Caruso, deputato del Centro democratico, avrebbe assunto il figlio
del sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi, Fabrizio, mai presente al lavoro. E pagato dal padre, che ha rimesso le deleghe e va verso le dimissioni.
Il caso è stato denunciato alle Iene da una ragazza, Federica B., che invece ha lavorato come assistente per Caruso senza mai ricevere un compenso.
Anzi, dovendo spesso resistere alle avance sessuali dell’uomo, secondo quanto ha dichiarato in tv.
Al Corriere della Sera la 30ene laureata in Giurisprudenza e con un master in Politiche pubbliche in Parlamento ha lanciato un appello alla presidente della Camera Laura Boldrini.
“La mia paura più grande è che ora mi lascino sola. Vorrei che le istituzioni e la presidente Boldrini mi aiutassero a superare questa situazione e a trovare un lavoro. […] Ero renziana. Lo stimo ancora, ma sono schifata da tutto, dopo quello che ho visto”.
Federica B. ha rivelato di aver avuto anche attacchi di panico a causa delle insistenze di Caruso.
“Un mese e mezzo dopo l’inizio, mi invita a cena con l’inganno. Mi dice che sarebbe stata una cena di lavoro con altri, ma ci troviamo io e lui, in un ristorante di piazza Cavour. Lì mi spiega che se andavo a letto con lui, mi avrebbe messo nella segreteria di qualche Commissione. Rifiuto: non sono una scappata di casa, ho famiglia. Ogni occasione è buona per restare solo con me. Comincio a soffrire, ho attacchi di panico. Dopo i tre mesi, mi promette un contratto, che non mi farà mai.
Quindi, la denuncia in tv:
“Vengo a sapere che Caruso ha assunto il figlio del sottosegretario Rossi, Fabrizio, che non viene mai e non lavora. A lui dà 500 euro al mese, a me neanche il pranzo. È raccapricciante. Poi dici che i giovani devono crescere”.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 4th, 2017 Riccardo Fucile
L’ODISSEA DI STEFANIA A ROMA, TRA MINACCE E INSULTI RAZZISTI
Stefania, studentessa all’istituto alberghiero, ha 18 anni e vive a Roma con i due fratellini di 5 e 6 anni e la madre, di origini nigeriane ma in Italia da oltre 30 anni.
Sette anni fa la mamma, disoccupata, fa richiesta di una casa popolare.
Il 9 novembre del 2016 arriva la bella notizia: l’assegnazione di un alloggio Ater, l’azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica del comune di Roma. L’assegnazione però non va a buon fine, perchè al momento della consegna, in presenza dei funzionari Ater, la famiglia trova l’alloggio già occupato.
Nell’arco degli ultimi 11 mesi la storia si è ripetuta per altre 5 volte in alloggi sempre diversi ma con le stesse modalità , costringendo la famiglia a trovare sistemazioni di fortuna o a chiedere ospitalità da amici.
In più di una occasione inoltre, durante la consegna delle abitazioni, la famiglia ha subìto minacce e insulti razzisti da parte degli occupanti abusivi e dei loro familiari.
A dimostrazione che la legalità nella gestione delle case popolari non esiste e lo Stato abdica al suo ruolo, permettendo che gruppi delinquenziali gesriscano di fatto il racket degli alloggi popolari.
E la sedicente destra ovviamente non sta dalla parte della legalità , ma fa da guadiaspalla agli abusivi e ai mafiosi che gli stanno dietro.
(da aagenzie)
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Ottobre 4th, 2017 Riccardo Fucile
OGNUNO SI DEVE ASSUMERE LE PROPRIE RESPONSABILITA’
Josep Lluis Trapero, il capo dei Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, è stato convocato in tribunale
con l’accusa di sedizione.
Secondo la Vanguardia online, Trapero rischia tra i quattro e gli otto anni di carcere. La convocazione – spiega la stampa spagnola – nasce dalla denuncia della procura generale dopo una manifestazione il 20 settembre scorso davanti al Dipartimento dell’economia del governo catalano, dove era in corso una perquisizione per rallentare i preparativi del referendum d’indipendenza del primo ottobre.
Oltre a Trapero è indagata la sua numero due Teresa Laplana.
Il reato di sedizione in Spagna è punibile con una condanna da quattro a otto anni di carcere, 15 anni se a commetterlo è un’autorità .
I Mossos sono nell’occhio del ciclone dopo che i loro agenti hanno scelto di non usare la forza per sgomberare i seggi del referendum illegale sull’indipendenza catalana domenica scorsa. Sono intervenute la polizia nazionale e la Guardia civil che hanno causato oltre 840 feriti.
La tensione tra Barcellona e Madrid resta altissima, con la sindaca del capoluogo catalano che, in un’intervista a Repubblica, ribadisce la linea dura: dopo le violenze del primo ottobre, con Rajoy è impossibile trattare.
“Domani ci sarà la seconda riunione. Il Manifesto sottoscritto a Saragozza il 24 settembre è stato il primo passo di un progetto politico che punta ad arrivare a un’alternativa al governo Rajoy. È una mano tesa ai socialisti di Pedro Sanchez. Solo un nuovo governo può trattare con la Catalogna, ormai, dopo le violenze di domenica scorsa”, afferma la sindaca di Barcellona Ada Colau, per la quale “una trattativa che porti a un referendum concordato fra Spagna e Catalogna è l’unica via d’uscita da questa situazione pericolosissima”.
“La dichiarazione unilaterale d’indipendenza non è una soluzione, porterebbe certamente alla sospensione dell’autonomia catalana da parte del governo centrale con conseguenze che nessuno può immaginare. Serve quindi – spiega – un governo in grado di trattare con la Generalitat catalana, e questo non è il governo di Mariano Rajoy”.
La sindaca ha già rivolto un appello alla responsabilità al Psoe.
Colau ha votato scheda bianca, non è a favore dell’indipendenza ma, dice, “votare dev’essere possibile, sempre. La Catalogna deve poter votare”.
(da “Huffingtonpost”)
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